Nel parlare da economista di diritti dell’uomo e dello sviluppo economico internazionale ho la coscienza che il problema non ammette discontinuità. I diritti dell’uomo, sotto il profilo dell’economista, si connettono inevitabilmente a tutti gli altri diritti dell’uomo e pure ai massimi diritti, quali quelli di libertà religiosa tuttora impediti in molti paesi. Tuttavia limiterò le mie riflessioni alla sfera economica, perché la mia competenza professionale necessita una limitazione di area.
Vorrei innanzitutto premettere che la scienza economica si è sempre interessata del problema dei diritti dell’uomo, sia per ciò che concerne i paesi in via di sviluppo, sia per ciò che concerne i paesi sviluppati. Noi oggi pensiamo al problema dei diritti dell’uomo prevalentemente con riferimento ai paesi in via di sviluppo e soprattutto al problema della sopravvivenza produttiva degli esseri umani in questi paesi. L’alimentazione, la salute, l’accesso all’istruzione e altri aspetti dei diritti economici fondamentali sono davanti a noi tutti.
Anche nei paesi industrializzati, però, si pone di continuo il problema dei diritti dell’uomo, non disgiunto dal tema dei doveri dell’umanità, che è l’insieme di tutti gli esseri umani. Si pone oggi, ad esempio, il problema dell’occupazione, inteso come problema di rispetto dei diritti dell’uomo: problema angoscioso che richiede, peraltro, una profonda riflessione circa il rapporto tra garanzia del posto di lavoro e garanzia delle opportunità di lavoro, cui gli individui devono necessariamente adeguarsi. Allo stesso tempo, il tema della qualità della vita viene considerato un punto fondamentale dei diritti dell’uomo, mentre l’abuso individuale cerca giustificazioni anche attraverso una copertura dello Stato per cui vengono rivendicati o proposti come diritti iniziative che sono profondamente contrarie alle caratteristiche dell’uomo stesso. In questa sede, comunque, parlerò dei paesi in via di sviluppo, soprattutto in termini di metodo, anche perché sento l’angoscia dell’economista che troppo spesso si lascia trascinare dai fatti senza cercare d’inquadrarli in principi.
Credo che il problema dei diritti dell’uomo debba essere visto entro due grandi cardini: il cardine dell’economia politica, in quanto “scienza”, e il cardine della “storia economica”. Così dicendo vi rivelo immediatamente le mie convinzioni. Il problema dei diritti dell’uomo nei paesi in via di sviluppo non può essere risolto nel breve periodo: può essere affrontato nel medio periodo e può essere risolto solo nel lungo periodo. Parlando di economia politica (come scienza) e di storia economica, indico immediatamente un percorso di lungo andare, non di breve.
L’economia politica come scienza si è sempre interessata dell’uomo: ma di quale uomo? Ebbene, principalmente di quello che viene definito homo oeconomicus inteso come individuo il cui principale scopo è la massimizzazione della propria utilità. Moltissime opere ancora oggi fanno perno implicito, se non esplicito, su questo concetto dell’homo oeconomicus. Esso implica subito l’affermazione di una scarsità delle risorse di cui il pianeta sarebbe dotato. In fondo, l’homo oeconomicus è un individuo che, laddove consegue i propri risultati di massimizzazione dell’utilità, priva di riflesso qualcun altro di qualche bene, essendo dato il volume globale di risorse disponibili. Spesso si sente di conseguenza parlare dell’economia politica come della scienza crudele, perché basata sul tornaconto individuale.
Viene in conclusione teorizzata l’inevitabilità di una economia politica fondata su questi concetti. Evidentemente, tali estremizzazio ni hanno provocato anche reazioni estreme di segno opposto, come la nascita del marxismo che considera l’economia niente altro che lo studio della lotta di classe fra sfruttati e sfruttatori. La seconda visione dell’uomo a cui l’economia politica ha prestato attenzione nel corso dei secoli, dapprima in un modo abbastanza latente, ma assai più negli ultimi anni (credo anche che a questa visione dell’uomo abbia dato un apporto grandissimo la riflessione della Chiesa in campo economico), è quella dell’homo faber.
