Tacito, giudice severo della pax romana

Tacito è vissuto tra il I e il II secolo d.C. ed è senz’altro uno dei maggiori storici di Roma; il pessimismo che permea un po’ tutta la sua opera dipende dai tempi in cui il destino l’ha costretto a vivere, quando a Roma dominavano tiranni sempre più crudeli e sospettosi e per chi partecipava alla vita politica il rischio di cadere vittima del tiranno era sempre maggiore.
Livio, il grande storico della repubblica, poté narrare l’ascesa inarrestabile della potenza romana, le conquiste e le vittorie delle legioni romane, fino al culmine della parabola ascendente dell’impero di Roma, al punto che, come afferma lo stesso Livio, Roma cominciava a soffrire della sua stessa grandezza.
Virgilio poté contemplare il trionfo di Augusto, uno dei momenti più esaltanti della storia di Roma, e celebrò l’impero non come uno strumento di assoggettamento spietato di popoli e di paesi, ma considerò le legioni romane come portatrici di civiltà nel mondo, realizzatrici della missione di Roma nel mondo e nella storia.
Tacito, invece, visse l’inizio della crisi e della decadenza, quando Roma, terminate le vitali lotte della repubblica e della democrazia, era ormai immersa nel lusso e si apriva sempre più agli assalti di popolazioni barbariche che un tempo non osavano minacciarne i confini. Egli si rendeva conto che imperatori, legioni, amministratori pubblici erano diventati sempre più avidi e crudeli e non più portatori di civiltà nel mondo, come pensava la classe dirigente della capitale, ma conquistatori spietati verso i vinti. Dopo il periodo della giovinezza, passato sotto Vespasiano e Tito, la sua maturità fu avvelenata dalla tirannide di Domiziano, che soffocava le migliori energie di Roma sotto il peso di innumerevoli stragi. Allora Tacito volle indagare i motivi di quella feroce tirannide. La parte più ampia di questa ricerca si svolge principalmente nelle due opere maggiori, le Historiae e gli Annales, ma già in due opere cosiddette minori rivela l’originalità del suo pensiero. Nella Germania, contrapponendo la decadenza e la corruzione dei costumi di Roma alla purezza fresca delle popolazioni nordiche, mette in guardia più di una volta i Romani dai possibili assalti di questi popoli dai costumi sani e primitivi, da cui poco dopo Roma e il suo impero saranno davvero assaliti senza che vi sia più la capacità di opporsi e di reagire.
L’Agricola è un’opera scritta in lode del suocero, morto misteriosamente non senza sospetto di veleno, dopo essere stato dalla gelosia di Domiziano richiamato dalla Britannia, dove aveva conquistato la parte settentrionale della regione. Agricola è presentato come il classico tipo del romano antico, severo con sé e con gli altri. Tuttavia Tacito rivela anche qui l’originalità delle sue intuizioni: tutti gli storici prima di lui hanno sempre esaltato il coraggio, la forza, talvolta persino la moderazione del conquistatori romani; egli invece più volte mette in luce l’intemperanza, l’avidità dei comandanti e dei soldati romani che mirano solo a far bottino e ad arricchirsi di denaro e di schiavi.
