Nella Russia di oggi è dato di osservare un fenomeno senza precedenti: la coesistenza di due culture differenti e anzi in reciproca posizione antagonistica, l’una ufficiale e l’altra clandestina; la seconda si contrappone nettamente alla prima tanto nei suoi criteri artistici e nelle forme quanto nelle sue posizioni filosofiche e nella sua visione del mondo, il che dà il diritto di guardare alla letteratura clandestina come ad un fenomeno autonomo ed importante.
La letteratura ufficiale degli ultimi anni non può vantare alcuna opera in grado di reggere il confronto con opere clandestine quali “Il dottor Zhivàgo” di Pasternàk, “I sette giorni della creazione” di Maksìmov, “Liubìmov” e “Una voce dal coro” di Siniàvskij, “Reparto C” e “Il primo cerchio” di Solzenicyn, “La vita e le straordinarie avventure del soldato Ivàn Ciònkin” di Voinòvic, “La casa deserta” di Ciukòvskaia e altri. Parlando di letteratura clandestina dell’Urss capita che spesso non ci si renda pienamente conto del significato di questo fenomeno: lo stesso aggettivo “clandestino” può erroneamente indurre a pensare ad un fenomeno limitato, di scarso rilievo. In realtà le cose stanno esattamente al contrario: la viva e autentica cultura russa, ossia ciò di cui vive spiritualmente la gente russa, ciò che esprime compiutamente la sua esperienza di vita, il suo modo di pensare, tutto ciò è colpito da divieto; invece la cultura ufficiale sovietica, quella che si può conoscere dai libri e dai periodici sovietici, è soltanto un morto involucro, una pseudocultura fondata su pseudovalori in cui tutti hanno da gran tempo smesso di credere. Dietro la facciata falsa e tenuta in piedi artificialmente si pone nella società sovietica la vita autentica di tutto un popolo e appunto di questa genuina e segreta vita del popolo si rende partecipe oggi la letteratura russa clandestina.
Il numero delle opere clandestine è tale da sfuggire ad una stima sia pure approssimativa: è difficile trovare oggi in Russia un esponente dell’intellighentzia il quale non sia mai entrato in contatto con il “sottosuolo” letterario e non abbia mai letto libri proibiti. Oltre all’ampiezza e molteplicità di questo fenomeno, vorrei mostrare che gli autori clandestini vivono nel medesimo clima spirituale e che in essi si ritrovano premesse iniziali comuni, accettate da tutti come assiomi: proprio questi assiomi della coscienza russa d’oggi restano incomprensibili e sfuggono all’attenzione degli osservatori stranieri. Nonostante il grande interesse per la Russia, la vita autentica dell’attuale società russa rimane ignota ai più; sono stati bensì tradotti in Occidente e in Italia i libri di Solzenicyn, di Siniàvskij, di Maksìmov, ma si tende a dare ad essi un giudizio particolare, quasi si trattasse di fenomeni isolati, senza comprendere che essi fanno parte del tessuto organico di un’intera cultura.
Molte delle idee espresse da questi scrittori vengono accolte e valutate quasi che si trattasse di loro opinioni esclusive e perciò tanto più originali, bizzarre, discutibili e passibili di confutazione, laddove esse assai sovente appaiono veri e propri luoghi comuni per noi russi. Ogni russo le intende naturalmente da sé perché esse sono nell’aria, impregnando di sé l’atmosfera dell’odierna società russa.
La nascita del samizdàt cioè della “autoeditoria” clandestina è legata al particolare processo della vita sociale russa dopo la morte del dittatore Stalin; dopo la riabilitazione e la liberazione dai campi di concentramento di milioni di detenuti, la Russia si è destata dal profondo letargo: la generale agitazione degli animi, la necessità di ripensare l’esperienza degli ultimi cinquant’anni, cioè il tentativo di dare vita ad una società, ad una cultura, ad una morale nuova e persino ad un uomo nuovo e ancora, l’aspirazione ad uscire dall’isolamento culturale che nel corso di alcuni decenni ha tenuto il paese lontano dal resto del mondo civilizzato, le esigenze di idee nuove e di nuove forme, l’impossibilità di trovare posto nei limiti della censura non hanno tardato a dar luogo al samisdàt. Dividere la letteratura in periodi storici è sempre operazione convenzionale, però nel caso della letteratura russa contemporanea si può notare una linea di divisione chiara: dopo trenta anni di inesistenza la letteratura russa rinasce improvvisamente e si può anche individuare con esattezza la data di questa rinascita: il giorno dell’apparizione de “Il Dottor Zhivàgo” di Pasternàk. E’ vero che nel trentennio staliniano furono scritte alcune opere valide, come i romanzi di M. Bulgàkov o di A. Platònov, ma tutte queste opere o divennero note soltanto oggi o ancora oggi restano proibite e fanno parte anch’esse della letteratura clandestina.
