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Nel 1979 è ricorso il XIX centenario della morte di Plinio il Vecchio, avvenuta il 24 agosto durante la celebre eruzione del Vesuvio. Appare troppo presto per tentare un bilancio delle celebrazioni e verificare quale contributo critico abbiano dato alla conoscenza dello scrittore e alla sua collocazione nella storia della cultura. Ma anche in questa occasione è comunque ritornato il problema canonico se Plinio fu o no uno scienziato, se la sua Naturalis Historia si possa considerare o no un’opera di scienza. Anche nel Convegno Internazionale di Como del 27-29 settembre, benché non fosse esplicitamente prevista in nessuna delle relazioni, la questione è riemersa. E anche lì si sono contrapposte le due tesi di sempre: da una parte chi sostiene la validità dei metodi e delle acquisizioni di Plinio, dall’altra chi gli nega consapevolezza metodica e abito critico. Non si dimentica che Plinio è contemporaneamente autore di opere storiche, militari, grammaticali e retoriche e che la stessa Naturalis Historia (la più nota perché l’unica conservata) è pur sempre il prodotto del solo tempo libero (cfr. praef. 18) di un solerte funzionario.
Peraltro è fuori di ogni dubbio non solo l’importanza della mole delle notizie raccolte nella Historia, ma anche l’enorme influenza, che essa ha esercitato, per le sue stesse dimensioni, sulle età successive. Quest’influenza è da qualcuno giudicata negativamente, come un pesante condizionamento su ambiti, metodi e campi di ricerca: cfr. per es. W.H. Stahl, La scienza dei Romani, Laterza, Bari 1974, spec. pp. 135-160. Ma c’è anche chi tende a rivalutare la scienza romana proprio per il suo maggior pragmatismo, come fa per es. P. Grimal, Encyclopédies antiques, “Cahiers d’histoire mondiale” 1966, spec. pp. 477-482 (v. anche J. Ramin, Les connaissances de Pline l’Ancien en matière de mètallurgie, “Latomus” 1977, 144-154 e R. Schilling, La place de Pline L’Ancien dans la littérature technique, “Revue de philologie” 1978, 272-283). E’ certo significativo che, all’interno dell’enciclopedia (o, come si direbbe oggi, asse culturale) romana, Plinio abbia isolato, dedicandole un titolo specifico, la sola materia naturalistica. Ma, come non basta l’oggetto (la natura) per fare la scienza, così non basta la coincidenza nei risultati. Per giudicare della scientificità occorre una teoria. Qui il problema si complica in proporzione della molteplicità delle nozioni stesse di scienza: assumere una di queste per giudicare della Naturalis Historia può condurre a visioni unilaterali, anche se rigorose. L’inquadramento non riesce agevole neanche se riportato ai tempi: esemplari le cautele di K. Sallmann nel Kleine Pauly, IV, 935, Drukenmuller, Munchen 1972 s.v. Plinius der Aeltere.
Però alla scienza moderna si collega un aspetto, che può esser assunto con minor arbitrarietà quale termine di riferimento. Da quando l’accelerazione delle esigenze poste dalla vita sociale (l’economia, lo stato, la guerra) ha imposto una più rapida evoluzione della tecnica e dell’organizzazione del lavoro, l’inventività non ha potuto più accontentarsi di metodi artigianali e dell’ingegnosità naturale, ma ha dovuto razionalizzare la sua progettazione e proporre ipotesi non più empiriche. Così la scienza si è legata alla tecnica e al lavoro e ne ha stimolato il progresso. Se la nozione di scienza è molteplice, è invece abbastanza univoca quella di tecnica/lavoro ed evidente la modificazione (o progresso o cultura) che viene impressa alla situazione di partenza (o natura). Si può quindi assumere, anche in un esame di Plinio, la prospettiva della tecnica e del progresso, non tanto perché il legame scienza – tecnica sia ugualmente pacifico per il mondo antico (R. Mondolfo, Tecnica e scienza nel pensiero antico, “Athenaeum” 1965, 279-294; contra, I. Lana, Scienza e tecnica a Roma da Augusto a Nerone, “Atti Accad. Scienze Torino” 1971, 19-44 = Studi sul pensiero politico classico, Guida, Napoli 1973, 385-407), quanto per la sufficiente oggettività del secondo termine. Questa angolatura non è tuttavia diffusa nella critica recente, nonostante la preminente attenzione ai realia (che attesta come la notizia pliniana sia all’origine della storia di molte nostre conoscenze): cfr. le due grosse rassegne di F. Roemer, per il periodo 1964-1975, in “Anzeiger fuer die Altertumswissenschaft” 1978, 129-203, e K. Sallmann per il 1938-1970, in “Lustrum” 1975, 5-299.
