Occupandomi di riviste da tanti anni – la prima l’ho fatta intorno al ’61, quindi è passato un po’ di tempo –, sono abituato a cercare, sono curioso e vado cercando quegli autori, quelle novità, quelle cose che mi sembrano più convincenti, che rendono meglio il senso dell’epoca, che aiutano di più il lettore a capire in che mondo viviamo e come si può reagire alle sue sfide, come ci si può stare dentro. Questo vale per i discorsi politici, ma vale soprattutto per quegli aspetti della cultura che sono la letteratura, il teatro, il cinema, la pittura, la musica, ecc. Oggi non è facilissimo muoversi in questo campo perché c’è un’abbondanza tale di proposte che rende tutto complicato; non è facile capire gli autori veramente bravi, perché escono ogni giorno libri assolutamente inutili. In questa libreria ci saranno, diciamo, sette su dieci, di libri superflui. Di questi sette, due o tre saranno anche carini, gli altri non servono assolutamente a niente, sono solo merce cambiabile; oggi esce un libro, domani ne esce un altro, sono solo intrattenimento, servono solo ad aiutare a non pensare, a porsi falsi problemi, a non porsi i problemi fondamentali, a non metterci davanti ai veri problemi, alle vere scelte della vita contemporanea.
Allora, facendo riviste, mi sono sempre appassionato a un aspetto della letteratura, che oggi sta diventando fondamentale: gli ibridi, il “meticciato”. Il futuro è dei meticci. Già oggi è così nel mondo. Le nuove generazioni di scrittori più interessanti nel mondo sono dei meticci. Teju Cole, un giovane scrittore nigeriano di madre tedesca, che però vive in America e gira il mondo come una trottola, dice: “Siamo noi la nuova generazione, siamo noi quelli che possiamo raccontare il mondo contemporaneo, che è il mondo della globalizzazione, non è più il mondo delle piccole nazioni. Sì certo, sono un nigeriano cresciuto in Nigeria, e però io mi comporto come cittadino del mondo”. E questa secondo me è un’indicazione fondamentale. E anche Teju Cole, quando scrive, scrive in forme ibride, ci mette dentro la storia della sua famiglia, l’inchiesta quasi sociologica sulle condizioni di vita in Nigeria, le discussioni con gli amici tedeschi sulla caduta del muro di Berlino o sulla storia dell’Europa contemporanea, il discorso sul razzismo negli Stati Uniti e i suoi cambiamenti. Ci mette dentro una serie di problemi che sono quelli con i quali anche nel piccolo delle piccole patrie noi dobbiamo oggi confrontarci, perché le grandi novità sono quelle, i migranti e la globalizzazione.
Svetlana Aleksievič ha scritto da qualche parte: “Per sentire cose nuove bisogna porre domande nuove”. Bisogna in qualche modo che noi ci mettiamo all’altezza dei tempi che viviamo e dei problemi del tempo in cui viviamo. Lei questo ha cercato di farlo. Non è la sola e non è neanche l’iniziatrice di una storia. Io non sono un esperto di letteratura russa, però per me è stato fondamentale leggere tanti anni fa, in una vecchia edizione di Carabba-Lanciano, un piccolo libro di Tolstoj che si chiamava Le memorie di una contadina. È il primo esempio a mia conoscenza di uno scrittore – un grande scrittore – che raccoglie le storie di una donna analfabeta e lavora su questo. Le trascrive a mano, la intervista, e da questo materiale ne tira fuori un libro. È poi quello che in tempi più recenti hanno cercato di fare molti in Italia. Non lontano da qui, a Cremona, Danilo Montaldi ha scritto un libro intitolato Autobiografie della leggera. Sono storie di vita, alcune scritte in modo sgrammaticato dagli stessi intervistati, aiutati da Danilo, altre registrate e trascritte da Montaldi. Sono storie della “leggera”: il giro dei vagabondi, dei venditori di strada, degli strilloni, dei propagandisti del piccolo sindaco del posto che se ne serviva per le elezioni. Era questa umanità strana detta “alla leggera”, perché sembravano quelli che prendevano la vita alla leggera, ma che non erano veri operai, veri contadini, non erano stabili: erano vagabondi. E sono storie attraverso le quali si illumina la storia della Pianura Padana, la storia delle lotte sociali in Italia, si illuminano le trasformazioni sociali ed economiche del nostro Paese. Ma dopo di lui e contemporanei a lui ce ne sono stati tanti altri. Solo negli anni ’50, Danilo Dolci, Rocco Scotellaro con Contadini del Sud, Franco Cagnetta con Inchiesta su Orgosolo, Franco Alasia con Milano, Corea, scritto insieme a Montaldi sugli immigrati a Milano. Insomma, hanno trascritto storie di individui reali per raccontare le trasformazioni del Paese e per confrontarsi con la realtà del Paese. In Italia fino alla fine degli anni ’60 la maggioranza o quasi della popolazione era formata da analfabeti. Un Paese dove gli oppressi non avevano voce; si trattava quindi di dare voce a quelli che non l’avevano e questo compito se lo sono posto molti intellettuali negli stessi anni. Sono infatti gli anni in cui Pasolini raccoglie i canti popolari italiani, 1955; l’anno dopo esce da Einaudi – i due contemporaneamente lavoravano e si conoscevano, si scrivevano, si scambiavano idee – Fiabe italiane di Calvino, la trascrizione di un enorme patrimonio di cultura popolare. Ancora, Cassola e Bianciardi, I minatori della maremma, un’inchiesta della metà degli anni ’50. C’era un interesse a capire chi eravamo, che cos’era il nostro popolo, cos’erano gli analfabeti. Tutto questo in una chiave molto politica, nel senso che si parlava allora di “inchiesta partecipata”: attraverso l’incontro con la persona da intervistare si cercano di affrontare insieme i problemi all’interno di una comunità o di un gruppo di lavoro. Si cerca di raccontare il mondo, le trasformazioni, una parte della società che non scrive sui giornali, che non pubblica i libri. Gli alfabetizzati erano i privilegiati: le classi borghesi, i piccolo-borghesi, gli impiegati, o comunque quelli che stavano meglio all’interno della società italiana. Questo interesse per gli altri era fondamentale. Un ibrido fra storia e letteratura, dunque. Vi ho detto grandi nomi, Pasolini, Calvino, Cassola, Bianciardi: il loro non era lavoro da sociologi o antropologi, che vanno a fare le interviste; c’era un rapporto con la letteratura molto alto. C’era un senso di responsabilità verso la società ma anche verso il loro mezzo di espressione, che è la letteratura. Questi lavori hanno poi inciso sulle loro opere letterarie.
Allargando ancora il discorso, parliamo di letteratura ibrida. In Italia essa ha una grande storia: Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli e soprattutto L’orologio, un grandissimo romanzo russo ha detto qualcuno, che racconta l’Italia dell’immediato dopoguerra, partendo dalle sue storie e dai suoi vissuti; Primo Levi, Se questo è un uomo, e così via tanti altri. In America, Truman Capote. Pensate l’effetto dirompente che ha avuto A sangue freddo negli anni ’50: la storia di due criminali che lui segue giorno per giorno per due o tre anni in carcere e da cui tira fuori una storia sul fondo della società americana, sul suo aspetto più cupo, più nero, e però in qualche modo il cuore dell’immensa provincia americana, che spiega l’America e la spiega agli americani. C’è una presa di coscienza collettiva su cosa sono gli americani, su cos’è la cultura americana, e la sua violenza di fondo.