“Il dottor Zhivàgo” di Pasternàk è molto più di un libro: è un evento storico; dopo lunghi decenni di silenzio in cui la letteratura russa si era volta unicamente ad illustrare in modo trito e tedioso le risoluzioni del partito, risuonò ad un tratto la voce forte della Russia viva: il libro di Pasternak ristabiliva il legame spezzato delle epoche e gettava un ponte attraverso l’abisso del vuoto spirituale e del fatale inselvatichimento, il ponte fra la vecchia cultura russa e quella nuova nascente e risorgente. Quasi fosse il primo sasso caduto dall’alto, “Il dottor Zhivàgo” trascina dietro di sé un’intera valanga di letteratura sotterranea e il processo subisce un aumento vertiginoso. Intorno al romanzo di Pasternàk già molto è stato scritto in Occidente, ma nel coro discorde delle molte voci contraddittorie è andato purtroppo perduto l’elemento più importante: il senso del romanzo, così evidente per noi russi che abbiamo trascorso l’intera vita nella Russia sovietica e che può essere inteso soltanto in quel contesto. Il tema del libro secondo molta critica occidentale sarebbe la inconciliabilità tra il poeta e la rivoluzione: poiché la rivoluzione nella sua prassi sarebbe odio, distruzione, durezza, violenza e morte, sottomissione e disciplina, semplificazione e volgarizzazione, mentre la poesia sarebbe bellezza, gioia, sensibilità, raffinatezza, indipendenza, approfondimento di se stessi, originalità, individualismo e solitudine: infatti questo tema è presente nel libro, ma non è quello principale: se così fosse il libro di Pasternàk non avrebbe nulla di singolare, perché qualcosa di simile si poteva leggere in molti altri libri. Pasternàk non nega la verità della rivoluzione, la verità del suo impeto, del suo slancio, delle sue aspirazioni, e vede con occhio infallibile l’ingiustizia in seno alla vecchia società, ma la logica della rivoluzione, con la sua violenza e la sua intolleranza, ci avverte Pasternàk, conduce purtroppo di regola a mete ben differenti da quelle che inizialmente si proponeva. Pasternàk era lontano dall’idea di comporre un romanzo politico: il senso del libro va ritrovato molto più in profondità: la sua critica e il suo rifiuto della realtà sovietica si manifestano ad un livello ben più profondo, quello che è proprio dei massimi pensatori russi dell’inizio del nostro secolo. Nikolài Berdiàiev, Serghéi Bulgàkov, Lev Scestov. Il cardine su cui si regge il romanzo è il personalismo, il quale non ha nulla a che vedere con l’individualismo del singolo come ribelle che si leva contro il progresso storico, individualismo di cui Pasternàk è stato più di una volta accusato. Dal punto di vista pasternacchiano l’individualista è essenzialmente una creatura senz’anima: è l’uomo in sé e quindi inevitabilmente privo in certo qual modo di individualità, dato che il grande mistero della personalità si nutre di spirito cristiano, e il cristiano vive l’amore verso il prossimo; la concezione pasternacchiana della vita come sacrificio è incompatibile con l’individualismo. Non in difesa dell’individuo insorge Pasternàk, bensì in difesa della personalità in quanto portatrice della più grandi ricchezze spirituali e del senso della vita, in quanto valore unico e insostituibile del nostro mondo, in quanto soltanto in essa si rivela l’intera pienezza della vita. Qui appunto è il motivo centrale del ripudio pasternacchiano della realtà sovietica, costruita in base ad un principio impersonale in cui la vita di ciascuno esiste non in sé e per sé ma- come dice Pasternàk- in modo didascalico e illustrativo a conferma della giusta linea della politica suprema. Si tratta dell’antagonismo fra l’astrattezza delle teorie piatte e la corposità della vita concreta, fra la subordinazione e la libertà o l’estro creativo, fra la gigantomania dei compimenti storici e l’autentica grandezza delle cause piccole ma buone, fra la chiarezza che procede diritto davanti a sé e va esente da dubbi, propria dell’ignoranza, e la complessità misteriosa e inconcepibile dell’esistenza, fa la verità della vita e la menzogna dell’idolatria. Il personalismo, in quanto affermazione del principio della personalità è il tratto più importante e più sostanziale della letteratura e della cultura non ufficiale; si tratta di una linea che corre ininterrottamente da “Il dottor Zhivàgo” attraverso tutta la letteratura clandestina. Il personalismo inteso come liberazione della personalità