Al proposito, occorre dire che la realtà economica è stata molto più rapida dell’economia politica nel definire la figura dell’homo faber. Ogni uomo porta con sé un’esigenza acquisitiva, ma ancor più una esigenza di creatività. Non si tratta tanto di appropriarsi, dunque, di risorse scarse già disponibili, quanto di appropriarsi di qualcosa che viene creato attraverso le capacità dell’uomo stesso. In sostanza il punto fondamentale di una visione economica dell’homo faber è la capacità dell’uomo stesso di realizzarsi mediante il lavoro e non esclusivamente mediante il consumo. Guardando le Encicliche, troviamo su questo punto una serie di indicazioni che non erano apparse ad una prima riflessione sulle stesse da parte degli economisti.
Vi è infine una terza specie di uomo che oggi è oggetto d’interesse e di studio dell’economia politica: l’homo doctus, che ingloba in sé gli aspetti dell’homo oeconomicus e dell’homo faber, ma li supera in una visione molto più ampia. Lo sviluppo tecnologico sta portando gli studi di economia a considerare questa forma di umanità, che porta in sé nuove esigenze di saggezza; non solo di conoscenza, ma anche e soprattutto di saggezza.
Gli economisti, che studiano sotto questo profilo il fenomeno economico, mettono in evidenza soprattutto tre grandi pericoli che oggi corre l’umanità e che l’homo doctus dovrebbe riuscire a controllare. Il pericolo primario è la guerra planetaria; il secondo pericolo è l’esplosione dei rapporti Nord-Sud, parimenti foriero di danni irreparabili per l’umanità; ed il terzo pericolo, per quanto possa sembrare paradossale, è quello derivante dalla scienza stessa, che deve progredire di continuo, ma nel suo procedere deve tener presenti ambiti etici.
L’economia, attualmente, si interessa ancora molto dell’homo oeconomicus, abbastanza dell’homo faber e poco dell’homo doctus. E’, dunque, una disciplina in continuo, necessario movimento; una disciplina giovane, che non ha trovato in alcun modo un catalogo definitivo.
Come si collocano le tre concezioni sopra richiamate di fronte ai problemi dei paesi in via di sviluppo e dei paesi sviluppati? Credo si possa dire che in gran parte dei paesi in via di sviluppo oggi, non per una scelta ma per necessità, prevalga la scelta dell’homo oeconomicus.
La strada per passare da questa figura a quella dell’homo faber, a quella dell’homo doctus, è, d’altro canto, una strada estremamente lunga. Voglio dimostrare questa affermazione facendo un riferimento alla storia economica come secondo cardine del nostro ragionamento. Dicevo prima che la storia economica è stata molto più rapida dell’economia politica: non c’è il minimo dubbio, l’economia politica è arrivata molto in ritardo nella storia economica, il che vuol dire che la riflessione dell’uomo è stata molto più lenta della capacità di azione dell’uomo stesso.
Abbiamo assistito negli ultimi quattro, cinque secoli a tre grandi rivoluzioni economiche che hanno cambiato enormemente il profilo dei rapporti economici.
La prima di esse è la rivoluzione mercantile che ha avuto il ruolo di allargare le risorse a disposizione dei paesi più progrediti, in particolare dell’Europa, attraverso l’ampliamento della sfera geografica di acquisizione delle risorse stesse. Grazie ad essa, si è verificato un grande spostamento di risorse da alcune aree verso altre aree del mondo, che ha permesso ai paesi più civilizzati di superare la loro scarsità, appropriandosi di risorse collocate in altre parti del mondo. La rivoluzione mercantile ha, inoltre, avuto un’enorme importanza nell’allargare i mercati dalle sfere locali continentali alle sfere planetarie.
La seconda grande rivoluzione che, noi economisti, stiamo digerendo ancora oggi, mentre è ormai a metà la terza rivoluzione – quella tecnologica -, è stata la rivoluzione industriale stessa. Quest’ultima, infatti, ha fatto emergere un grande problema: vi è antagonismo o coesistenza tra scarsità delle risorse e capacità produttiva? Questo problema di antagonismo-coesistenza ha continuato a tormentare la realtà e gli economisti per due secoli. Inutile ricordare il nome di un economista che, oppresso e ossessionato dall’idea di scarsità, proprio agli inizi della rivoluzione industriale, preconizzava uno stato stazionario, dove la popolazione avrebbe dovuto fermarsi e in cui le risorse sarebbero diventate sempre più scarse e via di seguito. E’, invece, utile ricordare che agli inizi degli anni ’70 nuovi economisti, con modelli matematici complessi, sono arrivati alle stesse, sbagliate conclusioni, che quell’economista due secoli prima aveva enunciato. L’idea di fondo era quella che la scarsità avrebbe finito per dominare, che lo “stato stazionario”, in cui la popolazione non cresce più e in cui le risorse si fermeranno, è un destino inevitabile dell’umanità.