C’è una storia dietro Svetlana. C’è anche Kapuściński, che ha seguito una strada diversa, non ha trascritto le storie di vita, non ha registrato interviste. Ha girato, ha visto e intervistato un sacco di gente, ma ha cercato di scrivere dei resoconti in cui era lui in prima persona a prendersi la responsabilità del racconto. Svetlana no; le sue sono dichiarazioni di principio, di poetica, di morale, che spiegano il suo tipo di lavoro, che è fatto di storie, di vite, che lei ha ottenuto intervistando le persone e lavorandoci sopra da grande scrittrice. La stessa cosa l’ho vista fare a Danilo Dolci nei Racconti siciliani: c’era una rielaborazione, Dolci si poneva il problema della comunicazione senza tradire l’intervistato, ma facendo un po’ da tramite. Anche questo era il compito della letteratura: dare la parola a chi non ce l’ha e fare in modo che questa parola venga ascoltata da chi ce l’ha, da chi la usa, da chi sa usarla e giudicare anche le parole altrui. Senza questa mediazione, il rapporto, il meccanismo non funziona. Quindi c’è una storia molto ricca. Kapuściński si riteneva uno scrittore, non un giornalista; era un giornalista che però aveva come modello reale – l’ha ripetuto molte volte – un altro grande polacco, Joseph Konrad. Konrad scriveva in inglese, ha rinnovato la letteratura inglese del suo tempo raccontando storie che gli inglesi non sapevano raccontare in quel modo: il colonialismo, l’Africa, il mondo del mare, la violenza politica e il terrorismo nel segreto. Sono persone che si pongono il problema di far capire al mondo cosa sta succedendo, cosa sta cambiando. E questa è una prima distinzione enorme: si danno e si assumono delle responsabilità, molto maggiori di quelle che si assumono gli scrittori di per sé. Uno scrittore in fondo fa un lavoro estremamente solitario: si mette davanti alla macchina da scrivere (ora al computer), e inventa, elabora. Sì certo, ha letto i giornali, si è documentato su un qualche fatto, però il suo lavoro è sostanzialmente un lavoro solitario. Il lavoro di questi scrittori che uniscono il talento del giornalista con quello dell’inchiestatore sociale, per certi versi anche dell’antropologo, del sociologo, è un’altra cosa. Il caso di Kapuściński è straordinario: uno che scrive Imperium è uno scienziato politico, perché scrive di come la rivoluzione russa, il cambiamento, la fine del comunismo in Urss avverrà dalle nazioni periferiche e gira le periferie per raccontare la Russia, e capisce prima che l’Urss crolli che queste periferie si stanno staccando, vanno per altre strade, che sta succedendo un cambiamento epocale enorme per la storia russa e per la storia mondiale.
Svetlana fa un lavoro diverso. Io credo che in questo vi sia un elemento che oso chiamare femminile, fortemente femminile. Io l’ho detto e scritto: leggendo i libri di Svetlana penso spesso a Elsa Morante. Penso soprattutto a La storia della Morante, perché sento delle affinità di sensibilità. Intanto l’idea che la storia è una storia di orrori: l’elenco che la Morante scrive all’inizio di ogni capitolo con i fatti reali è un elenco di orrori. Però forse il punto di partenza di tutto questo è una riflessione più profonda sulla presenza del male nella storia e nell’uomo. Di recente ho riletto il Macbeth: il monologo di Macbeth, quando gli annunciano la morte di Lady Macbeth, definisce cos’è la storia, ovvero “rumore e furore”, “un sogno sognato da un pazzo”. È una visione del mondo e anche teologica terrificante, perché vi è un dio crudele, indifferente, “un sogno sognato da un pazzo”. Il punto di partenza di queste figure è proprio questa riflessione radicale sulla storia e sulla natura umana, su quello che l’uomo è, su quello che può fare e non fa, oppure su quello che ha potuto fare nei momenti più straordinari e più belli.