dall’assoggettamento ad ogni sorta di obbiettivi politici, ideologici, economici, cioè ai cosiddetti “compiti storici” (una delle espressioni predilette dalla propapanda sovietica) è connaturato in minor o maggior misura a tutti gli autori clandestini, e l’attrazione verso il Cristianesimo e la rinascita religiosa a cui si assiste nella società sovietica del nostro tempo, come i motivi religiosi che ricorrono nella creazione degli scrittori clandestini, si spiegano con la stessa fuga personalistica della dottrina ufficiale determinista e materialista, la quale non tiene alcun conto dei valori della personalità e dello spirito. L’esperienza vissuta nell’ultimo cinquantennio dal popolo russo ha generato la consapevolezza dell’assoluta inconsistenza di questa dottrina totale, e perciò il primo impulso è consistito nell’aspirazione ad abbandonare il totalitarismo, nell’esigenza del diritto a coltivare il dubbio, nell’esigenza di parità di diritti fra due verità differenti, anzi del diritto all’errore. Molto diffuso è lo scetticismo in conseguenza del fallimento delle verità ultime conclamate con parole altisonanti; qualsivoglia dottrina viene riguardata unicamente come un sistema di ipotesi non dimostrate e l’ondata di opere dell’assurdo nel samizdàt è una manifestazione di tale tendenza.
L’ideologia ufficiale che pretende di passare per verità assoluta ha generato un’avversione per ogni forma di autoritarismo e nei confronti di tutte le autorità. E’ molto sintomatico in quel senso un breve romanzo anonimo intitolato “Le rivelazioni di Vìktor Vél’skii”. E’ sintomatico il tentativo di Vél’skii di creare un proprio vangelo, di giungere da solo a scoprire tutto in modo nuovo e dalle radici. Tragica è la storia di Vél’skii: i suoi anni di studio coincidono con gli ultimi anni del terrore staliniano e l’atmosfera di quegli anni è ricostruita con notevole efficacia nel romanzo. Vél’skii frequentava un circolo di giovani amanti del pensiero libero e, allorché uno degli amici viene improvvisamente arrestato, Vél’skii capisce che il suo arresto è imminente, allora tradisce i compagni: salva la sua vita ma entra in una profonda crisi spirituale. “Gli anni della gioventù- scrive- che sono i più sacri della vita di un uomo hanno fatto di me un traditore, insozzando la mia anima e trasformandomi in un essere cinico. Come ogni uomo normale sono venuto al mondo con il cuore aperto al bene, ma loro mi hanno iniettato ghiaccio nel cuore finché esso è diventato rigido”. Vél’skii si rinchiude in se stesso e si allontana da quel mondo in cui regna una falsità che non può più tollerare, passa la sua giornata a riflettere sul senso della vita, sul mistero dell’esistenza. La questione fondamentale che tormenta Vél’skii è l’insensatezza della vita al cospetto della morte inevitabile; è una questione che molti potrebbero chiamare banale, mille volte ripetuta, ed è invece una questione eternamente nuova, tanto più nuova per la letteratura sovietica, in cui il tema della morte è un tema proibito. In questo libro clandestino la letteratura russa si volge nuovamente in maniera aperta e diretta al problema del senso della vita e a quello della morte e dell’esistenza di Dio. La dottrina marxista che determina il carattere della letteratura sovietica ignora completamente la tragedia della morte: il singolo deve rinvenire il senso della sua esistenza nel servizio all’umanità e al progresso. Vél’skii distrugge facilmente questa logica appigliandosi ad un semplice argomento: l’umanità è mortale e finita al pari del singolo individuo, e di conseguenza la vita dell’umanità intera appare nel segno della condanna ed è tragica ed insensata al pari della vita dell’individuo singolo: a meno che essa non disponga di uno scopo che non sia unicamente quello del suo temporaneo miglioramento e prolungamento. “Per l’umanità è possibile una sola grande alternativa: o essa vincerà la morte o la morte vincerà l’umanità; io amo e maledico Iddio in quanto suprema ipotesi creata dall’umanità e per il fatto che non si può prescindere da essa”. La fine di Vél’skii è tragica: il suo urto con la società si volge per lui in una catastrofe, la polizia si dà a perseguitarlo come parassita ed egli viene rinchiuso in una clinica psichiatrica. “Le rivelazioni di Vìktor Vél’skii” possono realmente essere dette le confessioni di un figlio del secolo: esse costituiscono un documento umano pieno di toccante sincerità.
