Valentina Gheda: Siamo qui oggi in compagnia del professor Luciano Floridi dell’Università di Oxford, docente di filosofia e di etica dell’informazione e direttore del Digital Ethics Lab. Il professore ha numerose pubblicazioni all’attivo, tra cui ricordiamo, per Raffaello Cortina Editore, “Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale” e poi il prossimo libro in uscita, di cui parleremo più tardi. Abbiamo deciso di intervistarla per parlare, ovviamente, dell’emergenza sanitaria che ha colpito il nostro Paese, l’Italia, il Paese dove lei insegna, la Gran Bretagna, e il mondo. L’emergenza sanitaria ha confinato la popolazione all’interno delle proprie abitazioni per più di due mesi, accelerando dei meccanismi, che erano già in atto nel nostro Paese – come appunto la digitalizzazione – in particolare per quanto riguarda i processi produttivi, i servizi, ma anche le relazioni sociali. Lei, che è docente di filosofia ed etica dell’informazione e direttore di questo laboratorio del digitale, come considera questo cambiamento e cosa pensa possa rimanere e possa poi scomparire con la scomparsa del virus?
Luciano Floridi: È una domanda difficile. Non abbiamo tanto tempo, quindi, io cercherò di dare una risposta a grandi linee. Immaginiamo che questa pandemia sia stata, tra le tante disgrazie che ha causato, anche un’opportunità di trasformazione. La digitalizzazione del Paese, soprattutto in Italia, stava avvenendo già (Agenda Digitale e così via), ma era una trasformazione lenta. È stata, ovviamente, bruscamente accelerata e cosa succederà domani quando, speriamo presto, la pandemia sarà un ricordo? Io identificherei tre punti: il primo è che questa è una soglia di non ritorno. L’abbiamo oltrepassata, il digitale oggi è diventato una cosa ordinaria per lavorare, socializzare, operare in remoto… Sarà difficile, domani, tornare indietro e dire ricominciamo a fare tutto con cartaceo, vedendoci sempre di persona. Si pensi per esempio alla questione sui pagamenti digitali, in remoto: oggi ci siamo attrezzati, domani sarà ordinario pagare anche un caffè con la carta di credito, come avviene ovunque nel mondo. Questa è una cosa buona nella brutta tragedia che ci ha colpito. Quindi, c’è una soglia di non ritorno, ma dopo questa storia ci sono altri due punti: la direzione e la profondità dei cambiamenti. Indietro non torneremo o, meglio, ci torneremo poco, male, ci sarà un po’ di inerzia, un po’ di riluttanza, ma il passaggio è avvenuto. La questione diventa duplice: in che direzione vogliamo muoverci e quanto profonde saranno queste trasformazioni? Parliamo della profondità e poi, velocemente, della direzione. Se una soglia non è un punto di ritorno, questo non vuol dire che la profondità dell’impatto sarà uguale ovunque. È chiaro che per i pagamenti on-line, per il sistema bancario, la trasformazione sarà profonda. Sarà profonda anche in termini di posti di lavoro, interazioni, modalità operative da parte nostra (si pensi ad esempio alla logistica e al cosiddetto delivery dei beni di consumo). Ci siamo abituati a farci una vita un po’ più comoda. Allora sarà Amazon a vincere e a portarci a casa un po’ di tutto, o anche il negoziante attrezzato? È qui la profondità della trasformazione. La direzione non è soltanto nell’economia, ma è anche politica. È, forse, venuta la volta buona in cui noi prendiamo la strada di un digitale buono per tutti, per la società, o continueremo ad attraversare un digitale che non ci piace tanto, che è buono soltanto per alcune aziende, che serve soltanto per l’economia, ma non anche per una buona politica, una buona società? Io mi auguro che ci sia l’intelligenza e la capacità politica, in senso buono del termine, di prendere questa grande occasione e sfruttarla per andare nella direzione giusta. La direzione giusta vuol dire, per esempio, un digitale che è per tutti, dove il digital-divide (ad esempio, vediamo oggi a scuola classi che possono facilmente fare lezione in remoto e altre classi che non possono, bambini che non hanno la tecnologia, che non hanno l’educazione, gli skills, i supporti) non sia ignorato. Un Paese come l’Italia non può permettersi di ignorare questa opportunità e i problemi che potrebbe risolvere cogliendola appieno. Una buona Agenda Digitale, fatta da un buon governo, è quello che mi auguro come terzo punto: la direzione del cambiamento.