Io mi ricordo una discussione con Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte – due personaggi molto diversi fra loro che però facevano insieme una rivista bellissima che si chiamava “Tempo Presente” – sul tema: che cosa rimane. Si era dopo il ’68, si parlava delle mutazioni in corso. Silone diceva: “Rimane, a ben vedere, il padre nostro. Affidarsi a un’entità superiore: l’uomo da solo non ce la fa, ha bisogno di affidarsi a un dio”. Chiaromonte, laico, diceva: “Rimane il ricordo di quello che l’uomo è stato capace di fare nei suoi momenti migliori”. Non solo Michelangelo e Raffaello, ma anche il buon samaritano, l’uomo che aiuta il prossimo, nel momento in cui ce n’è bisogno. Rimane questa parte minoritaria di gente che si pone delle responsabilità nei confronti del male nel mondo e di porvi rimedio, di salvare il salvabile, per esempio di aiutare l’infanzia. L’ultimo libro di Svetlana tradotto in Italia è quello sulle memorie di coloro che erano bambini durante la Seconda guerra mondiale. Un libro agghiacciante, perché immaginate le memorie di quelli che hanno subito l’assedio di Leningrado. Addirittura questi compravano la terra, sotto i barili delle aringhe, che non c’erano più, ma lì la terra era intrisa di sali e di odore di aringhe, e quelli mangiavano la terra che odorava di aringhe. E la pagavano. C’è una visione della storia molto cupa e molto terribile, da cui noi siamo preservati, perché l’Italia è un paese strano, sono 70 anni che viviamo in pace. Pensate la Francia o l’Inghilterra: hanno continuato ad avere l’Algeria, l’Indocina, le colonie africane, Ghandi in India; sono rimasti sempre dentro il flusso della storia e delle sue tragedie, dalle quali noi siamo finora miracolosamente stati esentati. Il che non toglie che ovviamente abbiamo anche noi delle responsabilità, e la lettura di Svetlana ce le risveglia.
Credo che il punto di partenza in Svetlana è Dostoevskij, il più grande scrittore russo del suo tempo, ancora di più che Tolstoj, perché appunto scava nel male, si confronta con il male, e l’ha vissuto da vicino. Tolstoj in fondo è un aristocratico: ha visto la guerra, ha visto la morte, però in fondo l’ha vissuta da graduato, non da soldato. Dostoevkij ha fatto il sottosuolo, la Siberia, ha subito una fucilazione finta, che dev’essere un’esperienza allucinante. In qualche modo si parte dall’insistenza di Dostoevksij nel confronto con il male e nel cercare di individuare quando c’è la purezza dell’uomo (Alësa, il mite, e altri personaggi dei romanzi). Questa riflessione sul male credo abbia mosso Svetlana a fare le sue inchieste, a ragionare sulla guerra, sul comunismo, anche in una chiave insolita per noi europei, perché non è quella viscerale della sinistra in Italia fino ad anni non troppo lontani, e neanche quella dell’anticomunismo viscerale. C’èstata una generazione nell’Urss e nelle repubbliche sovietiche per cui c’era sicurezza per chi non era un oppositore, c’era una forma di ideologia che teneva insieme la società, basata sulla scolarità per tutti, una società che funzionasse cercando di essere più equa possibile. Alcune leggi fatte dai comunisti in Russia sono certamente più vicine al socialismo di tutte le leggi che sono state fatte nei Paesi occidentali. Dopo di che, ovviamente, erano applicate con differenze, però lei ha scoperto questa cosa assolutamente comprensibile per chi ha conosciuto dei militanti comunisti anche in Italia: persone che hanno creduto nel comunismo e, nel momento in cui il comunismo è crollato, non hanno più avuto una società, non hanno più avuto la possibilità di sentirsi utili a qualche cosa. Guardate che il capitalismo non è una cosa molto più bella del comunismo o del socialismo reale; il capitalismo russo di Putin è brutale, è un capitalismo che rapina, non rispetta nessuna convenzione, nessuna legge. E questi signori si ritrovano in questo mondo qui e si