La quieta attenzione per la vita interiore dell’uomo, la messa in rilievo della singolarità di certe situazioni e di certi caratteri, il metodo del cosiddetto straniamento, la ricerca dell’originalità nello stile e nella forma e finalmente la dichiarata avversione per il piatto realismo, per il descrittivismo del realismo socialista, tutto ciò ha per fondamento la stessa affermazione del primato individuale e personale contro l’anonima impersonalità e inflessibilità dei dogmi imposti a tutti assolutamente. Uno degli impulsi che costringono lo scrittore a rifugiarsi nel samizdàt è l’insopprimibile aspirazione a trovare nuovi mezzi espressivi e nuove forme atte a trasmettere la nostra originale e più recente esperienza. La tediosa monotonia e l’informe grigiore del realismo socialista, di quel metodo cioè che è stato reso obbligatorio in tutti i campi dell’arte sovietica, provocano il disgusto dello scrittore e lo inducono a mettersi ala ricerca di strade nuove: gli uni si ingegnano di ricostruire il legame spezzato con l’arte russa del principio del nostro secolo e di trovare ivi le fonti vitali e gli stimoli capaci di favorire un avanzamento e gli altri fissano la loro attenzione sulle forme innovatrici dell’arte occidentale, ma bisogna aver presente che la conoscenza di quest’ultima è fortemente osteggiata e resa difficoltosa dal divieto di accedere ai libri stampati in Occidente: in altri termini non è possibile conoscere questi libri se non per via illegale. Il desiderio di spezzare le catene imposte dalle prescrizioni rigorose delle autorità spinge molti scrittori, anche quelli lontani dalla politica e impegnati in ricerche di carattere puramente estetico, a rifugiarsi nella clandestinità: gli scrittori sensibili alla forma capiscono bene che non è più possibile descrivere l’attuale vita sovietica alla vecchia maniera, perché troppo è mutato il paese e con esso il carattere della gente, la sua psicologia, il suo modo di vivere.
Nel febbraio del 1966 un gruppo di giovani poeti, scrittori e artisti rese di pubblica ragione il proprio credo in forma di manifesto. Quel gruppo si era dato il nome di “S.M.O.G.” e ardì di pubblicare la rivista clandestina “Le sfingi”, e fece inoltre diffondere una quantità di opere e di saggi di scrittori clandestini: la tradizione dell’arte russa cui si riferiva il gruppo nel suo manifesto era innanzitutto quella delle avanguardie del primo quarto del secolo: tradizione infranta bruscamente con la violenza alla fine degli anni venti. Nei racconti di quei giovani scrittori tutto appare nebuloso, instabile, appena accennato, stravagante, misterioso, come se gli autori volessero lasciare ai soli lettori ampio spazio per ogni sorta di intuizione e interpretazioni: gli scrittori fanno molto conto sulla collaborazione letteraria del lettore. Qui conviene parlare anche di uno scrittore come Andréi Amàl’rik, noto in Occidente soprattutto come autore del saggio “Sopravviverà l’Unione Sovietica fino al 1984?”, ma anche autore di varie commedie dell’assurdo: il loro senso è complesso, arduo e per così dire stratificato, in modo da consentire molteplici interpretazioni le quali sottentrano l’una nell’altra, in corrispondenza della maggiore o minore profondità dello strato. L’assenza di logica e il gusto del paradosso contraddistinguono per intero la fattura di questi lavori. L’autore crede che l’odierna realtà sovietica non possa essere descritta secondo i dettami del vecchio realismo: i rapporti tra gli esseri umani sono oggi assai più complessi e hanno subito un processo di disumanizzazione, ossia di alienazione; la vita quotidiana è piena di irrazionalità, di deformazioni e di assurdità, ragion per cui soltanto una nuova tecnica espositiva più complessa può essere pari al compito di una rappresentazione adeguata della vita sovietica di oggi.
