Storia di una poesia

Autori: Luzi Mario

L’incontro con il grande poeta fiorentino si è tenuto il 18 ottobre 1983 nella libreria “CCDC” di corso Magenta a Brescia alle ore 18,15.

Luzi, Mario – Nacque il 20 ottobre 1914 a Castello, frazione di Sesto Fiorentino, secondogenito di Ciro (1882-1965), locale funzionario delle ferrovie, e di Margherita Papini (1882-1959); la sorella maggiore, Rina (1912-2002), fu sposa del medico Giacomo Olmo e madre di Carlo, storico dell’architettura. La famiglia paterna era di origini marchigiane, di Montemaggiore al Metauro (Pesaro-Urbino), ma entrambi i genitori erano nati e vissuti in alta Maremma, a Samprugnano (oggi Semproniano, Grosseto), dove Luzi trascorse tutte le estati dall’infanzia fino al 1940: «Nell’infanzia io avevo come termine di paragone immediato il paese, Samprugnano, […] e il borgo fiorentino di Castello. Su questo fondo si staccava, senza avere nulla di conclamato, la figura di mia madre. […] Mi affascinava il suo trasportare tutte le cose in una interiorità, che forse la società modesta in cui si viveva allora non sentiva come bisogno primario. Il cristianesimo è stato prima di tutto un’ammirazione e una imitazione di mia madre. Io sono entrato per quella porta, che era una porta naturale, ma anche già selettiva. Altre figure di donne di chiesa o l’esperienza catechistica non mi dicevano nulla, anzi di queste ero piuttosto insofferente» (La porta del cielo: conversazioni sul Cristianesimo, a cura di S. Verdino, Casale Monferrato 1997, p. 10). Frequentò le scuole elementari pubbliche (1920-24) nelle scuderie della villa Reale di Castello; meritevole, saltò la classe quinta e dall’autunno 1924 fu iscritto al ginnasio statale Galilei di Firenze. Nel 1926 il padre fu trasferito alla stazione ferroviaria di Rapolano Terme nel Senese; per evitare al ragazzo il pendolarismo fino a Siena, nell’ottobre 1926 fu affidato allo zio paterno Alberto Luzi (1891-1940), anch’egli funzionario ferroviario e residente a Milano, dove il giovane cominciò la terza ginnasio al liceo Parini. Ma la lontananza dalla famiglia risultò ingrata e dopo pochi mesi, nel febbraio 1927, rientrò in casa a Rapolano, completando gli studi ginnasiali al Tolomei di Siena, con sistemazioni provvisorie in città da amici e parenti. «Dunque adolescente, scoprii l’arte, la lingua nella sua più pura, casta potenza, l’amicizia, l’amore, e quella tensione interna che per alcuni era il futuro, per altri a me carissimi era l’assoluto, invece. […] Tutto questo sotto il sole e sotto le nevi, ugualmente sfolgoranti, di Siena» (Toscana mater, a cura di C. Fini – L. Oliveto – S. Verdino, Novara 2004, p. 99). A seguito di un nuovo trasferimento paterno (ora capostazione titolare, di nuovo a Castello), fece ritorno nel suo borgo natio e frequentò a Firenze (1929-32) il liceo classico Galilei, dove ebbe come insegnante Francesco Maggini, noto studioso di Dante, discepolo di Pio Rajna ed Ernesto Giacomo Parodi. «La mia ambizione era la filosofia. Al liceo spesso marinavo la scuola per andare a leggermi in pace i miei filosofi, specialmente S. Agostino di cui il decimo libro delle Confessioni doveva poi diventare il mio breviario per tanti aspetti. Fu quello l’unico periodo nel quale frequentai le biblioteche. Lessi allora anche taluni scrittori moderni come Mann (Disordine e dolore precoce) e Proust. Soprattutto il Dedalus di Joyce mi colpì in pieno petto. Mi accorsi che i veri filosofi del