ammazzano. Il numero dei suicidi dopo la sconfitta dell’Urss è altissimo. Svetlana scopre queste cose e va a intervistare i vecchi comunisti sulla loro nostalgia di quell’epoca. Nello stesso periodo, a pochi anni di distanza, va a intervistare i soldatini, gli adolescenti, 18enni, 20enni, spediti dalle campagne russe in Afghanistan, soldati di leva che non sapevano nemmeno dove li mandavano e si ritrovano a fare la guerra in un Paese che non conoscevano. Tornavano nelle bare di zinco; per questo popolarmente li si chiamava i “ragazzi di zinco”. Studia le donne: forse il suo libro più bello, insieme a Preghiera per Cernobyl’, è La guerra non ha un volto di donna, un capolavoro. È una dei pochi scrittori che mi fanno piangere quando li leggo. Ogni tanto io con Svetlana piango. È chiaro che con i romanzieri italiani di oggi non mi succede mai. Con la Morante mi è successo, con la Ortese anche. E qui perché? Perché c’è questa verità di base, questi personaggi veri che raccontano le loro tragedie, le loro speranze. Se dovessi far leggere a dei ragazzi della scuola – non piccoli, perché si turberebbero troppo e vanno preservati – ma dai 12 anni in su, farei leggere loro due o tre testimonianze in Preghiera per Cernobyl’delle donne dei soldati mandati a rimediare dopo il disastro, che ovviamente si contagiavano ed erano destinati a morire. Alcune di queste donne scelgono di andare a letto con loro sapendo che saranno contagiate e che moriranno anche loro. Però il livello dell’amore per il loro coniuge, la vicinanza alla tragedia del loro amato, le porta anche a un sacrificio terribile. C’è questa terribile adesione alle cose primarie dell’esperienza umana che Svetlana riesce a sollecitare nelle interviste. Lei non fa altro che prendere atto di quello che le raccontano, non è che si inventa niente. Sì, potrà fare delle domande per seguire certi percorsi. Sempre in Preghiera per Cernobyl’ ci sono alcuni brani in cui gli intervistati contadini del posto raccontano la tragedia degli animali, e lo fanno come se fosse una tragedia umana: gli animali impazziti, non solo quelli che muoiono, ma quelli che danno i numeri, che non capiscono più in che mondo vivono, perché arriva questo disastro, che è tale ed enorme.
Quello che, credo, regge il discorso di Svetlana è anche un elemento umano oggi poco frequentato, che è la curiosità. Io credo che vada fatto un grande elogio della curiosità; noi tutti siamo poco curiosi, accettiamo quello che ci viene ammannito dai giornali, dalla televisione, dalla scuola, magari anche dalla chiesa, non andiamo a verificare, non ci poniamo delle questioni e non cerchiamo di capire meglio, di andare a fondo. Non siamo curiosi. Le risposte ce le danno quotidianamente tutti, ce ne danno troppe, l’una che dice il contrario dell’altra, ma ce le danno in continuazione, ci indottrinano, ci divertono, ci aiutano a non pensare. Credo che una delle chiavi del potere di adesso sia questa: aiutare le persone a non pensare. Ci vogliono bene; se non pensiamo, non agiamo, no? Se pensiamo seriamente ai problemi, poi forse ne viene qualche stimolo all’azione, a cambiare le cose. Se invece pensiamo le idee correnti, pensiamo le opinioni dei giornalisti importanti, le consolazioni – scusate – un po’ ridicole dei “guru”… Ogni giorno ci sono almeno un centinaio di libri di questi guru che ci dicono cosa bisogna fare per essere felici e migliorare il mondo: basta andare tutti in bicicletta e il problema dell’ecologia è risolto, poi col cavolo che loro vanno in bicicletta. Questi che ci spiegano tutto, che ci aiutano a farci delle immaginette tranquillizzanti, sono un problema. Forse sono necessari quelli che ci sconsolano, ci inquietano, ci pongono dei problemi, in qualche modo ci fustigano anche. Forse abbiamo bisogno di un Savonarola più che di anime buone che ci fanno le carezze e ci danno uno yoghurt marca tale, ecologico, eccetera. Abbiamo