La rivoluzione industriale ha preparato quanto stiamo vivendo oggi, cioè la rivoluzione tecnologica, dove non è tanto il problema della scarsità che si pone (credo che tutti oggi siamo convinti che non esistano limiti visibili alla creazione di risorse), quanto quello di indirizzare la creazione delle risorse verso fini ben precisi. In sostanza, il problema del controllo dello sviluppo indiscriminato è quello che viene sollevato dalla rivoluzione tecnologica.
Se guardiamo questi tre grandi scalini della storia economica, ci rendiamo conto come la distanza sia grande nel confronto tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. Molti paesi in via di sviluppo, soprattutto quelli a basso livello di reddito, quelli chiamati talvolta del “Quarto Mondo”, sono paesi tuttora a livello di rivoluzione mercantile, non essendo ancora entrati nella rivoluzione industriale. Dunque la strada da percorrere è lunghissima perché far percorrere secoli di storia economica a dei paesi che tuttora ne sono alle soglie, non può essere fatto in pochi anni.
Vorrei ora scendere su un terreno più concreto, ma non tanto concreto da lasciare i princìpi. Concludevo prima il mio riferimento alla rivoluzione tecnologica dicendo che oggi bisogna indirizzare lo sviluppo. Questo significa avere dei principi a cui ancorarsi, anche se, evidentemente, l’azione quotidiana è essenziale quanto i principi.
Ebbene, noi sappiamo che i paesi in via di sviluppo si trovano in situazioni drammatiche, descrivibili con riferimento a note tavole statistiche. Se consideriamo infatti i cinque bisogni economici fondamentali, così come vengono classificati dalle Nazioni Unite (cioè alimentazione, salute, istruzione, acqua e abitazione), notiamo che sotto ciascuno di questi profili i paesi in via di sviluppo sono totalmente deficitari. C’è da chiedersi come sia possibile in alcuni paesi vivere, seppure per 35/40 anni, con livelli di alimentazione pari al 45% dell’alimentazione appena sufficiente per la sopravvivenza; oppure come si possa vivere in questi paesi quando per accedere alle acque sia necessario utilizzare almeno mezza giornata. Tutti questi dati rivelano una situazione terribilmente difficile.
Io credo, comunque, che per inquadrare i rapporti tra paesi in via di sviluppo e paesi sviluppati, si debbano tenere presenti le filosofie implicite che ne hanno regolato, in passato, i rapporti. Si possono, a mio avviso, individuare quattro filosofie, che debbono essere rese esplicite, perché il renderle esplicite consente di superarle laddove esse sono sbagliate.
La prima dottrina è quella del progressismo rivendicativo che emerge spesso tra i paesi in via di sviluppo. Molti di questi paesi sostengono che il sottosviluppo deriva principalmente dallo sfruttamento che i paesi del Nord hanno imposto ai paesi del Sud, attraverso la colonizzazione implicita prima e la colonizzazione esplicita poi; ed oggi attraverso un meccanismo di formazione dei prezzi internazionali che penalizza in modo inevitabile il Sud rispetto al Nord. Di questi tre fattori, cioè colonizzazione implicita, esplicita e prezzi internazionali, quello che mi convince di più è proprio l’ultimo, che si riferisce al meccanismo di formazione dei prezzi internazionali. Secondo me questo è oggi il motivo valido a cui i paesi in via di sviluppo si possono agganciare, anche laddove con estremizzazioni non condivisibili hanno atteggiamenti di progressismo rivendicativo.
Naturalmente, quando questi paesi avanzano simili obiezioni è gioco facile per i paesi sviluppati, e soprattutto per una certa corrente di pensiero, quella che io definirei di conservatorismo regressivo, affermare il contrario. I paesi in via di sviluppo sarebbero, infatti, ancora oggi in via di sviluppo perché troppo presto abbandonati dal dominio coloniale; così, secondo tale presupposto, il conservatorismo regressivo vive ancora oggi. Mi è capitato di stare in alcuni paesi in via di sviluppo e sentir affermare chiaramente questo da persone che avevano vissuto lunghi anni in quei paesi e che là avevano ancora interessi economici. Quindi permangono due dottrine nettamente contrapposte. Tanto la linea del conservatorismo regressivo, così come quella del progressismo rivendicativo, affermano una parte di verità.