Fra le opere clandestine diffuse dal samizdàt, ha goduto in patria di un successo straordinario il romanzo di V. Ieroféiev “Mosca-Petushkì” (Petushkì è una località a duecento chilometri da Mosca), che può essere considerato un esperimento originale di prosa surrealistica, ma il processo di inusitata deformazione della realtà e di sovvertimento delle proporzioni si svolgono su basi chiaramente realistiche: i fatti sono percepiti e rappresentati attraverso gli occhi di un ubriaco che li osserva e li espone in una sorte di semidelirio.
Particolarmente per la Russia d’oggi si può parlare in tal senso di procedimento realistico, se è vero che l’alcolismo in URSS è diventato un vero e proprio flagello della società e va ormai assumendo le dimensioni di una catastrofe nazionale: la cosiddetta “prosa alcolica” è sul punto di divenire un genere a sé nella letteratura russa clandestina; Ieroféiev è dotato di un irresistibile umorismo e il suo epos dell’alcolismo non si limita a registrare o a riflettere la triste realtà della vita sociale sovietica d’oggi, ma racchiude in sé tutta una filosofia, un sistema di metafore rigoroso e addirittura un’ironica apologia dell’alcolismo: “Oh, se tutto il mondo, se ogni essere vivente fosse mite e timoroso proprio come lo sono io adesso e nel contempo non si sentisse sicuro di nulla, né di se stesso né dell’importanza del suo posto sotto il cielo, oh, come sarebbe bello allora! Niente entusiasmi, niente imprese gloriose, niente ossessioni: la pusillanimità la farebbe da padrona: io acconsentirei volentieri a vivere su questa terra per l’eternità se solo mi si mostrasse un angoletto dove non sempre vi sia posto per le imprese altisonanti”. L’ubriachezza appare una via d’uscita dal forzato ottimismo ufficiale, dagli stucchevoli appelli a compiere quotidianamente imprese gloriose, ad addossarsi privazioni e sacrifici in nome del futuro luminoso del comunismo, e infine della miope certezza che mostrano di avere nella propria infallibilità e onniscienza i burocrati e gli ideologi del partito.
Dietro la comicità e l’ironia si nasconde dunque una verità ben triste di una serietà colma di significato. L’approccio di tutti i problemi dell’esistenza, e la loro interpretazione alla luce della “magia bianca” (cioè della vodka) sono qui non semplicemente procedimento formale, ma anche motivo di rifiuto, di fuga e di protesta e persino di critica.
Interessante a tale proposito la parodia della rivoluzione bolscevica che troviamo nel romanzo e che è condotta appunto in questa chiave. Nell’ex operaio Ierféiev c’è una profonda e sicura intuizione dello spirito e dell’attuale vita del semplice ceto operaio russo e c’è parimenti una conoscenza genuina dell’esistenza quotidiana, della psicologia e della lingua del popolino: il protagonista del libro è anche lui un operaio; si trova nel libro di Ieroféiev il vivo linguaggio parlato d’oggi e questo è assai più un sistema organico di espressione spontanea che una cornice di gusto esotico.
Seguendo l’esempio di Ieroféiev molti altri autori del samisdàt hanno individuato nelle innovazioni linguistiche o piuttosto in un certo realismo linguistico, se non addirittura in una sorta di naturalismo linguistico, la via più diretta per riflettere adeguatamente il colorito e l’originalità della vita e della psicologia sovietica dei nostri giorni.
Per esempio Valérii Leviàtov ricorre volentieri alla caratterizzazione mediante il discorso diretto; nei suoi racconti parla dell’attuale gioventù “perduta” sovietica: i suoi personaggi sono quasi sempre giovani privi di ideali e di radici la cui coscienza torbida e buia fa sì che al primo serio urto essi abbiano le loro esistenze immediatamente spezzate e naufraghino annegando miseramente.
Ma lo scrittore di maggior statura e più ricco di invenzione tra coloro che si adoperano ad attingere nuovo contenuto attraverso un linguaggio nuovo è senza dubbio Vladìmir Maramsìn.