nostro tempo erano alcuni grandi scrittori e la vocazione infantile per la poesia si confortò» (M. L., in Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di E.F. Accrocca, Venezia 1960, p. 252). Pubblicati i primi versi su Il Feroce (luglio e novembre 1931), rivistina mensile animata da Fosco Maraini, nel novembre 1932 cominciò a frequentare giurisprudenza all’Ateneo fiorentino, ma già a dicembre si trasferì a lettere: fu allievo di Attilio Momigliano e di Emilio Paolo Lamanna, però i suoi principali maestri furono Giorgio Pasquali e Luigi Foscolo Benedetto. Una prima prova da francesista fu Il viaggiatore Chateaubriand (in Rivista universitaria, I [1933], 2, aprile, pp. 104-112). Tra i compagni di corso fece amicizia per primo con il coetaneo Piero Bigongiari, successivamente conobbe Oreste Macrí e i già laureati Carlo Bo e Leone Traverso, due fondamentali interlocutori per la sua formazione; luogo di ritrovo era il Caffè S. Marco, sulla piazza davanti l’università, mentre presso l’alloggio di Bo (in piazza d’Azeglio) aveva accesso alla ricca biblioteca francese dell’amico. In una delle riunioni del sabato del Frontespizio (su cui scrisse dal 1935), in via dei Pepi 5, conobbe nel 1933 Piero Bargellini e Carlo Betocchi, con il quale ebbe un intenso sodalizio umano. Collaborò assieme a Bigongiari, Macrí e Traverso a Il Ferruccio (1933-35), rivista pistoiese curata da Braccio Agnoletti, con note di critica letteraria, d’arte e di cinema (Nota sulla Garbo, 2 febbraio 1935) e vi pubblicò Due poesie (29 luglio 1933); altri versi uscirono poco dopo ne L’Italia letteraria (17 settembre 1933: la rubrica era intitolata «Il dittamondo» per esordienti) e nel bolognese L’Orto (ottobre 1933). A fine 1933 conobbe la studentessa di lettere Elena Monaci (Ascoli Piceno 1913 – Firenze 2009), che più tardi divenne sua moglie; nel suo nome Due poesie (Serenata di piazza d’Azeglio, dove abitava, ed Elena) apparvero sempre in L’Italia letteraria (20 ottobre 1934). Altra importante amicizia si avviò nel 1934 con Romano Bilenchi, giovane giornalista alla Nazione, nel nome di una comune passione di lettura per François Mauriac, sul quale Luzi discusse con Benedetto nel 1936 la sua tesi di laurea, poi rielaborata in volumetto (L’opium chrétien, Parma 1938). «Tra il ’34-’35 scrissi parecchie poesie abbastanza omogenee, poi sfrondate, forse anche troppo impietosamente. Ne pubblicai un gruppo ne La barca, il mio primo libretto» (M. Rak intervista M. L., in Mondoperaio, 1986, aprile, p. 106). Gli autografi delle 21 poesie di La barca e delle rimanenti poesie inedite, smarriti nel tempo dal poeta, furono segnalati nell’ottobre 2001 dal bibliofilo Beppe Manzitti presso un antiquario fiorentino, in seguito acquisiti dal Centro studi «La barca» di Pienza; i versi rimasti inediti, tranne uno espunto dall’autore, furono pubblicati (31 testi) con il titolo Poesie ritrovate (Milano 2003; cfr. anche La barca, con i facsimili degli autografi, a cura di A. Petreni, Montepulciano 2005). La barca, stampato da Guanda a Modena nell’autunno 1935 in 300 esemplari, suscitò vari consensi (Bo, Betocchi, Vigorelli). La prima recensione (in Il Popolo di Sicilia, 29 novembre 1935) fu di uno sconosciuto giovane genovese, Giorgio Caproni: «Una musicalità piana e suadente […] è la prima virtù che avvince e convince alla lettura di questa poesia. […] C’è il tremore tutto cristiano di una giovinezza che, pur piangendo il suo perdersi, trova