Fabio Larovere: Il professor Brunetto Salvarani insegna teologia del dialogo e della missione alla facoltà teologica dell’Emilia Romagna. Parliamo oggi di come la riflessione teologica si relaziona alla situazione difficile che stiamo attraversando a causa della crisi causata dal coronavirus. Ne parliamo con te perché hai pubblicato recentemente un volume dal titolo Teologia per tempi incerti. Hai detto in un’intervista recente che il nostro è “il tempo dell’incertezza”. Cosa intendi con questa affermazione?
Brunetto Salvarani: Partirei da Papa Francesco che, già nel novembre del 2015, a Firenze, a Santa Maria del Fiore, in occasione del V convegno della Chiesa italiana sottolineava come siamo non tanto in un’epoca di cambiamenti, ma in un cambio d’epoca. Quest’epoca è cambiata e, sin da allora, mi interrogo su quali siano gli elementi di questo cambiamento. Non è cambiato soltanto qualche elemento di sfondo, di scenario, ma è cambiato il paradigma del cristianesimo, del pensare il cristianesimo. Questa situazione che stiamo vivendo si inserisce bene in una transizione, in un cambiamento profondo che, in estrema sintesi, si potrebbe definire la fase dell’esaurimento definitivo del regime di cristianità. È un regime che si può giudicare in modi diversi, che sicuramente nel corso dei secoli ha prodotto cultura, tradizione, modelli ecclesiologici, ma che oggi non funziona più. Ho l’impressione che quello che stiamo sperimentando in queste settimane di contagio collettivo semplicemente confermi il fatto che quella stagione è una stagione che si è esaurita, anche se, come si può notare da alcune reazioni ecclesiali nei confronti di quanto sta accadendo, viviamo anche una nostalgia di modelli. Ma sono modelli ormai inutilizzabili, modelli che non servono più in questo tempo segnato, appunto, da un’incertezza ancora maggiore rispetto a quando scrissi il libro due anni fa. Qualcuno si chiede dov’è Dio, come sempre accade in questi casi di calamità, di catastrofi.
Fabio Larovere: Ovviamente, è un tema che la teologia ha affrontato approfonditamente, però quale potrebbe essere una tua risposta a questa domanda?
Brunetto Salvarani: Questa domanda è emersa clamorosamente soprattutto in occasione della pubblicazione dei materiali relativi alla Shoah, quindi ad Auschwitz. È lì che molti si sono chiesti “dov’era Dio ad Auschwitz?”, “dov’era Dio in occasione della Shoah?”. Io ho sempre percepito, però, questa domanda come una domanda sbagliata, forse blasfema, una domanda che non fa i conti, invece, con l’interrogativo che sta dietro ad Auschwitz e, in condizioni molto diverse, ma con delle connessioni, anche a questa situazione di contagio globale: “dov’è l’uomo?”. È la domanda di Dio nei confronti di Adamo nei primi capitoli di Genesi: “Adamo dove sei?”. Adam, che è l’uomo terrestre, l’uomo per eccellenza. E la domanda ce la fa Dio. Credo sia questa la domanda che dovremmo porci: dove siamo noi, quale è la nostra capacità, se c’è, di mantenerci umani sia ad Auschwitz sia oggi, ben sapendo che si tratta di esperienze limite, di esperienze radicali, di esperienze che mettono a dura prova una fede tradizionale. Per esempio la fede nel Dio onnipotente: di fronte ad Auschwitz, o Dio non è onnipotente o è molto diverso da come ce lo siamo raccontato per tanti secoli. E per certi versi anche qui, con riflessi ecclesiali ancora maggiori.
Fabio Larovere: Cosa intendi con riflessi ecclesiali?