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Anche per Plinio il punto di partenza è la condizione umana. Questa viene illustrata nel passo proemiale (e perciò programmatico) del l. VII. Dal confronto con gli altri esseri, piante e animali, risulta la inferiorità dell’uomo. Mentre quelli hanno difese proprie, l’uomo è nudo; mentre quelli sono autosufficienti fin dall’inizio, l’uomo nasce impedito; mentre quelli riconoscono subito la loro natura, l’uomo deve imparare: “l’uomo non sa nulla se non glielo insegnano, né parlare, né camminare, né mangiare: in poche parole, spontaneamente non sa far altro che piangere” (4).
Dalla constatazione di inferiorità di partenza dell’uomo altri scrittori antichi traevano conseguenze positive. L’inferiorità fisica è compensata dalla superiorità intellettuale. La forza dell’intelligenza, che costituisce la differenza qualitativa dell’uomo dagli altri esseri, gli permette di rimontare lo svantaggio iniziale, facendo proprie le forze altrui, assoggettando il creato, trasformando la natura: l’elogio dell’intelligenza diventa elogio del lavoro e della tecnica, che prolunga all’infinito gli organi dell’uomo e gli assicura la sovranità. Il fatto che la superiorità dell’uomo sia in potenza e quindi dipenda da lui attuarla, non solo la colloca in una dimensione storica o culturale che dir si voglia, ma ne assicura l’infinita progressione, cioè l’illimitatezza. Il motivo è addirittura topico (Cicerone) e si prolunga nel Medioevo (S. Tommaso), rimanendo vitale, mutate le forme, nell’ottimismo illuministico e neo-illuministico moderno.
Plinio è d’altro avviso. Anche per lui sono importanti e degni di lode gli inventori: ma nessun rilievo viene concesso all’intelligenza e si tace della creatività. Nell’elenco degli scopritori, che si legge in VII, 123-129 e 194-215, non v’è alcun cenno al loro ingegno o al loro metodo. Cioè il fatto di inventare non è un connotato caratteristico dell’uomo, lo spazio peculiare. Esplicito riesce a questo proposito l’inizio del l. XXVII. Qui si parla proprio dell’inventio, non solo come atto conoscitivo (scoperta di leggi naturali) ma anche in senso operativo (l’applicazione di tali scoperte). L’occasione offerta dal contesto sono gli antidoti ai veleni. Ebbene: si nega che l’inventio sia opera umana. L’inventio è opera divina, ma il deus che rivela è il caso (così anche Dio è riportato all’interno della natura e spogliato anche di quelle caratteristiche di razionalità e provvidenzialità, che l’immanentismo stoico gli riconosceva). La prova è offerta dal mondo animale. Plinio cita il caso di bestie (le pantere), che hanno trovato il rimedio al velenoso aconito. Siccome le bestie non possono comunicare, ossia trasmettersi le informazioni sui ritrovati, rimangono solo due possibilità: o sanno da sempre o riscoprono sempre. Le due possibilità in sostanza si identificano: cioè si può dire che è la natura stessa, la quale possiede certe cose (in dialettica tra loro) e le rivela secondo un criterio misterioso (il caso) (8).
L’uomo non sa certo da sempre: può scoprire, ma con fatica e dolore, senza la semplicità istintiva degli altri esseri. Rispetto all’animale, ha il vantaggio della comunicazione. Trasmettere le conoscenze, cioè insegnare, sostituisce l’automatismo della scoperta animale, e il docere diventa un imperativo morale per l’uomo, in vista del recupero di quella condizione naturale, in cui gli altri esseri si trovano spontaneamente. La scienza si propone in primo luogo come divulgazione del già noto: e questo è appunto il fine, che Plinio assegna alla sua compilazione (cfr. per es. praef. 16; XIV, 7 ecc.).
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Affermare che l’inventio si svolge all’interno della natura e negare che sia opera umana significa inibire all’uomo di superare il dato, cioè di aggiungervi cultura. Il traguardo più ambizioso sarà per lui il ritornare a quel livello, cui gli altri esseri si trovano già spontaneamente. Il mezzo, con cui l’uomo recupera questo livello, è la tecnica, ars. Ma la tecnica può sbagliare, quando cioè contraddice alla natura.
All’inizio del l. XIX Plinio compone la sua apostrofe contro la navigazione. Il problema è topico e come tale potrebbe sembrare uno stereotipo insignificante: la navigazione, interessando soprattutto il grande commercio d’oltremare, era condannata dai poeti perché manifestazione tipica dell’avidità di guadagno.