tuttavia conforto volgendosi, “con naturale forza”, verso “il sole più bello” di Dio. Sole che, si noti, per il Nostro non acceca, come avviene per altri poeti tormentosamente cattolici, la visione delle terrene bellezze; bensì, aggiungendovi amore, la illumina di nuova e più dolce luce». Dal 1937 prese a frequentare a Firenze il gruppo attorno a Eugenio Montale presso Caffè delle Giubbe Rosse, con Aldo Palazzeschi, Carlo Emilio Gadda, Alfonso Gatto, Tommaso Landolfi, Alessandro Bonsanti ed Elio Vittorini. Nuovi amici anche il coetaneo Alessandro Parronchi e il pittore Ottone Rosai, per cui scrisse nel Bargello il suo primo pezzo di critica d’arte; collaborò anche a Letteratura e, dal 1938, a Campo di Marte e alla milanese Corrente. Avviata la carriera di insegnante con una supplenza a Massa (gennaio 1937), in quanto vincitore di concorso (nel 1938, per italiano e latino) insegnò latino e storia all’istituto magistrale di Parma (1938-40). A Parma frequentò Attilio Bertolucci e il pittore Carlo Mattioli; non rare le visite domenicali a Bologna, da Giorgio Morandi. Risparmiato dalla chiamata alle armi, in quanto a suo tempo riformato per insufficienza toracica, a gennaio 1941 – a seguito di un disguido ministeriale – fu trasferito all’istituto magistrale Carducci di San Miniato; dal dicembre di quell’anno, come risarcimento per il trasferimento (e grazie anche a un intervento di Bilenchi presso il ministro Giuseppe Bottai) fu distaccato a Roma presso Il libro italiano, rassegna bibliografica curata dai ministeri dell’Educazione nazionale e della Cultura popolare. A Roma risiedeva periodicamente, alla pensione Fabrello (dove viveva Alfredo Gargiulo). Il 20 giugno 1942 si unì in matrimonio a Firenze con Elena Monaci, andando ad abitare in viale Milton 55. A febbraio 1940 l’uscita di Avvento notturno da Vallecchi (Firenze) lo aveva accreditato tra i poeti nuovi più rilevanti dell’ermetismo, con una poesia di convulsione immaginativa e orfica, sulla scia di Dino Campana e Arthur Rimbaud. Per Bo, secondo una nota apparsa in Letteratura (1940) e ripresa in Nuovi studi (Firenze 1946), il Luzi ermetico costituì una «immagine esemplare»: «Direttamente dal testo che ha in lui una netta parte di attesa la parola non viene a contatto con le esigenze della pagina. […] Da questo dipende la mancanza d’una frase conseguita come normale nei diversi componimenti: l’assenza del libro come pretesto umano assume il carattere di purezza e consegna l’inevitabilità della parola» (ibid., pp.136 s.). Furono anni intensi e letterariamente fruttuosi: Un’illusione platonica e altri saggi (Firenze 1941), la curatela del Cortegiano di Baldassarre Castiglione (Milano 1941); l’edizione riveduta di La barca (Firenze 1942) e la prosa di Biografia a Ebe (ibid. 1942); la traduzione con prefazione di Vita e letteratura di Charles Du Bos (Padova 1943). Si incrementavano le sue collaborazioni con testi creativi e note critiche a importanti riviste: in Prospettive di Curzio Malaparte, cui collaborò con assiduità (1940-43) scrisse una nota, Ciels sèduits (gennaio 1940), di pieno apprezzamento verso il surrealismo francese; altre significative collaborazioni a La Ruota (1941-43) di Mario Alicata e, con poesie inedite, a Primato (1941-43). Fu il poeta più giovane a essere accolto nell’antologia Lirici nuovi (Milano 1943) di Luciano Anceschi. Alla caduta del fascismo (25 luglio), con Bilenchi, Parronchi, Manlio Cancogni e Vasco