Valentina Gheda: La tecnologia si è dimostrata uno strumento imprescindibile in questo periodo, capace di superare le distanze sia dal punto di vista operativo che da quello affettivo. Ma si discute molto, non solo da adesso, sulle possibilità di una deriva tecnocratica. I necessari interventi limitanti della libertà individuale da parte del governo e la creazione di app come “immuni”, volte al monitoraggio del contagio, hanno dato nuova linfa vitale alla dialettica tra la libertà e la sicurezza, in quanto privilegiare una può andare poi a discapito dell’altra. Varcare una determinata soglia in questo senso, in favore, in questo caso, di una maggiore sicurezza, potrebbe mettere a repentaglio i principi della libertà stessa? O, comunque, un eccessivo controllo, anche se volto in questo momento alla salute pubblica generale, può minare le basi stesse della democrazia? Le chiediamo da filosofo, dunque, di capire dov’è l’equilibrio tra questi due poli e quando si può parlare di superamento dell’umano da parte della tecnologia.
Luciano Floridi: Si pone spesso questa dialettica, questa tensione tra libertà da un lato e sicurezza dall’altro. Resto un po’ insoddisfatto quando ci fermiamo a questo bipolarismo: o una o l’altra, un po’ di più un po’ di meno, come se avessimo una ricetta con due ingredienti. In realtà, la ricetta è leggermente più complicata. Ci vuole un terzo ingrediente: libertà, sicurezza e controllo. Chi controlla la quantità di libertà o la quantità di sicurezza e il trade off, la bilancia tra i due? È questo terzo ingrediente che dobbiamo includere nel dibattito e, una volta incluso, la ricetta è più facile. Cucinare soltanto con uno o l’altro, un po’ di più e un po’ di meno, è veramente difficile. Non si capisce chi dei due debba essere privilegiato. Se noi inseriamo il concetto di controllo, allora le cose diventano interessanti, ma anche forse leggermente più facili, perché è sulla base del controllo democratico che noi possiamo decidere come popolazione, come paese – non Stato, ma paese dal basso verso l’alto – e dire “noi, cittadine e cittadini italiani, per sei mesi, faremo questo sacrificio. Abbiamo bisogno di più salute, di sterminare questo brutto virus e, quindi, dobbiamo rimanere chiusi in casa, in quarantena. Possiamo autoimporcelo. Lo controlliamo noi, come popolazione, democraticamente.” Se, invece, non c’è questo controllo ed è qualcosa imposto dall’alto, dove il controllo non è democratico, non è da parte della popolazione, della cittadinanza, del Paese, ma è di qualche organismo esterno che lo impone violentemente dall’alto verso il basso, allora la ricetta a due ingredienti diventa problematica. Chi lo decide e quando? Quando c’è una crisi così grave, dove ci sono decine di migliaia di morti, è chiaro che c’è una prevalenza da parte della popolazione a preferire un certo sacrificio piuttosto che un altro. Arriva un controllo, si chiede una scadenza: “fino a quando mi chiedi di fare il sacrificio, fino a quando decidiamo di stringere i denti?”. Si può fare, ma va fatto dal basso verso l’alto, democraticamente e con una scadenza. A quel punto la ricetta è molto più ragionevole. Quello che non è ragionevole è una ricetta a due ingredienti, una visione binaria, dove il controllo è nelle mani di qualcun altro, che chiede ad altri di fare sacrifici. I sacrifici autoimposti sono benvenuti e sono etici. Quando io chiedo a qualcun altro di fare il sacrificio, ma non lo faccio io, lo impongo, non è più democrazia, è dittatura.
Valentina Gheda: Con questa domanda ci colleghiamo alla parte conclusiva della nostra intervista. Da una settimana, ormai, siamo entrati nella famosa fase due, molto delicata, di convivenza con il virus, dove si inizia a pensare al futuro e a progettare, a ragionare sulle prospettive, dopo questa vicenda. Il coronavirus ha scoperchiato il classico vaso di Pandora, da cui sono usciti i mali che attanagliavano la società, come la diseguaglianza sociale, i sovranismi e le basi piuttosto fragili di un’economia che adesso dovremo andare a sostenere. A breve, con Raffaello Cortina Editore, lei pubblicherà il suo ultimo volume “Il verde e il blu. Idee ingenue per migliorare la politica.” Proprio alla luce di questo testo, quali saranno le idee che potrebbero guidare i cittadini, ma in particolare la politica stessa?