La decadenza della letteratura ufficiale contemporanea è, secondo Maramsìn, frutto della corrotta mentalità dello scrittore e del lettore che avrebbero smarrito il gusto della parola, della frase, dello stile, sicché la letteratura si andrebbe vieppiù trasformando in tedioso descrittivismo: “L’arte di scrivere è divenuta una frode evidente: essa cerca di nascondere che è appunto scrittura: essa finge di essere azione e vuole balzare nella nostra testa in tutta naturalezza attraverso gli occhi e insediarvisi come un quadro tratto dalla memoria (…). Chi ora legge le singole lettere, chi scorge le parole, chi sa godere dell’ispirazione che le manovra? Tutti inghiottono le pagine, divorano i capoversi e li trasformano in immagini non appena sfiorano le estremità delle ciglia”. Maramsìn veramente gioisce delle parole e la ricerca di un’abilità espressiva nel linguaggio è una sua passione: giovandosi di termini scelti accuratamente egli plasma la sua prosa originale, che tende di continuo alla contemplazione filosofica e all’approfondimento psicologico. In Maramsìn troviamo anche il tema del sesso, tema proibito nella letteratura sovietica, poiché il sesso non rientra negli schemi razionali dell’uomo inteso come unità produttiva, come edificatore del comunismo. Le passioni irrazionali nel loro riferirsi ad una natura dell’uomo più sfuggente, più enigmatica e più complessa, introducono un elemento incontrollabile nella concezione che tende ad individuare nella società un mero insieme di rapporti di produzione dominato dalla lotta di classe: un uomo più complesso e meno prevedibile non può trovare posto perché si oppone a quella concezione e la distrugge. Gli eroi di Maramsìn proprio nella sensualità trovano scampo dal gelo della vita burocratizzata e centralizzata.
Ricerche formali di tutt’altro genere ci si rivelano nelle opere degli scrittori di indole mistica che popolano il sottosuolo letterario sovietico, i quali perseguono nei loro scritti il cosiddetto “realismo metafisico”. La ricerca filosofico-religiosa assume nella Russia odierna, a causa anche dei divieti, forme assai strane: a Mosca, Leningrado, Tbilìssi, Kìev e altre grandi città esiste un “sottosuolo mistico” consistente, che si abbevera volentieri alle fonti delle dottrine mistiche di Gùrdzhiev e di Uspénskii. Alcuni interamente concentrati in se stessi e nella propria esperienza spirituale, altri tendono invece alla conoscenza comune e generale, studiano i miti, i sistemi metafisici, i problemi del cosmo. Nell’ambito della letteratura ciò si manifesta soprattutto nel rifiuto del metodo realistico, in quanto metodo che scivola sulla superficie dei fenomeni anziché sviscerarli; Gògol, Fiòdor Sologùb, Dostoièvskii vengono riconosciuti come loro maestri dagli scrittori appartenenti a questo indirizzo, i più interessanti fra i quali paiono a me Iùrii Mamléiev e Arkàdii Ròvner. La creazione di Mamléiev si svolge su due piani: il primo consiste nella rappresentazione di certi aspetti della vita russa contemporanea, come l’esistenza patologica negli alloggi in coabitazione, le persistenti crisi depressive, la noia e la spietatezza di una vita squallida e vuota di senso; l’altro piano consiste nella rappresentazione di situazioni metafisiche, e allora certi personaggi non sembrano più creature umane, ma mostri; l’indagine del fenomeno uomo, aferma Mamléiev, conduce al dominio della trascendenza, verso il modello umano ultraterreno, verso il cosiddetto “uomo invisibile”.
Lontane reminiscenze dostoievschiane sono avvertibili nel giovane narratore Aleksàndr Moròsov: il suo romanzo “Lettere altrui” richiama alla memoria l’opera giovanile di Dostoiévskii “Povera gente”; anche qui si tratta di un romanzo epistolare, il cui eroe è egli pure un uomo mite, indifeso, battuto dal destino; ma l’orrore della vita sovietica certamente non consente il paragone con la povertà dei personaggi di Dostoiévskii: le condizioni da incubo dell’esistenza quotidiana, l’inferno della coabitazione, l’abbruttimento, la miseria, il peso di una vita opprimente che schiaccia il piccolo uomo, tutto ciò è descritto assai minuziosamente, come se l’autore osservasse l’esistenza al microscopio senza trascurare alcun dettaglio.