Pratolini tentò di redigere per La Nazione un manifesto libertario, che fu poi bloccato dalla polizia badogliana (cfr. M. Cancogni, Gli scervellati. La seconda guerra mondiale nei ricordi di uno di loro, Reggio Emilia 2003, pp.183 s.). Riparò con la moglie in stato di avanzata gravidanza in Val d’Arno, a Moncioni sopra Montevarchi (presso uno zio della moglie), dove nacque il suo unico figlio Gianni, il 17 ottobre 1943 (per complicazioni Elena rimase circa due mesi in ospedale); nel giugno 1944, in bicicletta, con Parronchi (sfollato a Greve in Chianti) raggiunse faticosamente Firenze, per avere notizie dei genitori, che da poco abitavano in città. Rientrato con la famiglia a Firenze dopo la liberazione, abitò provvisoriamente presso i genitori (in via della Condotta 10), perché la sua casa era stata distrutta dai bombardamenti, ma nel 1946 con moglie e figlio affittò un appartamento in un villino, al n. 3 di via Galvani. Dal 25 ottobre 1945 insegnò per un ventennio nel liceo scientifico Leonardo da Vinci, dove ebbe come colleghi Eugenio Garin, Lanfranco Caretti e, in seguito, Giuseppe Zagarrio, uno dei suoi primi commentatori. A marzo 1946 (ma con data 1944) a Firenze uscì Un brindisi, con i versi del tempo di guerra (1940-44), cui seguì, nel primo fascicolo di Inventario (primavera 1946) il canzoniere ‘stilnovista’ (cavalcantiano) di Quaderno gotico, composto tra inverno-primavera 1944-45, e poi ripreso in edizione numerata (Firenze 1947). Recensendo le due novità in Letteratura (maggio 1946) Parronchi rimarcò il superamento del precedente orfismo per un ripristino del «vivo dell’esistenza». Collaborò (1945-46) a Il Mondo e a Società, in cui apparve (aprile-giugno 1946) il saggio L’inferno e il limbo, che considerava la dominante petrarchesca della poesia italiana come una imprigionante limitazione. Furono anni di ricerca, come mostrano le varie Poesie sparse (1945-48), edite successivamente a varie riprese (nella silloge Il giusto della vita, Milano 1960; in Perse e brade, Roma 1990; quindi ampliate nel «Meridiano» L’opera poetica, per cura e con un saggio introd. di S. Verdino, Milano 1998) e un primo tentativo di teatro, Pietra oscura, composta nell’autunno 1947 e inviata al premio «Libera Stampa» di Lugano, ma edita solo nel 1994 per «I Quaderni del battello ebbro». Anche per esigenze economiche si dedicò a collaborazioni a giornali: al Nuovo Corriere di Bilenchi (1946-49), al Mattino del popolo (nel 1948, grazie al giovane Giacinto Spagnoletti, che gli fu molto legato in quegli anni), a La Nazione (1951-52) come ‘vice’ di critica cinematografica (cfr. Sperdute nel buio: 77 critiche cinematografiche, a cura di A. Murdocca, Milano 1997) a Il Giornale del mattino (dal 1954 per alcuni anni) di Ettore Bernabei, con prose e note critiche, al settimanale Tempo (1955-65), titolare della rubrica «Il libro straniero» (ripresa in Le scintille del «Tempo»: dieci anni di critica luziana, a cura di E. Moretti, Firenze 2003). Scritti militanti e polemici verso il Neorealismo e l’ideologismo uscirono nel mensile fiorentino La Chimera (1954-55), edito e diretto da Enrico Vallecchi (che in seguito riprese i pezzi luziani nel volume Tutto in questione, Firenze 1965). Pubblicò L’inferno e il limbo (ibid. 1949), raccolta dei suoi saggi critici, le traduzioni di Poesie e prose di Coleridge (Milano 1949), del Tempio di Cnido di Montesquieu in una silloge di Romanzi francesi (Milano 1951), dell’Andromaca