Plinio sottolinea piuttosto la sua contraddittorietà alla natura. L’occasione gli è offerta, nella rassegna delle piante, dalla menzione del lino, che si adopera per fabbricare le vele. Con le vele la navigazione abbrevia le distanze normali, perché supera la velocità delle onde e per far questo sfrutta il vento, che l’agricoltura dimostra contrario a uno stato normale di natura. Il lino stesso, che brucia il terreno ed esaurisce il suolo, ossia è già in partenza condannabile, viene violentato nella sua struttura per essere tessuto, cioè elaborato, iniuria (cioè contro natura) come fosse lana. Plinio sente acutamente il problema degli equilibri naturali (è forse il primo a parlare di inquinamento: cfr. a proposito di XVIII, 3 A. Mazzarino, Un testo antico sull’inquinamento, “Helikon” 1969-70, 643-645, e aggiungi II, 157). Risultato di questa alterazione è l’accelerazione della morte (la navigazione registrava allora un alto indice di rischio), che è l’esito ultimo di quella inferiorità fisica già lamentata in VII, 1, e per di più senza sepoltura, ossia senza il ritorno alla terra madre da cui usciamo (cfr. II, 154).
Così la natura diventa il termine di confronto, il parametro di valore dell’azione umana. Si tratta naturalmente di una natura immobile, concepita in maniera statica. Perciò, se nel tentativo di recuperare la condizione degli altri esseri, il lavoro dell’uomo (ossia la tecnica) può sbagliare, sbaglia senz’altro se cerca di superare la natura, la quale è l’unico assoluto concepibile. In questo senso non esiste progresso positivo; del distanziamento dalla natura non si può tracciare un bilancio del bene e del male, perché è tutto male. Così è male la tecnica, che se ne fa strumento. Se alcune posizioni moderne sono assolutistiche nell’identificare il positivo con questo progresso, Plinio è proprio all’opposto.
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Se il progresso, come distanziamento dalla natura, è sbagliato per definizione, e se la tecnica, nel ritorno alla condizione degli altri esseri, è soggetta al pericolo dell’errore, un rischio non manca neanche nel ritrovamento della natura, perché in essa esistono già il bene e il male. Su questa constatazione, inquietante per chi spera di trovare almeno lì un assoluto positivo, Plinio ritorna più volte (cfr. II, 14-16; 27; 157; VII, 1; 130-2; 167; 188-9; XV 1-5; XXVII, 9; XXXIV, 138) nel tentativo di trovare una spiegazione accettabile. In realtà riesce solo a dire che anche a questo proposito gli uomini sono peggiori degli animali: gli animali scansano istintivamente il male o ne conoscono il rimedio o almeno ne usano in limiti modesti, e nell’ambito del proprio genere (XVIII, 2-3); l’uomo è l’unico che aggiunga male al male (per es. veleno al ferro delle armi), anzi che moltiplichi (quanto plura eorum genera humana mana fiunt! XVIII, 2-4 e XXX, 138), e usi mezzi negativi non suoi. Anche qui ritorna il sospetto verso la tecnica, che è proprio l’assoggettamento di forze che sono esterne all’uomo.
Questo non significa tuttavia una condanna a priori. La tecnica è buona se conduce al massimo bene, cioè alla realizzazione dell’uomo, che è il recupero del bene in natura. Artes liberales (XIV, 5) sono appunto quelle che giovano alla identificazione o liberazione dell’uomo, cioè alla libertas. Ma nella individuazione del massimo bene, cioè dell’essere ottimale dell’uomo, la distanza che separa Plinio dai filosofi è enorme. Per es. Aristotele postulava un progetto di liberazione dalle necessità materiali, che si risolveva nella conoscenza pura, traendone conseguenze per l’assetto sociale, con la distinzione tra attività intellettuale e lavoro, che non sono ancora state riassorbite dalla coscienza moderna (cfr. il libro di V. Tranquilli, Il concetto di lavoro da Aristotele a Calvino, Ricciardi, Milano Napoli 1979, che va ben al di là dei suoi limiti cronologici). Plinio invece sembra individuare il massimo bene nei due parametri stoici del secundum naturam (con le incertezze accennate) e del prodesse, cioè dell’utile. Ma anche questa seconda categoria è soggetta a profonde deviazioni, quando la si intende come l’utile economico, cioè la smania di guadagno o avaritia. L’avaritia determina la condanna anche della tecnica che si tenga dentro al limite del bene in natura. Sarà evidente allora che la tecnica raggiunge il vertice della negatività, quando alla motivazione economica congiunge la scelta del male o la distorsione della natura. E’ il caso, secondo Plinio, della medicina.