Moròsov crea una sorta di micronaturalismo o di supernaturalismo: il protagonista non riesce assolutamente a distogliersi dagli innumerevoli e meschini problemi materiali: la lotta contro la miseria e le mille difficoltà dell’esistenza inghiottono tutte le sue forze: egli non riesce a pensare a nulla se non alle interminabili code e file davanti ai negozi, alle scarpe rotte, a come procurarsi un cappotto, al permesso di soggiorno e così via.
La ragione principale della nascita del samizdàt è certo da vedere nell’impossibilità di riferire la verità nelle pubblicazioni ufficiali, nell’aspirazione a trattare di temi proibiti e di tutti i temi proibiti il più scottante è senza dubbio quello del terrore di massa, dei campi di concentramento. Per l’opinione corrente la riscoperta di questo tema è legata al nome di Aleksàndr Solzhenìtzyn, che l’ha saputo esprimere con maggior forza, ma ancor prima di Solzhenìtzyn e contemporaneamente a questo al medesimo tema hanno dedicato loro opere altri autori della letteratura clandestina. All’inizio degli anni sessanta incominciarono a circolare diffusamente nel samizdàt i “Racconti di Kolymà” di Varlàm Scialàmov, tre grossi volumi, vera e propria enciclopedia dei campi di concentramento; se nelle opere di Solzhenìtzyn l’attenzione viene concentrata soprattutto sulla vita interiore dei detenuti, se il tema dei lager è in esse principalmente trattato nei suoi aspetti morali e filosofici, nell’opera di Scialàmov, poeta e scrittore che ha trascorso vent’anni nei campi di concentramento, il lettore può invece trovare un resoconto esauriente degli aspetti quotidiani della vita nei lager, una narrazione circostanziata e dolente su come vivevano, soffrivano e morivano uomini condannati ad una condizione mostruosa e disumana.
A differenza di Solzhenìtzyn, Scialàmov perviene a conclusioni pessimistiche: soltanto uomini forniti di tempra eccezionale sono capaci di librarsi spiritualmente al di sopra delle sofferenze e di serbare intatta la propria dignità di creature umane in prove tanto terribili; le condizioni intollerabili della vita dei lager attossicano e corrompono l’anima dell’uomo e trasformano l’uomo, afferma Scialàmov, in un animale selvaggio: quando si tocca l’ultimo limite dell’orrore muore nell’uomo tutto ciò che è umano: “Il lager- scrive- ha costituito una grande prova per le forze morali dell’uomo e per la morale umana comune: il novantanove per cento degli uomini non ha saputo sostenere questa prova.L’esperienza del lager è completamente negativa, minuto per minuto”; accingendosi al dovere di testimoniare, Scialàmov annota con inquieta consapevolezza: “Quel che io ho visto, nessun uomo deve vederlo e neppure conoscerlo”.
La stesa cupa visione della vita dei lager si ritrova in un valido romanzo del samizdàt, “Il quinto sigillo”, che circolò nascostamente con lo pseudonimo di Tatarìntzev: il quadro dei lager è veramente apocalittico e da qui il titolo del romanzo. Protagonisti sono tre giovani studenti arrestati per aver condotto delle conversazioni troppo libere: quando varcano la soglia del carcere una folla di illusioni li accompagna e li sorregge una giovanile fede nell’uomo e nella giustezza del marxismo. I successivi anni di lager segnano la via di una graduale disillusione: osservando attentamente gli uomini che li circondano, ascoltando i racconti della gente più svariata, a cominciare da coloro che erano stati arrestati ancora negli anni venti, sotto Lenin, per finire con quelli giunti nei lager dopo la morte di Stalin, essi cominciano gradatamente a conoscere la vita reale del paese, sicchè in loro matura la convinzione che la radice di tutte le sventure sta nelle premesse fondamentali del marxismo, in quanto dottrina che aspira a rifare il mondo mediante il ricorso alla violenza e nutre sentimenti di irriconciliabilità verso qualsivoglia avversario; essi giungono alla conclusione che i campi di concentramento non sono altro che il logico coronamento di tutto il sistema sovietico: tutto il paese si presenta infine ai loro occhi come un immenso campo di concentramento.
Per concludere voglio spendere alcune parole sul magnifico romanzo di Vladìmir Voinòvic’ “La vita e le straordinarie avventure del soldato Ivàn Ciònkin”, opera eccezionale nella letteratura russa moderna: non è esagerazione affermare che dopo “Le anime morte” di Gògol’ non era più apparsa nella letteratura russa un’opera di tal genere.