bisogno di persone che ci sveglino, ci mettano davanti ai problemi del nostro tempo. Svetlana è una di queste. La cosa secondo me molto importante è che perfino i giurati del Nobel se ne siano accorti. I giurati del Nobel non sono dei geni: se guardate le fotografie di quando sono riuniti sembrano il consiglio dei professori del mio paese nel ’53-’54. Sono persone come noi, che ragionano litigando tra di loro, perché a uno gli piace quello e a uno gli piace quell’altro; poi discutono della politica, è il momento di proporre il premio alla Svetlana perché Putin e Lukašenko hanno una cattiva fama tale per cui si può premiare Svetlana, in un altro momento non l’avrebbero fatto. Raramente hanno osato premiare, che ne so, Pasternak; sono atti di coraggio abbastanza insoliti. Di solito premiano autori buoni ma ovvi, per ragioni più politiche che letterarie. Èpieno di grandi scrittori che hanno avuto il Nobel, però bisogna ricordare che Tolstoj, Virginia Woolf, James Joyce, Franz Kafka, tutta gente che pubblicava e che erano ben noti anche nella Svezia del loro tempo, il Nobel non l’hanno avuto. Perfino da noi, hanno dato il Nobel a Carducci e a Dario Fo, non l’hanno dato a fior di scrittori. Credo che la forza di Svetlana risiede anche in questa sua persuasione. Capitini diceva che non ci sono i buoni e i cattivi, ci sono i retori e i persuasi (pigliava questa definizione da Michelstaedter, La Persuasione e la Rettorica): i persuasi sono quelli che credono profondamente nelle cose che è giusto fare e le fanno. Carlo Levi, che prima citavo, da vecchio diceva: “La distinzione per me non è più com’era ai tempi della Lucania – che lui ha raccontato –, tra contadini e luigini [don Luigi era il boss dei borghesi e dei proprietari terrieri di Aliano], tra borghesi e analfabeti; la distinzione è oggi tra allergici e diabetici: gli allergici hanno paura di tutto, e quindi sono sempre in difesa e sempre pronti ad agire malamente; i diabetici c’hanno dentro tanto zucchero da poterlo regalare al mondo, tanto miele da poterlo spargere”. Sono la generosità contro l’avarizia in qualche modo. La generosità che nel caso di Svetlana, e non solo, è una specie di sinonimo della curiosità: i curiosi sono generosi per forza, vogliono capire, vogliono vedere, vogliono entrare in contatto con le situazioni, con il mondo, ecc. I generosi sono curiosi per forza, come fanno a voler bene al prossimo se non sono curiosi di come il prossimo è fatto, se non vogliono entrare in rapporto con il prossimo? Credo che questo sia la grande dote di Svetlana, forse la fondamentale, unita a quella che noi chiamiamo tradizionalmente compassione. Compassione non è una parolaccia: significa condivisione del dolore altrui, sentirsi fratelli di coloro che stanno male, soffrire insieme a loro. E questa compassione la si sente nella pagine di Svetlana anche quando parla di personaggi antipatici, anche quando c’è qualche figura che si sente non è quella che la stimola di più; e però c’è questo afflato, questo bisogno di capirli e di entrare in contatto con loro, un bisogno di condivisione.
Visto che siamo in casa di cattolici, concludiamo con san Paolo, per il quale è importante la fede, è importante la speranza, ma senza la carità non c’è niente. Secondo me, senza la carità intesa così come ho cercato di dirla, non c’è neanche la grande letteratura, non c’è neanche il grande cinema, non c’è la grande poesia. Bisogna che ci siano delle generazioni che invece di guardarsi l’ombelico o il buco del sedere si rimettano in gioco guardando il mondo e giocando il gioco duro con il mondo. Un personaggio che secondo me sarebbe molto piaciuto a Svetlana è Giulio Regeni: persona comune, un ragazzo normale, nulla di eccezionale, che però cerca nella sua generazione di far parte di quella minoranza che cerca di capire, va sui posti e tiene questa umanità di cui vi dicevo prima.