di Racine per la RAI (1960); vari anche i volumi di francesistica, nel tentativo di una carriera universitaria (Anthologie de la poésie lyrique française, in collab. con T. Landolfi, Firenze 1950; Studio su Mallarmé, ibid. 1952; Aspetti della generazione napoleonica, Parma 1956; Lo stile di Constant, Milano 1962). I versi di Primizie del deserto (Milano 1952) gli fruttarono il premio Carducci, primo importante riconoscimento e molta attenzione dalla critica, dall’anziano Giuseppe De Robertis a Vittorio Sereni, da Bo a Franco Fortini e Sergio Antonielli. «Un giudizio fondamentale sul corso del mio lavoro è orale e risale al 1950 o ’51. Lo dette il prete di Forte dei Marmi: “vedo che lei ora scrive al presente”, mi disse. Mi vennero in mente le mie letture agostiniane ed esultai dentro di me» (Ritratti su misura di scrittori italiani, cit., p. 253). Ancor più fortuna di critica (Corti, Giuliani, Caproni, Giudici, Bàrberi Squarotti, ecc.) ottenne Onore del vero (Venezia 1957), che vinse il premio Marzotto e costituisce un excursus in un mondo rurale (l’avita Samprugnano), con qualche eco pascoliana (a vari lettori d’epoca come Fortini e Pasolini apparve consentaneo al realismo stranito di Fellini), ma con i netti segni di un’inquietudine contemporanea: «nessuno come Luzi ha espresso il senso più profondo di questi anni di speranze deluse, sospinte sempre verso un fantomatico futuro, in un clima di ‘immutabilità del mutamento’ storico-politico» (A. Zanzotto, L’ultimo Luzi [1958], in Id., Aure e disincanti nel Novecento letterario, Milano 1994, p. 23). Frattanto nel 1955 si era trasferito con la famiglia in via Nardi, 20 e – dal novembre di quell’anno – fu incaricato di lingua francese presso la facoltà di scienze politiche Cesare Alfieri di Firenze, continuando per anni a insegnare anche al liceo. Importanti furono le nuove amicizie con Cristina Campo (legata a Traverso) e la clavicembalista e scrittrice greca Margherita Dalmati, allora in Italia. Con l’antologia L’idea simbolista (1959) inaugurò la collaborazione con Garzanti, che divenne suo principale editore di riferimento a partire da Il giusto della vita (Milano 1960) – ripresa di tutte le precedenti raccolte – dedicato alla memoria della madre (morta il 15 maggio 1959), la quale fu poi anche al centro delle liriche di Dal fondo delle campagne (Torino 1965). Dal 1962 fu invitato dal rettore Bo come docente ai corsi estivi di perfezionamento dell’Università di Urbino, dove conobbe Franca Bacchiega, giovane anglista e scrittrice, fonte d’ispirazione per le poesie di Nel magma (1963-66) e di Su fondamenti invisibili (1971). Sostituì per un semestre nel 1964 l’amico Fredi Chiappelli nell’insegnamento di letteratura italiana all’Università di Losanna, risiedendo a Ouchy. Nell’aprile 1965 nacque Andrea, figlio del figlio Gianni e della moglie Loretta Bellesi; poco dopo (a luglio) morì il padre Ciro. Dimessosi dall’insegnamento liceale (23 ottobre 1966), mantenne l’insegnamento universitario al Cesare Alfieri. Importanti furono i soggiorni estivi a Camaiore (dal 1965) e i viaggi in Russia (1966) e in India (Natale 1968). Fu attento recensore del boom della narrativa latinoamericana (poi in Cronache dell’altro mondo, Genova 1989) nel Corriere della sera (1967-74) e poi su Il Giornale dell’amico Indro Montanelli, cui collaborò fino ai primi anni Novanta. Incaricato di letterature comparate al magistero dell’Università di Urbino (1972-81), vinse