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La medicina è per definizione il rimedio a quella inferiorità fisica dell’uomo, da cui prende le mosse tutta la riflessione. Dunque è al centro dell’interesse pliniano (infatti occupa un terzo dell’opera). Nel citato elenco degli inventori i medici occupano un posto di rilievo, come benefattori dell’umanità. Eppure la posizione contro la medicina moderna è polemica. Fraudes hominum et ingeniorum capturae (quest’ultima espressione è quasi intraducibile) hanno inventato i laboratori in cui si fabbricano compositiones et mixturae inexplicabiles, con ingredienti esotici persino per i casi più semplici (XXIV, 5: anche per una piccola ferita si prescrive una medicina proveniente dal Mar Rosso). Plinio vorrebbe invece una medicina semplicissima: i rimedi veri sono quelli che i più poveri usano per cibo (ibid.), ossia i prodotti della terra allo stato naturale. In altre parole, in coerenza col suo sistema di idee, rifiuta una medicina, che non sia già esistente in natura; rifiuta cioè qualsiasi grado di manipolazione delle componenti naturali. Così finisce nella medicina popolare (cfr. V. Capitani, Celso, Scribonio Largo, Plinio il Vecchio e il loro atteggiamento nei confronti della medicina popolare, “Maia” 1972, 120-140 e L. Gil, Arcagato, Plinio il Vecchio y los medicos, “Habis” 1972, 87-102). Degli antichi dice incisamente: non rem damnabant sed artem (XXIX, 16). Res è la cosa in sé, cioè la medicina, una necessità, che non si può negare, perché discende dall’inferiorità dell’uomo. Si nega invece la medicina attuale, in cui convergono motivazioni di lucro, manipolazione tecnica, distanziamento dalla natura e, in più, occultamento delle nozioni acquisite, quindi mancanza del docere, sempre per ragioni di avaritia.
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L’aggiunta della avaritia alle possibili deviazioni della tecnica potrebbe sembrare un’intrusione moralistica e, quindi, eterogenea. Invece è coerente con la visione di fondo. Già nel passo più volte citato di VII, 1 l’inferiorità fisica dell’uomo è legata alla sua inferiorità morale. Siccome l’uomo è l’unico essere che nasca imperfetto, così è l’unico, cui sono date in sorte luxuria, ambitio, avaritia, superstitio. Nessuno ha vita più fragile e passioni più forti (nulli vita fragilior, nulli rerum omnium libido maior). Perciò gli altri animali vivono nel rispetto reciproco all’interno delle diverse specie, solo l’uomo danneggia il suo simile: homini plurima ex homine sunt mala. Se ne dovrebbe dedurre che quel tanto di progresso, che Plinio ammette, cioè il ritorno allo stato positivo della natura, dovrebbe essere, oltre che tecnico, morale, o meglio, il risanamento (tecnico) dovrebbe produrre un miglioramento (morale). Il risultato concettuale è notevole. Potrebbe costituire una soluzione a quel problema della separatezza del lavoro dal valore, cui sopra si è accennato, e sarebbe una novità nel mondo antico, ma anche un suggerimento per il moderno.
Invece questa prospettiva risulta storicamente perdente. Prevale invece nella tradizione la linea per esempio di Seneca, il quale nell’epistola 90 confuta vigorosamente la tesi posidoniana della discendenza della tecnica dalla filosofia e ritiene utile moralmente solo la filosofia.
A che cosa è dovuto l’insuccesso pliniano? Certo allo scarso vigore espressivo, ma anche alla sua debolezza teoretica. Al momento di fondare teoreticamente la relazione fra tecnica e morale, fra teoresi e prassi, il pensiero di Plinio si intorbida e si arresta. Percepisce che il conoscere è essenziale al fare, ma sposta decisamente l’attenzione sul secondo termine. All’inizio del l. II, dove c’è il massimo tentativo di speculazione, Plinio identifica nel mondo Dio e Dio nel comportamento: Dio è l’aiuto reciproco tra gli uomini (18, Deus est mortali iuvare motalem). La massima sarebbe ottima, se fosse la traduzione etica di una nozione divina; al contrario si impoverisce, perché si riduce a una visione attivistica senza altra fondazione. Lo stesso riferimento alla natura è insufficiente, perché di essa Plinio non pensa di conoscere il senso (la ragione, il logos degli stoici), ma solo il fenomeno in cui essa si risolve (cfr. praef. 18). Allora il conoscere e l’utile perdono ogni animazione e si restringono al dato e al fatto: la Naturalis Historia assume l’aspetto di un immenso repertorio (“magazzino” lo chiamava realisticamente l’autore stesso, praef. 17), e come tale venne letto e usato.
Se si pensa alla tutela, che Plinio con i suoi dati e le sue incertezze ha esercitato per lunghi secoli, sempre decisivi per la formazione dell’uomo moderno, si ha un motivo di più per comprendere perché ancora si fatichi a fare di scienza e tecnica forme di vita morale e perché la loro separatezza dal resto mini alla base l’unità dell’uomo e revochi continuamente in discussione la stessa nozione di progresso.
Astrofisma, aprile-giugno1980.