C’è un capitolo emblematico di questa mentalità dei Romani e della critica indiretta di Tacito, sul quale vorrei soffermarmi. All’inizio dell’estate dell’84 d.C. Agricola riprende le operazioni di conquista della Britannia (cap. 29). Ma i Britanni, per niente scoraggiati dall’insuccesso dei precedenti combattimenti, desiderosi di vendicarsi e convinti finalmente che il comune pericolo debba essere affrontato da tutti, erano riusciti a radunare insieme le milizie di tutte le tribù; essi potevano contare ormai su più di trentamila soldati e ancora affluivano giovani e vecchi, soldati carichi di gloria, ognuno orgoglioso di portare le proprie decorazioni. Fu allora che un capo dei Britanni, Calgaco, che si distingueva per valore e nobiltà, pronunciò un famoso discorso davanti alla moltitudine, riunita, pronta a combattere. Il discorso di Calgaco, forse riferito da qualche prigioniero, è riportato da Tacito in un libero rifacimento che permette di scoprire in parte il pensiero dello scrittore. Almeno per il giudizio negativo sullo stile di un certo colonialismo imperialistico di Roma, le idee di Tacito sembrano concordare con quelle che egli fa esprimere al capo militare dei Caledoni, e che emergono da una situazione unica, eccezionale nella sua disperata gravità. "Ogni volta – traduco e riassumo liberamente il cap. 30 che penso alle cause di questa guerra e alla situazione in cui ci dibattiamo, sono spinto a sperare che la concordia che vi anima sia il punto di partenza per la riconquista della libertà per tutta la Britannia. Voi sapete che al di là della nostra non ci sono altre terre e neppure il mare può darci sicurezza, percorso com’è dalle flotte romane. Impugnare le armi in una situazione come questa è occasione di onore per i valorosi e la protezione più sicura anche per gli imbelli. Noi di tutti i Britanni siamo i più fedeli alla purezza della stirpe e, situati nel cuore dell’isola da dove non vediamo neppure da lontano lidi di popoli schiavi, noi abbiamo conservato anche il nostro sguardo incontaminato dal contagio dell’oppressione. Noi abitiamo le zone estreme della terra, in possesso dell’estremo lembo di libertà, e siamo stati salvati fino ad ora dal nostro isolamento. Ma ora sono dischiusi anche gli ultimi confini della Britannia: non ci sono più altre popolazioni, ormai; nient’altro che flutti e scogli; e, più pericolosi, i Romani, la tracotanza dei quali inutilmente si vorrebbe frenare con l’umile sottomissione"… "Questi protagonisti del latrocinio in ogni parte del mondo, adesso che hanno devastato ogni cosa e terre da saccheggiare non ce ne sono più, anche il mare vanno frugando; mai contenti se hanno a che fare con un nemico ricco; se, invece, il nemico non ha risorse, allora fanno i prepotenti, loro che né l’Oriente né l’Occidente bastarono a saziare: nemici, loro fra tutti, si gettarono con pari bramosia su popoli ricchi e poveri; rapine, massacri, razzie, falsificando il vocabolario, li chiamano a loro modo imperium e, quando fanno il deserto cioè vuoto e desolazione lo chiamano pace". Il testo latino nella frase finale è di un’efficacia e concisione straordinaria: "Ubi solitudinem faciunt pacem appellant".
Il periodo che inizia con il ricordo della razzia, della rapina, è molto più forte nell’espressione latina, secondo l’incisivo stile di Tacito: i Romani sono raptores orbis, il che costituisce una violenta battuta di sarcastica requisitoria contro Roma e i suoi metodi di conquista e di dominio, nella quale oltre all’indignazione del barbaro è da rilevare il pensiero di Tacito, pessimisticamente consapevole delle reazioni negative provocate ormai in tutto l’impero dalla scandalosa amministrazione dei governatori romani. Come pure l’ultimo periodo, particolarmente bello per l’asimmetrica irregolarità, si chiude con un’altra irregolarità concettuale: la pace di Roma è, al contrario di ciò che noi intendiamo, un’ingiustizia senza limiti e il giudizio di Tacito è la condanna dell’imperialismo di allora e di ogni tempo.
Il discorso continua nel capitolo seguente elencando tutti i mali che si riservano ai vinti, la schiavitù, le proprie donne violate, i lavori forzati per aprire le strade agli eserciti dei padroni e si conclude con l’esortazione a combattere, nell’integrità delle forze e non ancora sottomessi, in difesa della libertà.
L’Agricola è un’opera di difficile definizione, oscillante tra una genesi occasionale l’elogio funebre del suocero e una genesi ideale, della quale si trova nel primo capitolo un’espressione rivelatrice, nel punto in cui i tempi in cui Tacito si accinge a scrivere sono definiti "tam saeva et infesta virtutibus": una frase simile immessa al centro di un dibattito drammaticamente concreto suona come un paragone tra la virtù del romano di vecchio stampo e la corruzione del momento attuale e introduce il dibattito tra libertà e tirannide, spesso ricorrente nelle opere di Tacito, che guiderà la sua mano e la sua mente nelle cosiddette opere maggiori, veramente storiche.
 

Giornale di Brescia, 07.07.1996.