il concorso per l’ordinariato di letteratura francese e fu chiamato al magistero di Firenze (1981-82), poi al Cesare Alfieri (fino al pensionamento nel 1989), dove aveva sempre mantenuto l’incarico. Dal 1972 visse da solo a Firenze nel piccolo appartamento di via Bellariva 20 e trascorse le estati in Val d’Orcia, in particolare a Pienza, dal 1978, ospite di don Fernaldo Flori, sacerdote di non comune spiritualità e suo essenziale interlocutore. Le poesie narrative e teatrali di Nel magma (Milano 1963; ed. ampl., ibid. 1966: premio Etna-Taormina), costituirono una svolta: «Il modello del lirismo tradizionale non aveva più senso, mentre il convivere e contrastarsi di personaggi, di menti e di sensibilità che c’è in Dante mi era molto congeniale. Se quel mio scritto sull’inferno e il limbo ha avuto un seguito l’ha avuto qui. Non è un mondo di dannati, ma di gente sospesa e disorientata; il valore etico è purgatoriale, ma la realtà ha colori decisamente infernali» (A Bellariva. Colloqui con Mario, in L’opera poetica, 1998, p. 1256). Successivamente l’attività creativa di Luzi procedette su due filoni distinti, tra poesia e teatro in versi (sulla scia di Thomas Stearns Eliot): la stagione dei poemi di Su fondamenti invisibili (Milano 1971, premio Fiuggi) e Al fuoco della controversia (ibid. 1978, premio Viareggio) intese dare, sulle suggestioni creazionistiche di Teilhard de Chardin, nuovo assetto al rapporto tra poeta e poema, tra l’«evento» della parola all’interno di una vita in continua metamorfosi e lo «scriba» che cerca di formalizzarla (vedi i saggi raccolti in Vicissitudine e forma, ibid. 1974, e Discorso naturale, ibid. 1984). Il successo nel 1965 della traduzione in versi del Riccardo II di Shakespeare (Torino 1966) per Gianfranco De Bosio e Glauco Mauri (allo Stabile di Torino) lo avvicinò al mondo del teatro; così da un’ipotesi di libretto per musica si generò Ipazia, radiotrasmessa dalla Rai per il Natale del 1971 e poi più volte posta in scena, a partire dalla realizzazione di Orazio Costa per l’estate di San Miniato (1979), con Ilaria Occhini e Gianrico Tedeschi; nel 1983 lo Stabile di Genova mise in scena Rosales, singolare pastiche tra storia (l’uccisione di Trotzkij) e il mito di don Giovanni, con protagonista Giorgio Albertazzi, sempre per la regia di Costa. Luzi conobbe un’eccezionale vecchiaia, di straordinario vigore creativo: Per il battesimo dei nostri frammenti (Milano 1985), Frasi e incisi di un canto salutare (ibid. 1990), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (ibid. 1994) formano un ‘trittico’ poematico e frammentario, dall’impiego quanto mai mobile del verso e uno statuto particolare del testo, tra epifania e interrogazione: «La parola cerca di riprendere il suo potere di forza dinamica, di parola appunto come elemento di vita […]. Non c’è distanza, l’evento è nel testo che si scrive, è nella parola che viene impiegata, che cerca se stessa, che cerca le ragioni della sua presenza; questo porta all’interrogazione» (Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio, Milano 1999, p. 238). Raccolte le proprie prose in Trame (Milano 1982) e le traduzioni poetiche in La cordigliera delle Ande (Torino 1983), continuò a coltivare il teatro in versi con Histrio (Milano 1987); Io, Paola, la commediante (ibid. 1992, omaggio a Paola Borboni, che recitò in Histrio), Ceneri e ardori (ibid. 1997). Ebbe anche varie committenze teatrali da Pietro