Molto spesso, fra l’altro, capita di constatare che in molti paesi il persistere del sottosviluppo dipende da piccole oligarchie oppressive dei paesi stessi, le quali tendono ad arricchire se stesse piuttosto che pensare all’interesse delle intere popolazioni. Alcuni anni fa una istituzione internazionale francese fece un’indagine fra vari operai francesi sull’aiuto ai paesi in via di sviluppo. Ed alcuni di essi risposero pressapoco così: Noi siamo favorevoli ad aiutare i paesi in via di sviluppo, ma vorremmo essere certi che il nostro salario dedicato a questo fine non vada ad arricchire oligarchie già ricche. Questa posizione riflette certamente una parte di verità, così come la perplessità circa l’utilità degli aiuti alimentari dipende dal fatto che, talvolta, essi vengono distorti ad altri fini.
In ogni caso, le due dottrine citate, globalmente prese, non sono accettabili, perché hanno un fondamento di questo tipo: il Sud può guadagnare quanto il Nord perde; o, di converso, il Nord guadagna quanto il Sud perde. Siamo ancora in una logica della spartizione. Chi sostiene il conservatorismo regressivo in modo più intelligente di solito arriva alla seguente proposta pratica: i rapporti con i paesi in via di sviluppo devono essere tenuti prevalentemente sul piano commerciale, acquistando materie prime contro manufatti, e possibilmente sul piano bilaterale.
La terza impostazione è quella alla quale dobbiamo credere con lo spirito, cioè quella dell’aiuto umanitario: sappiamo tutti però che questa categoria interpretativa, pur necessaria, non è assolutamente sufficiente per rimuovere le cause del sottosviluppo.
La quarta e ultima strada, dove io credo ci sia molto da sperare e dove molto è già stato fatto, è legata alla concezione del progresso, di un progresso lento, ma razionale, dei paesi in via di sviluppo. Su questa strada vorrei soffermarmi per tracciare alcune indicazioni di possibili rapporti tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. Sono rapporti che si dispiegano nel lungo termine e che non autorizzano facili illusioni.
Nell’assistere i paesi in via di sviluppo durante gli anni passati si è troppo accentuata l’importanza dei beni di consumo finali e degli aiuti alla loro produzione, mentre troppo poco si è fatto per favorire una minima autonomia produttiva di questi paesi. Siete tutti a conoscenza che tanti mezzi di produzione, a partire dai mezzi di trasporto fino ai cementifici, vengono abbandonati nei paesi in via di sviluppo, perché la popolazione non è in grado di mantenerne l’efficienza e la funzionalità, anche per i mezzi più elementari. E’ questo un punto cruciale. Aiutare i paesi in via di sviluppo trasferendo ad essi beni di consumo finale che ne soddisfino i bisogni fondamentali è certamente un fatto positivo, ma, in parallelo, deve essere impiantata una struttura, pur elementare, che essi stessi siano in grado di controllare. Molti paesi in via di sviluppo hanno adottato questa linea sul piano legislativo: in Malesia, per esempio, le importazioni di mezzi di produzione debbono essere attuate con garanzia pluriennale di assistenza da parte del paese che esporta; questa garanzia concerne non solo la riparazione, ma anche l’assistenza alla formazione del personale destinato a gestire una manutenzione autonoma dei mezzi di produzione stessi.
In termini più generali di teoria economica si può dire che il problema qui indicato è quello di una adeguata relazione tra gli apparati produttivi di struttura e di trasformazione nei paesi stessi. Purtroppo, in linea di massima, gli apparati di trasformazione, cioè quelli che mirano alla produzione dei beni di consumo finali sono stati enormemente più curati. Molti ritengono che le esigenze della sopravvivenza non consentano di fare piani a lungo termine, mentre così imporrebbe l’esigenza dell’autonomia produttiva.