Brunetto Salvarani: Innanzitutto, il fatto che stiamo vivendo una situazione come mai era capitata nel corso della storia della Chiesa: l’impossibilità di vivere l’eucarestia come momento comunitario, collettivo, anche come momento, per certi versi, di conforto di fronte a una situazione drammatica. Non era mai successo e credo che la Conferenza Episcopale Italiana abbia fatto benissimo a seguire queste indicazioni. Però anche questo fatto ci porta a interrogarci sui nostri modelli di Chiesa; c’è chi dice che non essendoci più l’eucarestia non c’è più la Chiesa. Ma allora che cos’è la Chiesa? Certamente è strettamente collegata all’esperienza dell’eucarestia, un’esperienza fondamentale, ma non esaustiva della Chiesa. La Chiesa è la vita e il vissuto di tanti, laici e non, che sperimentano come la parola di Gesù, il messaggio evangelico, plasma le loro vite, dà un senso alle loro vite. Ci sono inoltre molti altri problemi: vedo come drammatico il non riuscire ad accompagnare dovutamente chi è scomparso. È un tema, tra l’altro, molto biblico: ad esempio, il libro di Tobia funziona bene per queste vicende sia nel suo racconto complessivo sia nei temi specifici, come quello di onorare i defunti. Quest’ultimo è un grande tema che si collega a una questione più complessiva che è la crisi o la scomparsa di quelli che nella teologia tradizionale si chiamavano i novissimi ed erano gli elementi di scenario tradizionale dell’escatologia cristiana. Oggi non sappiamo né dove siano né cosa siano, non sono più predicati, interessano a pochi e, forse, in questi giorni ci rendiamo conto di come sarebbe utile avere qualche indicazione in più. Ieri era il “Dantedì”: Dante è davvero importante nell’immaginario escatologico cristiano, ma è anche dannatamente problematico, perché ci propone modelli di inferno, purgatorio e paradiso che oggi non riescono più a essere eloquenti, a parlarci. Io credo che il Covid sia l’occasione per tirare fuori tutta una serie di questioni enormi, che non risolveremo evidentemente; se non altro, ha l’effetto di smascherare il trantran quotidiano e fa emergere le questioni, a mio parere, decisive per il futuro della Chiesa.
Fabio Larovere: Fra queste questioni, forse, c’è anche il tema del dialogo. Vedo che tu ti occupi di questo argomento anche nel tuo insegnamento alla facoltà teologica. Come si inserisce questo tema nel più ampio tema della crisi che stiamo affrontando?
Brunetto Salvarani: Ieri Papa Francesco ha chiesto a tutti i cristiani di tutte le diverse confessioni di pregare il Padre Nostro come preghiera che ci fa percepire quanto siamo figli dell’unico stesso Padre. È un’indicazione conciliare, molto presente nei testi conciliari, nella Nostra Aetate e non solo. Ho la sensazione che proprio questa esperienza di dolore collettivo e globale dovrebbe aiutarci a capire che, almeno come cristiani, non possiamo più permetterci il lusso della divisione. C’è una necessità dell’ecumenismo che appare sempre più clamorosa. Ma il tema può essere ulteriormente allargato ai mondi religiosi, che sono e devono sentirsi vicini. È nella fragilità, nella pochezza, nella nostra debolezza che possiamo constatare come le divisioni, i muri che abbiamo eretto nel corso dei secoli sia all’interno del mondo cristiano sia fra le varie religioni, siano poco sensati, poco significativi. Il che non vuole dire annacquare tutto in una realtà indistinta, perché le differenze ci sono, vanno mantenute ed è importante che ci siano. Però ci sono molti temi che, non solo in questo momento, dovrebbero renderci più uniti. Penso all’enciclica Laudato sii: la questione della fame nel mondo, la questione dell’ecologia integrale, la questione sociale, il divario fra poveri e ricchi. Sono moltissime situazioni globali che, se vissute e affrontate assieme, con le religioni compatte, pur nella loro differenza, avrebbero molte più possibilità di essere affrontate.
Fabio Larovere: Vorrei chiudere questa intervista chiedendoti un’immagine biblica che secondo te può essere adatta a questi tempi che stiamo vivendo. Hai già citato il libro di Tobia. Ti viene in mente un altro riferimento, visto che la Bibbia è ricchissima anche sotto questo profilo?
Brunetto Salvarani: Andrei da Giobbe. Giobbe è veramente l’amico dei momenti radicali, oltre ad essere il libro credo più felice sul piano letterario della Bibbia. Giobbe è, sicuramente, quel personaggio tutt’altro che paziente rispetto all’iconografia tradizionale, è colui che ha il coraggio di andare di fronte a Dio e porgli le domande. La domanda fondamentale è: perché? Perché succedono queste cose? E Dio, in realtà, non dà le risposte. Ecco perché oggi è importante. Oggi non credo che avremo delle risposte sulla sensatezza di questo virus. Ma come è riuscito a dire in maniera plastica Elie Wiesel (grande commentatore di Giobbe) nel suo romanzo La notte quando, di fronte ad un’impiccagione di tre ebrei nel campo di Auschwitz, un internato domanda “ma Dio dov’è?” e la risposta di un suo compagno che sta guardando è: “Dio è lì, Dio è quel ragazzino che è stato impiccato”. Anche io oggi vorrei affermare che grazie a Giobbe possiamo dire che Dio è in quella signora intubata, in quel signore che fatica a respirare, che è al limite e, magari, non ce la fa. Dio è lì. Non possiamo dire molto altro, però, in realtà, questo credo che sia molto. È molto per chi crede e, alla fine, qualcosa anche per chi non crede, perché di fronte a queste realtà ultime ci troviamo tutti scoperti e incapaci di avere una risposta definitiva, ma solo delle domande. Però, è importante fare le domande giuste.
Nota: testo non rivisto dall’Autore.