Luciano Floridi: Non è un Instant-book, non l’ho scritto a ridosso della pandemia, però devo alla quarantena la capacità di averlo finito. Era iniziato nel 2017 e se non fosse stato perché mi sono dovuto chiudere in casa a lavorare soltanto a quel libro, non so quando l’avrei finito. Lavorando a quel libro, in questo periodo, ovviamente, la mente è andata molto anche alla situazione attuale. Ma è un libro che voleva e vuole affrontare il problema della buona e della cattiva politica in maniera molto più filosofica. Quali sono le idee di cui oggi c’è più bisogno? Non sono le buone idee, quelle spicciole, quelle di buona politica, tassazione,… di queste ne abbiamo tante e sono buone. Io nel libro suggerisco che si debba un po’ ripensare a tre o quattro elementi fondamentali, che stanno filosoficamente alla radice del nostro pensare socio-politico. Mi limito a tre ipotesi, forse anche un po’ingenue: di che cosa parla, di cosa si occupa la politica; che progetto umano vorremo avere dal punto di vista sociale; a che serve la tecnologia in politica. Già queste tre sono questioni enormi. Di che cosa si occupa la politica? Da sempre parliamo della “res publica”, ma la res, la cosa pubblica è forse quello che ci interessa meno. È la “ratio publica”, nel senso latino di relazioni. Sono le relazioni tra noi, il network, la rete che ci unisce, quello di cui si dovrebbe occupare la politica. Perché se si aggiustano le relazioni tra noi, noi che siamo nodi in questa rete, poi vivremo meglio, saremo più bravi. Per fare un esempio: la politica non si occupa del concetto di cittadino, ma del concetto di cittadinanza. La cittadinanza è una relazione, il cittadino è una “cosa”. Bisogna spostare la politica da una teoria delle cose a una teoria delle relazioni. Che progetto vogliamo avere nel ristrutturare la rete di relazioni, il tessuto sociale, fatto appunto di relazioni? Il tessuto sociale si può gestire meglio, migliorare, aiutare, guardando soprattutto alla seconda gamba sulla quale noi non abbiamo fatto molta pressione, che è la gamba di tipo sociale. Abbiamo, per molto tempo, elaborato un progetto umano altamente individualista, per cui il progetto sociale è, in realtà, un metaprogetto che va a curare i progetti individuali di tutti. È come se lo Stato, la società, la comunità dicessero “io un progetto non ce l’ho, ma faccio sì che i vostri singoli progetti siano fattibili, legali”. È un errore, ma non perché questo non sia importante, ma perché è soltanto una gamba del mondo sociale e politico. L’altra gamba, che era quella comunitaria, sociale, non l’abbiamo proprio utilizzata e, quindi, abbiamo un po’ zoppicato. E si è visto quando la società ha dovuto avere un ruolo significativo. Il progetto sociale era stato ormai troppo trascurato. Un progetto sociale, umano, per il futuro è legato alla solidarietà. E non si tratta di me con me stesso, dell’uomo che si fa da solo, della donna che si fa da sola. È tra noi. La solidarietà, che è il secondo articolo della Costituzione della Repubblica Italiana, quindi è fondamentale, è tra noi, tra noi e le istituzioni, le istituzioni con noi. Quindi, non è soltanto sociale, ma anche politica. E, come dice l’articolo stesso, è anche economica nel senso di “oikos”, cioè casa comune. Quindi solidarietà anche con l’ambiente. Tra noi, le istituzioni e l’ambiente che ci circonda, tutto il mondo. Questo è il progetto umano che vale la pena sviluppare. Come facciamo a fare tutto questo, con che mezzi? Con una nuova alleanza, anzi, una prima alleanza, perché non c’è stata prima, tra politiche digitali, che chiamo blu (blu elettrico), e politiche ambientaliste – di tutto, anche della società – che chiamo, ovviamente, verdi. Secondo me, è da questa alleanza che si può creare un mondo dove la solidarietà è la seconda gamba sulla quale noi camminiamo, in versione di una politica che si occupi delle relazioni e non soltanto dei relata, delle cose che nascono dalle relazioni.
Nota: Testo non rivisto dall’Autore.