Un secondo punto cruciale riguarda la filosofia dei paesi sviluppati e dei paesi in via di sviluppo nei confronti dei fenomeni produttivi e di consumo. Molti paesi in via di sviluppo, non quelli dove regna la povertà più assoluta, ma quelli attestati su fasce superiori di reddito, hanno acquisito modelli di consumo tipici dei paesi sviluppati, che necessariamente non possono essere sostenuti nel lungo termine, nemmeno nei paesi con forti risorse petrolifere. L’esempio della Nigeria è stato spaventoso: un paese che ha adeguato i propri standards di consumo ai livelli occidentali e si è trovato, appena è subentrata la crisi petrolifera, in una delle peggiori situazioni di tutta l’Africa. Credo, quindi, che un dovere specifico dei paesi sviluppati e delle classi dirigenti dei paesi in via di sviluppo sia quello di impedire la diffusione dei modelli occidentali di consumo. Potrà sembrare una posizione oscurantista, ma ritengo sia essenziale. Un terzo punto che mi sembra molto importante, è quello relativo all’utilizzo delle materie prime nei paesi in via di sviluppo. E’ noto che i paesi in via di sviluppo, ad eccezione di quelli petroliferi che hanno avuto una stagione forse felice ma certamente effimera, sono vissuti e vivono sull’esportazione di materie prime.
E’ necessario qui un richiamo riguardo al periodo post-bellico.
Dal 1945 al 1968 i prezzi delle materie prime sono sempre diminuiti in termini relativi rispetto ai prezzi dei manufatti. Il che significa che per tutto questo tempo i paesi in via di sviluppo, nel commercio internazionale, hanno pagato sempre di più i beni manufatti importati dai paesi sviluppati o, in altre parole, si sono impoveriti continuamente perché le loro risorse esportate sono state pagate sempre meno. E’ questa una grande colpa dei paesi sviluppati, perché se avessero avuto coscienza dei problemi del sottosviluppo non avrebbero dovuto consentire una simile evoluzione dei prezzi internazionali. Tra il ’68 e il ’72 i mercati delle materie prime hanno subito dei mutamenti e tra il ’72 e il ’79 hanno recuperato molto terreno. I prezzi delle materie prime sono aumentati enormemente sui mercati internazionali, riguadagnando sui prezzi dei manufatti. Ciò significa che i paesi in via di sviluppo, in quel periodo, hanno potuto acquisire risorse a costi via via inferiori rispetto ai beni importati. Ed infatti le finanze e la situazione economica dei paesi in via di sviluppo (se si esclude il problema del petrolio che ha avuto delle ripercussioni negative anche su di loro), sono notevolmente migliorate.
La questione dei debiti nei paesi in via di sviluppo, di cui si parla spesso, è una questione esplosa in questi ultimi quattro anni, ma maturata assai prima, ancor prima che nella prima parte degli anni ’70. Che cosa è successo dal 1980 ad oggi? E’ successo questo: con la recessione mondiale, che qualcuno dice necessaria per fermare l’inflazione, i prezzi delle materie prime in termini reali sono, caduti ai minimi storici di tutto il periodo post-bellico. Oggi come oggi, il potenziale economico per il commercio mondiale dei paesi in via di sviluppo è forse peggiore di quello che si aveva nel 1946/47.
Alla luce di questa situazione i paesi sviluppati devono fare una scelta. Probabilmente essi ritengono che la tecnica dell’aiuto lasci margini di discrezionalità molto maggiori di quanto non permetta una regola di commercio internazionale basata sui prezzi delle materie prime più alti di quelli che oggi sono praticabili, e che essa sia, quindi, preferibile.
Ma vi è un altro punto che voglio richiamare alla vostra attenzione: è quello che io chiamo problema della multipolarità globale. In questo mondo coesistono, in realtà, molti più poli rispetto alla tradizionale distinzione Nord/Sud, poli che devono essere distinti perché possono servire ad avvicinare i paesi sviluppati ai paesi in via di sviluppo. E dico subito che ì poli che si collocano al Nord possono avere interessi diversi nei confronti dei paesi in via di sviluppo. Gli Stati Uniti, il Giappone e l’Europa hanno, a parere mio, interessi potenziali diversi nei confronti dei paesi in via di sviluppo. Gli Stati Uniti sono una tra le nazioni con la maggiore e più assoluta autosufficienza, non solo alimentare ma di tutte le materie prime: è quindi un paese che non ha alcuna dipendenza nei confronti dei paesi in via di sviluppo. Le risorse e le riserve statunitensi di minerali ferrosi e non, sono più che sufficienti per la tecnologia degli Stati Uniti da qui a chissà quanti anni. Al contrario, l’Europa e il Giappone sono quasi privi di materie prime e per questo sono necessariamente costretti ad importarle dai paesi in via di sviluppo. I giapponesi al riguardo stanno portando avanti un rapporto molto intelligente con i paesi in via di sviluppo e credo che in questo siano all’avanguardia. Una sorta di nuovi “Stati Uniti” giapponesi si sta delineando, per le interazioni tra Indonesia, Malesia e Corea del Sud, tutti paesi che circondano il Giappone. Se andate a vedere le statistiche del commercio estero giapponese, vi accorgerete che proprio il Giappone è il paese che maggiormente commercia con i paesi in via di sviluppo. A mio avviso, l’Europa ha un analogo, preciso interesse economico ad intensificare le relazioni con i paesi in via di sviluppo. A proposito di multipolarità globale, non dobbiamo inoltre dimenticare che i rapporti Sud-Sud, sui quali non posso soffermarmi, sono altrettanto importanti.