Carriglio per il teatro di Palermo (Corale della città di Palermo per S. Rosalia, 1989; Il fiore del dolore sull’omicidio di don Puglisi, nel 2003) e dalla compagnia di Federico Tiezzi e Sandro Lombardi (la riduzione teatrale dantesca Il Purgatorio. La notte lava la mente, 1990; il dramma sul Pontormo Felicità turbate, 1995; la traduzione di scene da Amleto, nel 1998). Su invito di Giovanni Paolo II scrisse un testo per la Via Crucis del 1999, che fu recitato il venerdì santo (2 aprile) al Colosseo da Sandro Lombardi alla presenza del papa (poi Via crucis al Colosseo, Milano 1999). L’anno dopo per il Giubileo, nel Duomo di Firenze (22 dicembre 2000) rappresentò Opus florentinum (Firenze 2000; ripresa ampl. di Fiore nostro fiorisci ancora, ibid. 1999), protagonista Andrea Jonasson (voce di S. Maria del Fiore), regia di Giancarlo Cauteruccio. Si moltiplicavano, per varie richieste editoriali, la raccolta o la ripresa di cronache e scritti saggistici, tra cui La luce (dal Paradiso di Dante), Forte dei Marmi 1994; Naturalezza del poeta (Milano 1995); Luzi critico d’arte (Firenze 1997); Prima semina. Articoli, saggi e studi (1933-1946), Milano 1999; Vero e verso (ibid. 2002), i versi sparsi di Parole pellegrine (Napoli 2001), i frammenti scenici di Parlate (Novara 2003) oltre ad antologie poetiche, vari libri-intervista ed edizioni d’arte. Dagli anni Settanta venne frequentemente invitato all’estero: negli Stati Uniti (1974, 1984, 1988, 1993), in Svezia (1974, 1980), in Olanda (1975, 1978), in Irlanda (1977, 1985, 1990), in Francia (1978, 1985, 1987, 1991, 2002), a Praga (1980), in Cina (con Sereni, Luigi Malerba e Alberto Arbasino, 1980), in Germania (1989, 2000) a Varsavia (1994), a Gerusalemme (con Edoardo Sanguineti, 1995), in Turchia (1997), in Spagna (1998, 1999), in Grecia (2001), a Lisbona (2002), mentre si incrementavano le traduzioni delle sue poesie in varie lingue (francese, inglese, tedesco, spagnolo, rumeno, polacco, russo, turco). Dal 1991 a partire dalla prima guerra del Golfo espresse il proprio dissenso verso il ritorno alla pratica armata da parte delle grandi potenze, avviando un esplicito impegno civile che si radicò sempre più fino nella sua estrema vecchiaia. Si legga, per esempio, Rottami e maschere riempiono la scena (intervista a E. Manca), in l’Unità, 12 febbraio 1996: «Vedo con sgomento una sorta di desistenza civile, un ritrarsi anche da parte di coloro cui, di fronte al baillame, toccherebbe dire una parola. Il popolo italiano, la “gente” come usa dire oggi con sovrabbondanza di “g”, in passato è stato fazioso, partigiano, poco educato alle contese civili. Ebbene a me pare che abbia perduto, o stia perdendo, quei caratteri forse non ideali ma pur sempre costituenti il segno d’una partecipazione, di una passione per la cosa pubblica. […] E in questa sospensione d’autorità, nello sgretolarsi dello Stato, nel parapiglia generale, nel chiudersi dentro il proprio “particulare”, io vedo lo spazio per suggestioni autoritarie. Non mi riferisco tanto a uomini o forze in “agguato”, quanto a quella “internazionale del potere” fatta di mafie, di narcodollari, di crimine, di grandi e oscuri capitali, la quale tende a sovrastare e condizionare la stessa azione dei governi nazionali. Uno stato allo sbando è tanto più esposto al rischio di essere eterodiretto». Schieratosi pubblicamente con l’Ulivo (1996), nel maggio 1999 fu estensore di un documento di protesta (Svegliati Europa