Un’ultima cosa che volevo aggiungere è un paragone piuttosto improprio con Vonnegut. Kurt Vonnegut, scrittore americano di fantascienza, umorista straordinario, a vent’anni soldato americano di origine tedesca, viene fatto prigioniero in Germaniae messo a lavorare nei sotterranei di Dresda alla produzione di glassa, che serviva per la popolazione. Churchill ordina di fare piazza pulita a Dresda, perché bisogna convincere la popolazione ad arrendersi, convincere Hitler ad abbandonare. L’ha fatto anche in Italia – città intere: Avellino, Rimini, che fu distrutta per l’80%, una cosa brutale. Vonnegut si ritrova in questo bombardamento a essere un sopravvissuto, ma quando esce fuori trova una città di macerie e di morti. Questo a vent’anni ti cambia la vita. Lui ha cercato il modo di raccontare l’orrore. Adorno parla di fare poesia dopo Auschwitz. È una scommessa. Paul Celan, vittima di Auschwtiz, c’è riuscito, è riuscito a fare poesia seria, alta, su quei temi, dopo Auschwtiz. Altri no: fanno romanzi consolatori, che finiscono bene. Uno dei film più scandalosi nella storia del cinema italiano è La vita è bella. Finisce in barzelletta. Un mio amico scrisse una stroncatura: “Dopo la vita è bella ad Auschwtiz, speriamo che Benigni scriva La vita è bella a Hiroshima”. Erano delle consolazioni e finzioni, l’idea che l’orrore si può controllare, che l’umano sopravvive, che madre e figlio si ritrovano, che tutto finisce bene. Che ci sarà un futuro meraviglioso. Sono grandi menzogne. Vonnegut ha cercato di raccontare questo orrore, quasi da fine del mondo, e c’è riuscito attraverso la fantascienza, sconvolgendo le regole del romanzo tradizionale, inventandosi un personaggio che vive su un pianeta straniero. E c’è riuscito, perché Mattatoio n. 5 è un capolavoro, è uno dei libri che resteranno della letteratura del Novecento. Svetlana ha fatto una cosa dello stesso tipo: come riuscire a raccontare l’orrore? Così Šalamov, come si può riuscire a raccontare il gulag? Sono scommesse enormi, difficoltà terribili, perché il rischio è quello, appunto, di fare letteratura. Però bisogna fare letteratura, perché la letteratura importante è un discorso di comunicazione fondamentale. Per cui il discorso arriva se è Šalamova farlo, se è uno scribacchino qualsiasi, non arriva. Tutti i libri di Svetlana sono destinati a durare, però Preghiera per Cernobyl’ nella storia della cultura del Novecento resterà il “Libro” di Svetlana. È un’impresa enorme che investe la conoscenza letteraria e tantissime altre cose: la conoscenza storica, politica di una persona, ma soprattutto questa esperienza della compassione, dell’entrare in rapporto diretto con le tragedie degli altri, perché gli altri – noi – si sveglino. Se questo non succede, i libri diventano consolazioni e basta. Devono essere qualcosa che spinge a cambiare la nostra vita, a vivere diversamente, ad assumerci delle responsabilità molto più grandi di quelle che ci assumiamo oggi normalmente.
NOTA: Testo, non rivisto dall’Autore, della conversazione tenuta a Brescia il 26 maggio 2016 in occasione della presentazione del libro di Svetlana Aleksievič “Il male ha nuovi volti”, edito dall’Editrice La Scuola (progetto editoriale della CCDC).