Per un superamento del problema del sottosviluppo è essenziale che i paesi più sviluppati stabiliscano dei rapporti continui con i paesi in via di sviluppo. E qui sorge il problema del protezionismo.
Il tessile, la cantieristica, ad esempio sono solo alcuni dei tanti settori in cui si è utilizzato il protezionismo; gli Stati Uniti, per esempio, hanno sollevato questa eccezione nei confronti di Hong Kong, della Malesia, della Corea del Sud. Fare protezionismo significa impedire a questi paesi di esportare, e quindi di avere entrate valutarie.
E’ compito dei paesi industriali risolvere questi punti. Riteniamo che ciò singolarmente non sia possibile; è invece necessario che i paesi industrializzati si interessino a questi problemi nelle assisi internazionali. Su questo piano, però, non posso portare una parola di ottimismo, perché sembra che in questi ultimi anni il logoramento delle istituzioni internazionali e l’indifferenza che le circonda le stiano indebolendo sempre più. Di conseguenza, è grande il timore che la multipolarità globale diventi oggi una dispersione globale su scala mondiale, per cui “ognuno va per la sua strada e ciascuno fa quello che può”.
E arrivo alla conclusione con alcune osservazioni: la prima è che lo sviluppo economico mondiale, se vogliamo aiutare i paesi in via di sviluppo, deve essere rilanciato. Certo, rilanciare lo sviluppo può essere pericoloso in quanto potrebbe riemergere l’inflazione, di cui conosciamo i danni, ma occorre farlo, perché portare il sistema economico in una situazione di stato stazionario è, a mio avviso, ancora più pericoloso. I sistemi economici hanno la tendenza o a crescere o a calare, è difficile farli stare in uno “stato fermo”. Io credo quindi che lo sviluppo economico mondiale debba essere rilanciato e che per ottenere questo scopo gli strumenti esistano.
Il secondo aspetto che vorrei richiamare concerne il triplice problema dei prezzi delle materie prime, del protezionismo e del debito dei paesi in via di sviluppo. Su questo ultimo spinoso problema c’è poco da fare: è necessario pensare a una moratoria di lungo termine sul debito. Molti anni fa, a commento della Populorum Progressio, scrissi un articolo nel quale dimostravo che con i tassi d’interesse di quel tempo sarebbe diventato nel giro di dieci, quindici anni assolutamente impossibile pagare il debito cumulato. C’è, dunque, il problema di una rischedatura di questo debito internazionale, perché i paesi interessati non possono vivere sotto questo assillo.
Il terzo aspetto, infine, riguarda gli interventi di breve e medio termine, cui non si può venir meno, operando in forma di aiuto, di assistenza come, soprattutto gli organismi di volontariato, pongono in essere quotidianamente.
Su questi tre punti io penso sia possibile ricostituire un rapporto costruttivo tra i paesi in via di sviluppo e i paesi sviluppati. La conclusione è ad un tempo ottimistica e pessimistica. Quando si vedono forze di volontari, di organizzazioni non governative, che con costi umani altissimi affrontano l’assistenza e l’aiuto a questi paesi, non si può non essere ottimisti. Quando una forza dal basso è così vitale, l’esito non può essere che positivo. Ma nello stesso tempo bisogna essere pessimisti perché a livelli di governo non si vede, allo stato attuale, una linea precisa per ricomporre in uno sviluppo secolare i rapporti Nord-Sud.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura il 25.11.1985.