umiliata, in Il Manifesto, 23 maggio 1999), contro la guerra della NATO in Serbia, sottoscritto da numerosi scrittori e intellettuali europei, da Harold Pinter a Rafael Alberti, da Bo a Fernanda Pivano. Frequente la sua presenza sulla stampa quotidiana: in particolare Il Corriere della sera (1994-2005) e l’Unità (1995-2005), anche con note e poesie d’occasione civile (tra cui Scelus, in Corriere della sera, 27 marzo 2003, contro la seconda guerra del Golfo). Nonostante il moltiplicarsi di vari impegni non letterari e viaggi, non si depauperò la sua prodigiosa vena creativa con i versi di Sotto specie umana (Milano 1999) e Dottrina dell’estremo principiante (ibid. 2004). Gli fu vicina da metà degli anni Novanta Caterina Trombetti, che trascrisse anche gran parte delle ultime poesie, poi edite postume (Lasciami, non trattenermi, ibid. 2009), in cui si legge anche un commosso poemetto del 2003 rivolto all’anziana moglie nel suo declino senile. «Si potrebbe dire che, come per Leopardi, anche per Luzi la poesia è fiore nel deserto. Il fiore è la terra, il senso della terra, la luce, il suono della natura, la voce delle creature, del loro domandare. Il deserto è il buio della mente, il tempo cancellato, ma popolato di figure e di parvenze, il limite. Si tratta di un deserto i cui miraggi, i cui silenzi, si trasformano in parole. Parole che cercano la luce che le fonda, il principio che le fa vibrare. […] La poesia cerca un varco: il punto dove la sabbia della clessidra trapassa, qui è il punto d’osservazione. Il punto del fuoco, dove si mostra il mutamento, la metamorfosi che la poesia racconta. […] Tutto nella poesia di Luzi sale verso la lingua, che è custodia del tempo interiore, e anche soglia che difende dal vuoto assoluto» (A. Prete, Su L., in Liberazione, 1° marzo 2005). Ripetutamente candidato al Nobel dall’Accademia nazionale dei Lincei (dal 1991), insignito della Legion d’onore (1997), il 21 marzo 2003 venne eletto accademico della Crusca. Nel settembre di quell’anno a Pienza ebbe una crisi cardiaca e, prontamente soccorso, fu ricoverato per qualche tempo all’ospedale di Nottola. Il 14 ottobre 2004 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi lo nominò senatore a vita, dando esito ai vari appelli in tal senso, con firme di migliaia di cittadini italiani. Il 9 novembre fece il suo ingresso a Palazzo Madama, ove tornò ancora il 15 dicembre e il 10 febbraio. Prese con molto impegno, a onta della tarda età, il suo nuovo ruolo senatorio, intervenendo nel gennaio 2005 sui rischi di manomissione costituzionale del paese, non senza polemiche, per il suo dichiarato antiberlusconismo, che non poco lo amareggiarono. L’ultimo intervento pubblico avvenne il 18 febbraio 2005 per la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, rapita in Iraq. Morì all’improvviso, nella sua casa a Firenze, il mattino del 28 febbraio 2005. Dopo i solenni funerali officiati in Duomo (2 marzo), fu sepolto nel piccolo cimitero di Castello. Nella seduta del Senato dello stesso 2 marzo si pubblicò il saluto che aveva preparato e non ancora pronunciato: «l’Italia è un grande paese in fieri, come le sue cattedrali. Lo è secolarmente, non discende da una potestà di fatto come altre nazioni europee, viene da lontani movimenti sussultori fino alla vulcanicità dell’Otto e del Novecento» (in Una voce dal bosco, a cura di R. Cassigoli, Roma 2005, p. 21). 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