Voinòvic ha descritto il popolo russo di oggi, e il popolo nel senso più immediato: coloro che vivono vicino alla terra e vivono della terra, i contadini russi.
Per capire quanto profonda e penetrante sia questa descrizione, basterà paragonare il romanzo di Voinòvic’ con la letteratura “villereccia” degli scrittori “veritieri” di “Nòvyi Mir”: in quest’ultima troviamo un umorismo leggero, misto a falso ottimismo, oppure un tetro naturalismo che non esce, s’intende, dai limiti del consentito e si concentra soprattutto sui particolari meno importanti del “quotidiano”. Qui invece, nel “Ciònkin”, l’uomo russo appare in tutta la sua dimensione, immerso nello spirito della vita popolare. Non è esatto definire questo romanzo una satira, come fanno alcuni critici: questa definizione è tanto inesatta quanto lo sarebbe se applicata alle “Anime morte”: la satira è mossa dalla malignità, trabocca per lo più di fervore polemico, non così il “Ciònkin”: non il riso malevolo e omicida, irridente e noncurante, bensì il gogoliano riso fra le lacrime: accanto all’allegria c’è in questa ilarità molto dolore, molto stupore e persino ammirazione e amore; la saggia tranquillità di questo libro, la sua bontà illuminata e la sua matura indulgenza sono incompatibili con l’odio. Di solito la comicità è provocata da una “deviazione della norma”, ma la comicità del “Ciònkin” è di genere ben diverso e per questo mi sembrano superficiali gli accostamenti fra il “Soldato Ciònkin” e il “Soldato Schweik” di Hasek: a mio avviso tutta la somiglianza si riduce all’assonanza fra i due titoli. Nel “Ciònkin” l’assurdo che genera il comico non si contrappone alla realtà come norma, bensì all’assurdo della realtà stessa, e proprio l’assurdo costituisce la norma. L’inverosimile, innaturale realtà sovietica fa del comportamento assurdo l’unica possibile norma di comportamento. Schweik è un furbo che si finge sciocco, uno che vuole rifugiarsi nell’assurdo per sfuggire alle regole del gioco, alla realtà normale. Ciònkin è un semplice, e nella sua semplicità non cerca nemmeno di fingersi furbo; alla realtà assurda egli risponde con un comportamento normale che risulta essere un’infrazione alle regole del gioco di quel mondo in cui l’assurdo è diventato norma. Schweik è un personaggio autonomo, che potrebbe facilmente essere estrapolato da quel sistema di personaggi in cui vive e quindi trasportato in un luogo affatto diverso; Schweik è il centro, è lui che crea la trama. Ciònkin invece è parte inscindibile di un sistema di personaggi unitario e indivisibile, di un solo campo di forze che si equivalgono per tensione e per direzione, senza un proprio centro; Ciònkin è pensabile soltanto in quel determinato contesto; è un fenomeno tipicamente russo, il cui antenato diretto è l’eroe delle favole popolari Ivànushka lo scemo: nell’arte popolare questo personaggio era l’espressione della fede del popolo nel fatto che la semplicità e la dirittura morale, in ultima analisi, hanno la meglio sul male, e la semplicità e la rettitudine di Ciònkin sono una forza che ha la meglio sull’assurdo sovietico: il sistema dittatoriale, l sistema contro natura, si dimostra ad un tratto impotente di fronte alla naturalezza ingenua e alla semplicità.
Non ho parlato dei massimi scrittori russi clandestini d’oggi, di Solzhenìtzyn, Siniàvskii, Maksìmov perché ben conosciuti in Occidente e, poiché usciti anche in traduzione italiana, le loro opere sono accessibili anche al lettore italiano.
Nel 1976 ho pubblicato in Italia la prima storia sistematica della letteratura russa clandestina: ho raccolto il maggior numero possibile di informazioni, ho letto tutte le opere del samizdàt che circolano oggi in Russia e debbo dire che non è stato facile perché questo genere di curiosità nel mio paese è punito assai severamente. Ovviamente ancora più hanno rischiato gli autori stessi; come è noto, Siniàvskii, Daniél, Amàl’rik, Bukòvskii, Narìtza, molti e molti altri hanno pagato i loro scritti con anni di campo di concentramento, e proprio al coraggio e all’impegno civile di quegli scrittori ho dedicato il mio libro.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 3.12.1976 su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura