TESTIMONIANZA E RICERCA STORICA IN MARIO BENDISCIOLI[1]
Una lettera che Mario Bendiscioli mi inviò da Passirano, in data 18 ottobre 1991, si concludeva con queste parole: «Quando dovrai scrivere il mio necrologio ricordati, come hai felicemente scritto ne ‘L’Osservatore Romano’ del 17 aprile 1985, che ho sprovincializzato la cultura cattolica italiana nel primo dopoguerra». Bendiscioli ci ha lasciato il 7 luglio 1998, a novantacinque anni, ma la sua attività e i suoi interventi, puntuali e pungenti, coprono esattamente un arco di tempo di ben settant’anni: il suo primo articolo, in cui dava voce al dramma delle minoranze etniche negli Stati che si erano formati dopo il crollo dell’impero asburgico, apparve infatti su ‘Il Cittadino’ di Brescia il 10 settembre 1924[2] e l’ultimo suo scritto è un vivacissimo libro-intervista, pubblicato dalla Morcelliana nel giugno 1994[3]. Anche chi abbia letto soltanto l’uno o l’altro scritto di Bendiscioli – sono quasi quattrocento i suoi contributi – sa che non è facile legare un uomo come lui ad un unico filone storiografico; ancora più arduo è abbozzare il profilo della sua personalità, della sua imago vitae secondo la bella espressione di Tacito che gli era cara. Egli fu uomo dalle molte vite[4] perché unì ai molteplici, vasti interessi della ricerca storica e ad una presenza animatrice in imprese culturali di grande respiro (si pensi al ruolo svolto alla Morcelliana e alla rivista «Humanitas») uno straordinario impegno nella scuola, nella professione d’insegnante. Non posso a questo proposito rinunciare alla testimonianza – «quasi un testamento», com’egli ebbe a dire – resa dallo stesso Bendiscioli sulla sua passione educativa, nell’atto di congedarsi dagli studenti dell’università di Pavia.
Professore e maestro di ricerca storica
Nell’addio ai suoi giovani Bendiscioli dette voce, come forse mai aveva fatto prima, al nascosto lirismo della sua anima al punto che la solennità del momento cede il passo alla confidenza e questa, a sua volta, si fa professione di fede e consiglio. Ecco le parole conclusive della sua ultima lezione accademica. «Con questa lezione, ultima dell’anno accademico 1972-73, prendo anche congedo dalla scuola e dall’insegnamento pubblico che è stato la professione della mia vita. Da un insegnamento che ha voluto essere – e penso sia stato – una comunicazione di conoscenze e di esperienze, ma anche apertura a stimoli in reciproco arricchimento e questo dentro la scuola, con allievi di età ed esperienza diversa, ma anche fuori della scuola, come traduttore, promotore di edizioni, collaboratore e direttore di riviste. E sempre con l’animo aperto ai grandi problemi della vita sociale, a cui pure la scuola ha da avviare; perciò curioso del mondo in molteplici soggiorni fuori d’Italia per conoscere direttamente lingue e popoli, culture e costumi.
Attivo in organizzazioni e posizioni anche politiche, ho cercato di cogliere il buono e il meno valido di strutture ed uomini per comprendere e far comprendere, in ciò proponendomi di evitare le generalizzazioni sbrigative di giudizio, di reprimere la facile e sterile indignazione, di ricercare e promuovere tra persone, ceti, popoli, quello che unisce, al di là di quello che immediatamente divide negli interessi e nei sentimenti e, spesso, immediatamente offende. Tale spirito di comprensione nei riguardi di uomini, avvenimenti, istituzioni fu mio costante intento portare nella scuola e proprio nell’insegnamento intorno al passato, al fine di far emergere le sue eredità nel presente, che non sono soltanto quelle negative od oppressive. Oggi la cultura – ed in essa i valori della coscienza, che lo studio della storia ci rivela variamente affermati, negati, profanati – sembra in crisi e con essa l’abito del raccoglimento e della meditazione personale che precipuamente permette di cogliere i valori permanenti. Sembra predominare nei giovani, e non solo in essi, la febbre dell’azione e dell’affermazione immediata: e questo con un senso esasperato dei problemi politici posti da strutture inadeguate, apprezzamenti accomodanti, sentimenti elusivi; ne conseguono solidarietà che possono apparire generose e dolorose, ma che accompagnate dalla tendenza all’indignazione declamatoria, che investe tutto e tutti, rimangono in ultima istanza sterili di fronte ai concreti problemi dell’oggi e del domani nella prospettiva individuale e sociale.
Appunto per questo ai giovani che in quest’aula mi hanno seguito e, presumo, stimato, ed ai tanti altri che vedo idealmente qui assieme a vloi, dal lontano 1926 nei licei di Pavia, Merano, Milano, e nelle università di Milano e Salerno, come uomo dalle molte sofferte esperienze, come studioso dalle lunghe vigilie, e, se permettete, come maestro, vorrei confidare in quest’ora di congedo, quasi come un testamento, una delle convinzioni che mi hanno sostenuto in una vita non certo tranquilla: e cioè che la più efficace partecipazione alla politica come impegno sociale consiste nel compiere il piccolo dovere quotidiano, quello che volta a volta emerge dalle circostanze; piccolo dovere quotidiano che è inerente alla professione o al mestiere, vissuti come servizio sociale: quell’attività che per la coscienza religiosa si trasfigura in vocazione e servizio di carità per il prossimo»[5].
Ai miei occhi queste parole di Bendiscioli costituiscono un testo mirabile sul mestiere d’insegnare e un documento di profonda umanità. Esse sono lì ad attestare come in lui fossero assolutamente inseparabili il lavoro scientifico della ricerca e la responsabilità educativa dell’insegnamento, che si alimentano e purificano a vicenda. Lo storico bresciano avrebbe potuto far proprio quello che Seneca diceva di se stesso: «Se mi fosse concessa la conoscenza più alta a patto di tenerla chiusa in me stesso e di non renderne partecipi gli altri, io la rifiuterei» (Ad Luc. 6, 4). In effetti Bendiscioli era un autentico maestro della ricerca storica e non aveva nessuna delle qualità da general manager dell’industria culturale odierna, o del barone universitario. Era un uomo serio, che detestava la vacuità delle etichette generalizzanti, la propaganda così come i silenzi e le omissioni di comodo. Era uno storico di razza che amava i fatti, li ricercava con ardore inesausto e ragionava sui fatti, il cui controllo critico costituisce anche una valutazione ed una interpretazione sulla base del confronto.
Per lo storico bresciano il valore di una ricostruzione storica sta in primo luogo e precipuamente nella quantità e qualità delle fonti criticamente valorizzate, nell’aderenza alle testimonianze, nella fedeltà nel rendere lo spirito di un’epoca, una mentalità. Egli ci ha insegnato che in molti casi quello che è proclamato come certezza apodittica è invece un problema tutt’altro che risolto, perché si constatano divergenti le fonti o discussa la loro attendibilità. La cautela può infastidire chi vuol correre subito alle conclusioni, o imporre determinate conclusioni, ma è un obbligo a cui ogni spirito onesto non deve sottrarsi. Proprio perché nelle scuole secondarie italiane, e perfino all’università, l’insegnamento della storia è diventato il «cavallo di Troia» delle passioni più aberranti, il rigore scientifico, divenuto oggi sempre più necessario, appare strettamente congiunto all’autenticità della persona, all’impegno morale dello storiografo e del professore. Ritengo che Bendiscioli avesse anche più di una ragione per deprecare l’abbinamento nel nostro sistema scolastico, dell’insegnamento della storia a quello della filosofia, perché i docenti hanno una formazione quasi esclusivamente filosofica e ciò li induce – fatte naturalmente le debite eccezioni – ad uno scarsissimo uso dei documenti. «Certo, lo storico non può rinnegare la tendenza filosofica, valutativa, che c’è in lui; anch’egli quindi farà sentire nella presentazione del passato le proprie convinzioni religiose, filosofiche, politiche ed estetiche; ma lo farà con consapevolezza e con la loro leale segnalazione, riferendo anche le differenti impostazioni e valutazioni di altri storici»[6]. Meglio piuttosto peccare per eccesso di cautela e di riserva critica verso la propria parte, che cedere a tentazioni apologetiche, a quella sorta di miseria intellettuale e morale che è il giustificazionismo storicistico, o alla presunzione di essere stati sempre ciò che si doveva essere.
La bestia nera di Bendiscioli era il riduttivismo, che tutto contrae nel letto di Procuste della ‘storia di parte’ e della ‘ideologia’. Contro di esso egli ha sempre protestato con la sua stessa opera di storico, mostrando come si possano indagare gli avvenimenti di qualsiasi epoca, anche quelli recenti, in spirito e verità. La causa unica negli avvenimenti storici non esiste: un dato avvenimento o il comportamento di singoli o di gruppi, di popoli, di Stati non si spiega con un solo motivo e il monismo metodologico è una menzogna. In una certa fase vi può essere certamente la predominanza di un motivo sugli altri, ma le decisioni e le azioni non sono mai determinate da un unico movente e quella che si poteva essere indotti a indicare come l’unica causa, è solo una delle cause. Le vicende umane non possono ricondursi ad un solo fattore, economico, o religioso, o culturale: i diversi fattori sono molteplici, irriducibili, interagenti e la prevalenza di uno di essi sugli altri, anche quando sia accertata, è sempre limitata e temporanea.
«Ha sprovincializzato la cultura italiana»
A queste annotazioni fa da incipit quel passo della lettera in cui l’illustre storico si riconosceva nel merito che gli avevo attribuito nel citato articolo de «L’Osservatore Romano», che recava appunto il titolo: Ha sprovincializzato la cultura italiana. Occorre, però, ricordare che cosa rese possibile e con chi fu portata a compimento un’operazione così ardita e urgente. Ed è qui che l’iniziativa del giovane storico bresciano si intreccia con la storia della Morcelliana, almeno nel suo primo ventennio di vita[7]. In Italia col 3 gennaio 1925, sei mesi dopo il delitto Matteotti, il fascismo poneva fine alle promesse di ‘normalizzazione’, inaugurando un vero e proprio regime dittatoriale, il secondo in Europa dopo quello comunista. Ebbene, in quello stesso anno, a Brescia, pochi spiriti lungimiranti e coraggiosi – l’avvocato Fausto Minelli, i padri filippini Carlo Manziana, allora giovanissimo, e i più anziani Giuseppe Cottinelli e Giulio Bevilacqua, l’avvocato Alessandro Capretti, il professor Mario Bendiscioli, il sacerdote Giovanni Battista Montini e pochi altri amici – decidevano di dar voce a un cattolicesimo moderno, culturalmente serio, in dialogo con le altre famiglie spirituali e le altre Chiese cristiane[8].
Una cosa colpisce subito nei ‘fondatori’: essi furono mossi sinceramente dall’ansia di spalancare le finestre per far entrare nella cultura italiana aria fresca e pulita, di smuovere i cattolici da quell’atmosfera stagnante che li avvolgeva fin dalla repressione del modernismo, e da quel conformismo che rendeva difficile la vita a coloro che potremmo chiamare gli ‘innovatori ortodossi’. Senza sminuire l’apporto di molti altri, mi pare che si possa dire che nel primo ventennio le figure che più hanno contribuito a sprovincializzare la cultura italiana, e in essa la cultura cattolica, siano state lo storico Mario Bendiscioli e il prete «romano» Giuseppe De Luca. Questi – storico della pietà, uomo di straordinaria cultura e fine letterato – svolse per l’editrice bresciana un lavoro prezioso di revisione e di consiglio. «Dato che la Morcelliana vuole specializzarsi in libri di pensiero, sarebbe utile che tenesse la parola», scriveva nel giugno 1926 a Fausto Minelli. E nel ’34 confidava a Giovanni Papini il suo desiderio di fare della Morcelliana «quella casa insieme cattolica e intelligente […], cristiana e non dei preti», che diventi «la via ad avere, per Dio, un laicato cristiano in piedi»[9].
Per parte sua, Bendiscioli ben presto diventato consulente editoriale dell’editrice, lavorava ad individuare quanto di meglio si andava elaborando nel cattolicesimo europeo e introducendolo in casa nostra. In questa sua vocazione egli fu sollecitato fortemente dalla partecipazione agli incontri internazionali organizzati dalla Federazione Universitaria Cattolica Italiana e da Pax Romana, dalla collaborazione alle riviste montiniane «Studium» e «Azione fucina», nonché dagli stimoli che gli venivano dall’ambiente bresciano e da una cerchia sempre più larga di nuovi amici come Igino Righetti, Guido Gonella, Sergio Paronetto, Giovanni Rossi, Adriano Bernareggi e altri. Fu una fortuna per lui anche l’essere stato nominato nel ’26 insegnante di ruolo nel liceo di Merano, una cittadina di lingua tedesca che per la sua stessa posizione favoriva le frequenti e ben finalizzate ‘incursioni’ a Salisburgo, a Vienna, a Berlino, e soprattutto a Monaco. Bendiscioli dette allora una precisa direzione alla sua inesausta fame di conoscenza e di confronto tra esperienze diverse, scegliendo il mondo tedesco che in quella stagione, assai felice dal punto di vista culturale e religioso, aveva molto da dargli. A Monaco egli frequenta la redazione della rivista «Stimmen der Zeit» e stringe amicizia con Peter Lippert, di cui nel ’31 traduce la Visione cattolica del mondo; conosce lo storico della filosofia medioevale Martin Grabmann, del quale nel ’30 traduce La mistica cattolica; e lì incontra, e a poco a poco ne diventa amico, Romano Guardini, insigne filosofo della religione, che in quegli anni era anche ascoltato ispiratore del movimento giovanile ‘Quickborn’ (Fonteviva) e del movimento liturgico. L’importanza della liturgia nella vita del cristiano, già sperimentata a Brescia nell’Oratorio filippino della Pace, fu approfondita dai soggiorni, a più riprese, di Bendiscioli nel monastero benedettino di Maria Laach, dove si guadagnò la stima e l’affetto di Kunibert Mohlberg e Odo Casel, rispettivamente storico e teologo della liturgia. Né meno decisiva fu l’amicizia che si stabilì tra Bendiscioli e Karl Adam, professore di teologia dogmatica a Tubinga. Di Adam furono tradotte tre opere di forte impegno: L’essenza del cattolicesimo nel ’29, Cristo nostro fratello nel ’31 e Gesù il Cristo nel ’35. Ma la prima di esse in particolare aveva suscitato non poche perplessità negli ambienti del Sant’Ufficio; accadde, però, che proprio per quel testo che si voleva censurare, la revisione fu affidata per la prima volta all’episcopato tedesco e non riservata alla curia romana[10].
In sintesi: che cosa, dunque, Bendiscioli portò in Italia, nella cultura e nella spiritualità dei laici così come nel dibattito teologico, nel primo e nel secondo decennio del secolo, di una riflessione così vasta e approfondita – come quella del cattolicesimo tedesco – nella illustrazione del messaggio di Cristo e nello studio della realtà religiosa, colta nella sua storia e in alcuni suoi aspetti essenziali? Bendiscioli a questa domanda che gli rivolgevo nel ’75, in occasione di un volumetto per il cinquantesimo della Morcelliana, rispondeva rinviandomi all’esame attento di un catalogo ragionato dell’editrice bresciana, quello del ’37. A tale significativa indicazione io aggiungerei semplicemente l’invito a rileggere i titoli degli scritti di Bendiscioli pubblicati tra il ’25 e il ‘44[11]. Ma quel che più conta è lo spirito con cui il professore bresciano perseguì un disegno che andava ben oltre la sua persona. In effetti Bendiscioli intuì che era giunta anche per il nostro Paese l’ora in cui bisognava andare oltre l’apologetica controversista intessuta di contrapposizioni polemiche, ma anche oltre una forma di confronto che, pur non demonizzando l’avversario, insisteva solo nella presentazione accurata della diversità. Questo secondo tipo di apologetica era la linea della rivista «Fides», diretta da due eminenti figure del cattolicesimo italiano, il laico Igino Giordani e il filippino Giulio Bevilacqua. Bendiscioli vide che lo sforzo di un’implacabile oggettività nella ricostruzione storica di ciò che aveva portato alla fine dell’unità religiosa dei cristiani poteva giocare un ruolo di prim’ordine nel favorire la valorizzazione delle correnti spirituali protestanti e cattoliche, delle autentiche forme di pietà dell’una e dell’altra confessione e degli apporti positivi dello stesso Lutero, ad esempio il Lutero del Commento ai Salmi. D’altra parte, sia dalla Germania, in cui le due Chiese non solo si fronteggiavano ma intrecciavano le loro vite in mille modi, sia dagli ambienti del cattolicesimo italiano più dotato di senso storico, venivano indicazioni e stimoli a non credere eterno il muro di divisione e a riscoprire i reciproci tesori di verità e di santità, ciò per cui una confessione può giovare all’altra ac crescendone la fedeltà a Cristo. Non è, quindi, fuori luogo osservare che questo orientamento, che è spirituale ma in Bendiscioli era anche storiografico, si pone tra i fattori che hanno preparato il clima in cui sarebbe poi maturata la svolta ecumenica nel concilio Vaticano II[12].
Di fronte al fascismo e al neopaganesimo razzista (1922 – 1943)
In ogni fase della sua vita e della produzione storiografica Bendiscioli non trascurò mai di interessarsi direttamente all’una o all’altra questione della storia che si andava svolgendo sotto i suoi occhi e che, per ciò stesso, obbligava drammaticamente la sua stessa coscienza a prendere posizione. In Italia dopo il ’22 il fascismo si aprì la via al potere, in Germania Hitler divenne cancelliere nel gennaio del ’33. In due nazioni incapaci di superare il trauma del dopoguerra prendevano così il sopravvento due totalitarismi, che traevano motivo di giustificazione dalla conclamata volontà di opporsi a un altro totalitarismo, quello che nel ’17 si era insediato con Lenin in Russia; ma le somiglianze strutturali fra i due regimi di oppressione prevalevano nettamente sulla diversità dei rispettivi miti ideologici. Bendiscioli, per la sua forte personalità e per la rete di quelle amicizie spirituali e culturali che più influirono nella sua formazione, fu tra quei cattolici che diffidarono del fascismo. Egli era troppo vicino agli oppositori più qualificati in campo cattolico dello ‘Stato etico’ fascista per potersi rallegrare del Concordato tra Stato italiano e Santa Sede siglato l’11 febbraio 1929. La sera stessa in cui Mussolini e il cardinal Gasparri avevano firmato l’accordo, si tenne una riunione a Roma, nell’appartamento in cui abitava Montini in via delle Terme Deciane, sull’Aventino. A quella riunione erano presenti autorevoli amici desiderosi di ritrovarsi insieme e di scambiare i loro pareri sulla stipulazione dei Patti Lateranensi. C’erano, tra gli altri, il direttore de «L’Osservatore Romano» Giuseppe Dalla Torre, Giovanni Battista Montini, Alcide De Gasperi, padre Bevilacqua; e se quasi tutti si trovarono d’accordo nel rilevare la dimensione storica dell’avvenimento, la consapevolezza dei pericoli era assai viva[13]: si doveva temere, infatti, una politica di compromissione tra Chiesa e fascismo, il disorientamento degli spiriti e il cedimento sul piano delle idee.
Nella Chiesa italiana e nella stampa cattolica troppe voci si levarono allora a esaltare il carattere confessionale di ‘Stato cattolico’ che i Patti Lateranensi avrebbero impresso al nostro Paese e generale fu l’esultanza. A ridosso dell’11 febbraio, in vista delle elezioni del 24 marzo di quello stesso anno, per il rinnovo della Camera dei deputati composta ormai solo di fascisti, l’Azione Cattolica per bocca del suo presidente e padre Enrico Rosa, direttore de «La Civiltà Cattolica» e intimo di Pio XI, abbandonando l’apoliticità di un tempo, scesero apertamente in campo e in modo piuttosto massiccio perché si votasse a favore del governo che aveva sottoscritto il Concordato. Fu allora insistentemente ripetuto che il voto dei cattolici al plebiscito fascista non significava accettazione a priori di tutti gli atti del regime, ma voleva avere il valore di un atto religioso in quanto riconoscimento positivo dell’avvenuta conciliazione tra Stato e Chiesa. Non trascorse, però, molto tempo e si constatò quanto poco gli interessi propriamente religiosi della Chiesa fossero favoriti da quel patto e con quale spirito Mussolini l’avesse voluto e intendesse applicarlo[14]. Nel giugno del ’29 Montini, in una lettera a Bendiscioli, in cui esprimeva giudizi sui libri che aveva esaminato per la Morcelliana, nella parte finale confidava all’amico la profonda amarezza del suo animo, con evidentissimo riferimento all’insultante discorso sul Concordato, da poco sottoscritto, tenuto da Mussolini alla Camera: «Ho sofferto (ma non in salute) per queste ultime vicende indici della miseria spirituale in cui versa il nostro Paese; ma ho avuto il conforto di essere confermato nell’idea che la nostra politica ha da essere quella della fede, della verità e della giustizia, più su e prima che contro l’interesse del momento»[15].
Profondo conoscitore del mondo tedesco, Bendiscioli aveva individuato nel nazismo, prima ancora che prendesse il potere in Germania, la minaccia più radicale all’essenza stessa della fede cristiana e all’etica che ne consegue. Già nel ’33, nel suo saggio incluso nel volume a più voci Romanesimo e germanesimo, tradotto dal tedesco, Bendiscioli ricordava che la civiltà non è una razza, ma una cultura, e attaccava senza mezzi termini l’antirömische Affekt, il violento complesso antiromano proprio del pangermanesimo militarista e del razzismo idolatra della bionda bestia, sottolineando come il rifiuto delle radici storiche della nostra comune civiltà europea univa inseparabilmente in uno stesso rifiuto Atena, Roma e Gerusalemme. Il nazismo portò all’esasperazione parossistica e alla loro confluenza il nazionalismo imperialistico, l’antisemitismo e il razzismo biologico. Per Hitler, cancelliere dello Stato tedesco dal 30 gennaio ’33, succedendo a Hindenburg, e presidente e cancelliere del Reich dal 2 agosto ’34 alla morte di Hindenburg, l’antigiudaismo era un atto di lealtà verso lo Stato che professava un’ideologia razzista. Contro tale assurdità si levò subito, nelle prediche d’avvento del ’33 la voce del cardinale Faulhaber, l’arcivescovo di Monaco che difese a viso aperto il vincolo che lega Roma cristiana alla Sinagoga ebraica. Faulhaber faceva sue le parole che qualche decennio prima aveva rivolto agli israeliti il cardinal Manning: «Io non capirei la mia religione, se non avessi venerazione per la vostra». Il cardinale di Monaco ricordava coraggiosamente ai suoi connazionali proprio quelle verità di cui il nazionalsocialismo era la negazione più radicale. «Il dogma della razza fu abolito dal dogma della fede e noi non siamo stati redenti dal sangue tedesco, ma dal sangue di Cristo». E ancora: «Il mondo germanico è entrato a far parte del mondo civile grazie al cristianesimo, sì che un’apostasia dal cristianesimo significherebbe ricadere nel paganesimo. Per il popolo tedesco sarebbe il principio della fine». La Morcelliana fece conoscere immediatamente quelle prediche nella traduzione di Giuseppe Ricciotti. Era quella dell’editrice bresciana una scelta religiosamente limpida; tuttavia va ricordato che in quel momento non era politicamente rischiosa perché, fin quasi alla vigilia del patto d’acciaio, il fascismo non ostacolò la circolazione di scritti e giudizi di dura condanna nei confronti del nazismo antisemita e anticristiano. Ed è noto che il punto di contrapposizione più critico fra nazismo e fascismo fu toccato con l’assassinio del cancelliere austriaco Dollfuss, nel luglio del ’34. Il dramma dell’Austria commosse l’opinione pubblica europea e, in particolare, quella italiana. Da quello stato d’animo nacquero due volumetti di Bendiscioli che apparvero nel ’35: La vita interiore di Ignazio Seipel, il capo del partito cristiano-sociale austriaco spentosi nel ’32, e L’eredità politica di Dollfuss, scritto in collaborazione con A. Tauscher.
Nel ’36 l’analisi storica della spaventosa realtà del nazismo registrò un vero e proprio salto di qualità e fu grazie a Germania religiosa nel terzo Reich di Bendiscioli. La vicenda era studiata nel momento stesso in cui andava svolgendosi, grazie alla chiarezza di idee dello storico e alla sua capacità di procurarsi documenti riservati, di prima mano, provvedendo poi a spedirli in Italia a mezzo della cosiddetta ‘valigia diplomatica’[16]. L’edizione italiana del ’36 non incontrò difficoltà, ma queste cominciarono nel ’39 quando ne uscì a Londra una traduzione inglese con un’apposita integrazione. Frattanto, nel marzo del ’37, con l’enciclica Mit brennender Sorge Pio XI aveva reso pubblica la condanna del razzismo nazista; condanna che precedette di pochi giorni quella del comunismo ateo contenuta nella Divini Redemptoris. Bendiscioli scrisse allora un volumetto che ebbe larghissima diffusione e che reca un titolo emblematico: Neopaganesimo razzista. Si trattava, visto il progressivo cedimento di Mussolini a Hitler, di preparare la coscienza cattolica a opporsi consapevolmente all’introduzione delle leggi antisemite nella legislazione italiana. Quando questo accadde, nel novembre del ’38, finì la fase dell’idillio tra la Chiesa italiana e il fascismo, che aveva avuto inizio nel ’31, una volta superate le turbolenze del biennio successivo alla Conciliazione, caratterizzato da tensioni, pestaggi e ordini di chiusura dei circoli di Azione cattolica[17]. Cadde allora l’illusione di ‘cattolicizzare il fascismo’ e, anzi, cominciò il distanziamento nei suoi confronti, prima, e poi un processo di vero e proprio rigetto in nome di valori su cui non si può mai transigere se non si vogliono rinnegare le ragioni stesse dell’essere cristiani.
Fu quello il preannuncio, anzi il primo inizio, della resistenza come rivolta morale e religiosa al disumanesimo nazifascista. Quella rivolta morale e religiosa non è certamente tutta la resistenza – che fu anche lotta politica ed evento militare, guerra all’occupante e guerra civile contro i collaborazionisti della Repubblica di Salò – ma ne costituì l’anima, l’aspetto più alto e ricco di futuro, un insieme di principi e aspirazioni a cui si sarebbe ispirata la Costituzione repubblicana.
I venti mesi di passione e il primo dopoguerra (1943-1948)
In quei drammatici venti mesi, dal settembre ’43 all’aprile ’45, Bendiscioli non si nascose, non si rifugiò nei suoi studi. Attivo e insieme prudente fino alla riservatezza più scostante, egli tenne aperto il contatto tra i diversi gruppi della resistenza cattolica e quelli della sinistra, socialista e comunista, operando in costante collegamento con la resistenza bresciana e milanese; più di una volta la sua casa, in via Brianza a Milano, ospitò incontri con Paolo Emilio Taviani, Giuseppe Dossetti, Guido Gonella ed altri autorevoli uomini impegnati nel movimento partigiano. Arrestato due volte, nell’inverno e nell’autunno del ’44, riuscì a farla franca con molta fortuna, e probabilmente anche per i buoni uffici di un suo estimatore, l’ex crociano Edmondo Cione, passato alla corte di Mussolini a Salò[18].
L’attività svolta da Bendiscioli nell’immediato dopoguerra fu vasta e multiforme[19]. A Brescia tornarono a intensificarsi i contatti con la Morcelliana e nel gennaio del ’46 Bendiscioli – insieme a Michele Federico Sciacca, a Mario Marcazzan e a padre Giulio Bevilacqua – prese parte alla fondazione della rivista «Humanitas». Alla rivista. Di cui fu condirettore dal ’46 al ’51, egli arrecò un contributo essenziale nell’orientamento politico, che fu sempre schiettamente democratico, e nella coraggiosa rivisitazione critica del tragico passato con rassegne, articoli e recensioni. Mi permetto qui richiamare tre suoi contributi del primo dopoguerra. Nel ’47 Bendiscioli introdusse in Italia, scrivendone la prefazione, il volume miscellaneo Il comunismo e i cristiani con scritti di Mauriac, Ducatillon, De Rougemont, Daniel-Rops e Berdjaev. In un Paese che muoveva allora i primi passi nell’esercizio difficile della democrazia quel libro fu per molti una rivelazione: ci aiutava, infatti, a capire fino in fondo le ragioni dell’avversario senza farci chiudere gli occhi sull’insostenibilità della loro ideologia e sull’orrore del sistema comunista. Nello stesso anno Bendiscioli presentò La via tedesca (Der deutsche Weg) di Friedrich Muckermann[20], cioè la testimonianza diretta, estremamente sobria, di un filosofo che, avendo intuito subito il pericolo mortale che rappresentava il nazismo per il popolo tedesco, fu costretto a farsi uomo d’azione, conferenziere e giornalista, ingaggiando per quindici anni, dal ’30 al ’45, prima in Germania e poi all’estero, un’impari lotta contro un avversario capace di ogni crimine. Muckermann, che era gesuita, rischiò sempre di persona, ma fu sempre in collegamento con l’ordine religiosa a cui apparteneva e, per suo tramite, con i papi Pio XI e Pio XII che furono informati delle sue attività. Il piccolo volume, in cui Muckermann ha tracciato lo spirito e le tappe della lunga battaglia, è un’opera affascinante non solo per la narrazione delle vicende di un «nido di resistenza» che mai riconobbe la legittimità del regime hitleriano, ma anche per la lucida oggettività del giudizio storico, come si avrà modo di vedere più avanti.
A noi, allora giovani lettori, fece impressione anche un articolo in cui Bendiscioli commentava i risultati del 18 aprile su «Humanitas» (1948, pp. 572-580). L’articolo aveva un titolo che dava subito l’idea della direzione verso cui si muoveva il suo autore: Dopo il 18 aprile. Per un anticomunismo costruttivo. Secondo Bendiscioli una parte cospicua degli elettori, grazie anche alla Chiesa, aveva capito che nella consultazione elettorale del 18 aprile ’48 – la prima della nostra storia a suffragio universale – non si trattava di scegliere tra un partito o l’altro, ma tra due concezioni politiche che investivano i valori fondamentali della vita sociale. Aveva vinto l’anticomunismo, ma sotto quell’insegna si potevano nascondere molte politiche differenti: anche senza pensare al fascismo, basti non chiudere gli occhi dinanzi ai privilegi e alle pretese del conservatorismo economico. Occorre, invece, far avanzare con opportune e tempestive riforme la giustizia sociale per costruire una società autenticamente democratica. Ma è urgente anche lavorare con tutte le forze al risveglio delle coscienze, a destare la passione del bene comune e il senso dello Stato, il gusto di essere onesti e di ritrovare quella legalità abbandonata nel turbine della guerra e del dopoguerra.
Un’opera di rivisitazione critica: Antifascismo e resistenza
Molteplici sono gli apporti di Bendiscioli alla storia del cristianesimo e alla storia moderna, tuttavia i frutti più saporosi della sua storiografia politica e religiosa di Bendiscioli sono gli scritti che riguardano il dramma di coscienza del suo secolo, il ‘900, perché in essi la partecipazione diretta, appassionata ma non passionale, del cittadino e del cristiano si intreccia di continuo alla testarda acribìa dello storico, che non cessa mai di cercare i documenti che vengono alla luce e di misurarsi con ogni interpretazione che di essi venga data: Antifascismo e resistenza[21] e la seconda edizione di Germania religiosa nel Terzo Reich.
Antifascismo e resistenza ricorda come coloro che il fascismo perseguitò e disperse, costringendoli all’esilio o ad essere prigionieri in patria, diventarono suscitatori e guide della lotta resistenziale in tutte le sue componenti; ma quelle pagine ci danno anche la migliore presentazione critica dei venti mesi, terribili e mirabili, da cui ebbe inizio una nuova storia, quella dell’Italia democratica e repubblicana. In esse, infatti, si collocano finalmente nella giusta prospettiva fatti, idee, azioni e responsabilità di gruppi e di singoli su cui, soprattutto nella pubblicistica (e non è forse vero che la nostra cultura è diventata sempre più una ‘cultura da edicola’?), si continuano a leggere informazioni infondate, o perlomeno inesatte, e giudizi devianti. L’operazione condotta per in generare sospetto e disamore nei confronti della resistenza è stata massiccia e orchestrata da più parti; ma nel formarsi di un clima del genere più delle campagne denigratorie degli avversari hanno contribuito, e in maniera pesante secondo Bendiscioli, la retorica celebrativa, il settarismo di certe ricostruzioni, gli accaparramenti monopolistici dell’una o dell’altra forza politica. La riconsiderazione storico-critica dei documenti delle parti in conflitto – non solo resistenti e neofascisti, alleati e tedeschi, ma anche all’interno del movimento partigiano – «ha rivelato, assieme alle luci, anche talune ombre della Resistenza: preminenza degli interessi ideologici e di predominio politico in taluni gruppi e momenti della resistenza; vendette personali mascherate da zelo patriottico; errori di persona ed esecuzioni sommarie sulla base di semplici sospetti; elevazioni a cariche di persone moralmente poco degne o senza la necessaria preparazione». È sempre un errore, in ogni storia, tacere la partie honteuse e la resistenza ha comunque tutto da guadagnare da una precisa ricognizione degli episodi negativi che l’hanno attraversata. «Questi aspetti deteriori – scriveva Bendiscioli – erano fatale retaggio di un movimento a larga base, obbligato all’azione clandestina spesso senza possibilità di controlli, con collegamenti difficili e spesso interrotti, insidiati da informatori della parte avversa. È su queste ombre che da qualche tempo insiste, generalizzando alcuni episodi, una letteratura neofascista con l’evidente scopo di contestare il giudizio ormai acquisito sulla resistenza. Ma queste insinuazioni e generalizzazioni pseudo storiche non possono intaccare nella sostanza il significato nazionale ed umano della resistenza: la elevatezza delle sue intenzioni, la generosità dei suoi sacrifici, anche se, nel ritorno alla normalità, i valori della resistenza hanno trovato una diversa interpretazione negli uomini e nei partiti»[22].
Trent’anni di storiografia del Kirchenkampf (1946-1976)
L’altro libro di Bendiscioli che di diritto fa parte di quella ideale ‘Biblioteca europea del ‘900’, a cui pure dovremmo pensare nel momento in cui si conclude il XX secolo, è la nuova edizione di Germania religiosa nel Terzo Reich pubblicata dalla Morcelliana nel ’77. In essa l’opera che uscì nel ’36 con lo stesso titolo è riportata «senza ritocchi», perché ciò di cui parlava era rigorosamente accertato e tale rimaneva quarant’anni dopo. L’autore vi ha aggiunto solo due capitoli: Il Kirchenkampf (1936-1938), scritto per l’edizione inglese di Germania religiosa nel Terzo Reich (Nazism versus Christianity, Skeffington, London 1939), e La coscienza cristiana contro il neo-paganesimo razzista 1939-1944, un testo redatto nel ’46 ma pubblicato in un quaderno del Terzo Programma della Rai nel ’52. Tutto ciò forma la prima parte del volume, quella su ‘la testimonianza 1933-1945’; ma l’opera acquista una rilevanza straordinaria per la seconda parte la quale ha per oggetto ‘la storiografia 1946-1976’. In essa Bendiscioli ci ha dato la rassegna critica, la più completa possibile, di trent’anni di spietato, approfondito dibattito sui rapporti intercorsi, ad ogni livello e a qualsiasi titolo, tra il nazismo al potere e le Chiese cristiane. Quelle pagine incatenano il lettore, suscitando in lui il sentimento incancellabile di trovarsi egli stesso nel fervore della lotta.
Bendiscioli dà molto spazio alle ricostruzioni che portano il dibattito sugli aspetti più discussi del Kirchenkampf, e non a caso: sono, infatti, gli scritti che a un primo esame possono apparire provocatori quelli che ci obbligano di più a interrogarci sull’efficacia della propaganda nazista e sul disorientamento di tanta parte del popolo cristiano e delle sue guide. Soprattutto all’inizio della dittatura hitleriana, quando il nazismo cercava di accreditarsi come il partito della normalizzazione, i cattolici su cedettero meglio garantiti dal nuovo regime fin troppo sollecito a firmare il Concordato con la Santa Sede. Il Concordato fu siglato, infatti, in quello stesso 1933 e la vittima sacrificale fu l’autoscioglimento del Centro, cioè del raggruppamento che da settant’anni rappresentava il cattolicesimo politico in parlamento, e come si sa, l’avversione al cattolicesimo politico era fortissima nel cattolico conservatore Von Papen, che Bendiscioli icasticamente definisce «tutore del primo gabinetto Hitler in qualità di vice cancelliere».
Hitler, d’altro canto, avendo ottenuto in quel maledetto 1933 i pieni poteri dal parlamento il 23 marzo e, grazie anche all’effetto del Concordato, l’elezione plebiscitaria del 7 novembre ’33, non esitò, infatti, a scatenare subito dopo una campagna di stampa contro i vescovi e a intentare squallidi processi contro il clero per screditarlo presso il popolo. Nel ’34 la stampa cattolica fu messa sotto controllo dai nazisti e fu la fine per i periodici non collaborazionisti. Le organizzazioni giovanili, le associazione economiche e sociali del laicato cattolico furono spietatamente perseguitate e quasi del tutto annientate. Tra il giugno e il luglio del ’34 il regime passò dall’intimidazione all’assassinio: furono uccisi il capo dell’Azione cattolica Erich Klausener, il dirigente delle associazioni sportive Adalbert Probst, il pubblicista Fritz Michael Gerlich e tanti altri. Giunse, dunque, fin troppo presto il tempo in cui si capì che chiamarsi cristiani e cattolici e mantenere questa professione al cospetto di minacce brutali esigeva l’accettazione quotidiana di un grave rischio.
La difficile e insieme inevitabile convivenza tra le Chiese cristiane e il potere nazista in una nazione come la Germania – dove l’assenza di un orientamento cattolico-liberale, l’autoritarismo, il nazionalismo esasperato e il primato del prussianesimo avevano plasmato la vita di un popolo – produsse all’interno delle stesse comunità religiose tensioni drammatiche. La più sconcertante ci fu in campo protestante in cui presero piede i cosiddetti ‘tedesco-cristiani’, «portavoce nelle Chiese dell’antisemitismo razziale nazionalsocialista e longa manus del partito». Dinanzi a una profanazione così perversa e odiosa del messaggio di Cristo, la Chiesa evangelica reagì vigorosamente e negli anni ’34-’35 si costituì in ‘Chiesa confessante’. Il suo motto fu: «Noi non siamo di quelli che cedono» (Lettera agli Ebrei 10, 39); la figura più alta, divenuta poi universalmente nota,, fu quella del pastore e teologo Dietrich Bonhoeffer, decapitato nel lager di Flossembürg il 9 aprile ‘45[23]. Le Chiese vissero il dramma della nazione tedesca e si trovarono anch’esse «fra tentazione e grazia» (zwischen Versuchung und Gnade), avendo di fronte un regime che sapeva collegare diabolicamente le pulsioni più basse di un popolo con le sue legittime aspirazioni. «Chi non ha vissuto – scrisse nel ’46 il cardinale Faulhaber, nell’introdurre la raccolta di documenti dal titolo Croce e croce uncinata – la lotta delle idee dei due ultimi decenni sulla linea del fuoco solo con difficoltà può farsi un’idea della carica di menzogna e di odio con cui venne condotta la lotta contro le istituzioni ecclesiastiche dal movimento e dal partito nazista».
Obbligata a non disarmare e insieme ad agire con cautela, la Chiesa cattolica non lasciò cadere nessuna possibilità, neppure quella di appellarsi alle clausole del tanto discusso Concordato, per frenare l’arbitrio della dittatura e per non abbandonare in balìa di un avversario così spietato milioni di credenti e di cittadini. In una situazione così difficile il 14 marzo ’37 fu resa pubblica l’enciclica di condanna dell’antisemitismo nazionalsocialista, la Mit brennender Sorge di Pio XI, la cui eco giunse in tutto il mondo. Malgrado quell’enciclica, forse le coscienze avrebbero potuto essere messe di nuovo a tacere quando, essendo scoppiata la guerra, scattò nel modo più brutalmente automatico il ricatto del lealismo a oltranza verso lo Stato tedesco, a prescindere da chi fosse a governarlo. E ci fu un momento ancora più pericoloso, quando la propaganda nazista presentò l’invasione dell’Unione Sovietica come una crociata contro il nemico della civiltà occidentale e del cristianesimo. Ma l’onore del nome cristiano fu salvato anche perché, nonostante la guerra esigesse una tregua nella lotta alle Chiese (tregua che Stalin praticò negli anni ’41-’45), il regime rese la persecuzione antireligiosa sempre più terroristica e capillare, portando non pochi credenti a passare dal rifiuto all’impegno attivo, dall’opposizione culturale e religiosa alla resistenza politica, come in quegli anni fecero i magnifici giovani della Rosa Bianca, padre Delp e padre Muckermann, il pastore Dietrich Bonhoeffer, la rete degli ufficiali cristiani collegati all’attentato del 20 luglio ’44 e tanti altri. La progressiva presa di coscienza, sebbene ancora lontana per difetto dalla realtà, della efferatezza e dell’entità del genocidio razziale, compiuto al seguito delle armate tedesche nei Paesi dell’Est dopo l’attacco all’Unione Sovietica, e più sistematicamente nei campi di lavoro e di eliminazione, segnò il punto di rottura definitivo tra la coscienza cristiana tedesca e lo Stato criminale da cui era governato il popolo tedesco. Le prese di posizione antinaziste da parte dei vescovi divennero frequenti e sempre più energiche; ma, essendo collettive, la repressione da parte del regime diventava assai più difficile[24].
È stato amaramente scritto da Carl Amery (pseudo mino di Christian Mayer), Heinrich Böll, Günther Lewy e da altri che la resistenza religiosa al nazismo fu «una causa privata», ma la realtà storica ci obbliga a correggere un giudizio così drastico. Tra i cristiani della Germania, cattolici ed evangelici, ci furono molti modi di dire no al nazismo: ci fu la resistenza passiva e la resistenza culturale, la resistenza politica e ideologica. Certamente si possono e si debbono distinguere una ‘resistenza ufficiale’, da parte delle gerarchie ecclesiastiche, e una ‘resistenza profetica’, combattuta dalle pattuglie di avanguardia; le loro finalità, le linee operative e le responsabilità erano obiettivamente molto diverse, e se le due resistenze in alcuni casi furono parallele, in altri non solo furono solidali, ma si alimentarono a vicenda e spesso rifluirono l’una nell’altra. Malgrado la formulazione aspra del suo pensiero, si può, però, convenire con lo storico lussemburghese Victor Conzemius quando, a commento dell’interpretazione di Carl Amery, osserva: «Il fenomeno della ‘capitolazione’ non è specifico del cattolicesimo tedesco che si accorda col Terzo Reich. Essa è un elemento di danno che insidia ogni religione istituzionalizzata dal momento in cui si adegua troppo al mondo e ai governi». La questione non cessò mai di tormentare Bendiscioli, che fu instancabile nell’individuare i gravi problemi e le immani difficoltà che la ‘resistenza ufficiale’ dovette effettivamente affrontare, anche perché era convinto che una dissidenza religiosa, attiva e pubblica, quand’anche fosse riuscita ad attrarre a sé una parte dei fedeli, in uno Stato totalitario moderno, e ancor più nel corso di una guerra, non avrebbe potuto avere alcuna possibilità di successo: «Essa avrebbe solo condotto ad un inaudito massacro» ebbe a dire realisticamente Friedrich Muckermann. Tuttavia lo storico bresciano comprese perfettamente che l’umanità percepisce la realtà interiore e trascendente di rDio e l’imperativo morale della coscienza, che viene prima e al di sopra di ogni altro obbligo, prima di tutto e forse esclusivamente per mezzo degli eroi della vita morale, attraverso i martiri della ‘resistenza profetica’: essi sono l’icona del Vangelo di ieri, di oggi, di sempre.
Nel capitolo finale sul significato del Kirchenkampf tedesco per la Chiesa universale Bendiscioli delinea un quadro penetrante di ciò che, durante e dopo la durissima prova, balzò in primo piano nelle Chiese cristiane: emersero nuove questioni e soprattutto cambiò il modo di affrontarle, anche se, almeno in parte, il terreno era stato preparato dai migliori pensatori religiosi della Germania nel ventennio tra le due guerre. «Le posizioni critiche di resistenti nei riguardi delle loro Chiese (dei Delp, dei Mayer, dei Metzger, dei Muckermann, dei Gurian nel cattolicesimo, dei Barth, dei Tillich, dei Bonhoeffer nella Chiesa evangelica), hanno creato un problema di coscienza nelle Chiese, hanno impostato vedute nuove circa i rapporti tra Chiesa e Stato, Chiesa e società, tra coscienza individuale ed autorità costituita; hanno condotto ad un approfondimento dell’essere cristiani nella realtà concreta, soprattutto nelle situazioni fuori dalla normalità, ad un senso più acuto di corresponsabilità nei comportamenti della comunità ecclesiale, ma anche in quelli della società in cui ci si trova inseriti. Tutto questo ha alimentato un ripensamento dell’ecclesiologia e della morale, già in atto in Germania nel primo dopoguerra col Wittig, col Guardini, col Lippert ed il Pribilla, col Tillmann e lo Häring, col Dessauer e lo Haecker con accentuazioni della prospettiva ecumenica, del momento comunitario nella pietà personale, della tensione tra autorità e libertà nella sfera religiosa, col rilievo della coscienza personale quale istanza della valutazione etico-politica»[25].
Su due punti, in particolare, la lotta delle Chiese cristiane, dei gruppi e dei singoli contro il neopaganesimo razzista ha lasciato un’eredità che, se non disattesa, può ben aiutarci a configurare un futuro più alto. Il primo è che cattolici ed evangelici, accomunati nella persecuzione, si riscoprirono fratelli e posero le premesse per la nascita del movimento ecumenico[26], che sarebbe stato nei decenni successivi una delle grandi direttrici del XX secolo, segno e causa insieme del rinnovamento delle Chiese cristiane. Offesi e calpestati da un potere crudelmente oppressivo, cattolici ed evangelici, preti e pastori si trovarono insieme in prigione e nei campi di annientamento; insieme soffrirono, pregarono e si fecero testimoni di Dio al servizio degli altri. Fu così che a Dachau – dov’erano rinchiusi molte centinaia di preti e pastori – e in altri lager le divisioni si attenuarono fortemente, o sparirono, e al loro posto ci fu un’esperienza straordinaria di fraternità. Di lì nacque il fermo proposito di impegnare le rispettive confessioni a rendere pura da odi e pregiudizi la memoria del passato, a valorizzare i tesori reciproci e a vivere con gioia le molte cose che i credenti in Cristi hanno in comune. In tal modo nacque il nuovo ecumenismo e la decisione di ripensare finalmente, fuori dai soliti schemi e da pregiudiziali plurisecolari, l’unità dei cristiani come concreto obiettivo e speranza storica.
L’altro insegnamento, che ci viene dalla lotta dei cristiani e delle Chiese tedesche contro la barbarie nazista, consiste in una visione radicalmente diversa di ciò che si debba intendere per difesa della fede e dell’istituzione religiosa a cui si appartiene. Si tratta di un reale progresso nella giusta comprensione e nell’approfondimento della Weltanschauung cristiana. Chi ha espresso con grande forza questo nuovo punto di vista è stato Muckermann, che Bendiscioli cita con evidente adesione. «Un grande momento è giunto per la Chiesa. I diritti dell’uomo sono in pericolo. Nessuno osa alzare la voce contro i dittatori che trattano l’uomo come uno schiavo. Di fronte ai campi di concentramento, agli assassinii, agli attacchi contro la libertà, nessuno ripete il comandamento divino: ‘Questo tu non farai’… Rinunziando a difendere, oltre che la libertà della Chiesa, la libertà dell’uomo in quanto tale, i vescovi avevano involontariamente votato al fallimento qualsiasi tentativo di vincere la battaglia contro i loro oppressori»[27]. Queste cose Muckermann le scriveva nel dicembre ’34. Le ribadirà con immutato vigore poco più di dieci anni dopo ne La via tedesca. «V’erano e vi sono – scrive il padre gesuita – ancora dei cristiani che parlano di persecuzione religiosa soltanto quando si assaltano i conventi e si uccidono i sacerdoti. Per i profani un tale modo di giudicare appare egoistico, quasi che ci si preoccupi unicamente di quelli che sono gli specifici interessi ecclesiastici. Per noi il cristianesimo è la religione dell’umanità, l’anima di una cultura universale. Davanti ai nostri occhi la Chiesa è offesa ogni qualvolta si disonora l’umanità in un uomo ed il pugno malvagio che colpisce il volto di un uomo, colpisce nello stesso tempo il volto di Cristo, primogenito fra tanti fratelli. Lottare per la Chiesa significa per noi lottare per l’umanità»[28].
Concludendo queste annotazioni, che non hanno affatto la pretesa di esaurire il discorso sullo storico bresciano, penso con profonda gratitudine a quanto egli ci abbia arricchiti con la sua operosità infaticabile e con la sua inflessibile dirittura. Cattolico non conformista – egli si diceva «cattolico anticlericale»[29] – predilesse in ogni campo della sua indagine non i contestatori rumorosi, né gli uomini di potere e di apparato, che anzi gli ripugnavano profondamente, ma gli ‘innovatori ortodossi’, quelli che lavorano sodo, con tenace pazienza, ad aprire varchi nuovi ai valori in cui credono e al rinnovamento delle istituzioni chiamate a veicolarli nel cammino della storia. Bendiscioli, fedele come pochi alle amicizie, i suoi veri maestri e amici se li scelse sempre tra persone di quel tipo, che non mollano mai ma che costruiscono giorno dopo giorno, in silentio et in spe, una Chiesa più fedele a Cristo e una società civile più libera e giusta.
Con la sua opera e con la sua vita Bendiscioli ci ha dato una duplice testimonianza: la prima è che si può essere cristiani in situazioni di tragico disorientamento e di equivoci; la seconda, che la sensibilità religiosa e politica non affossa, ma affina il lavoro dello storico, se lo si vive in primo luogo con impegno di coscienza.
[1] Humanitas, n. 2 – aprile 1999.
[2]L’articolo, che reca il titolo L’Ungheria e l’Italia, è riportato in: M. Bendiscioli, Storia contemporanea – Scritti 1924-1981, «I quaderni della Resistenza bresciana», n. 4, dicembre 1989. L’editore è l’Istituto Storico della Resistenza Bresciana, Brescia, via Gabriele Rosa 39.
[3]Il libro-intervista, – M. Bendiscioli, Un percorso di esperienze e di studio nella cristianità del ‘900 – è curato con grande intelligenza da Massimo Giuliani. Introdotta da una premessa di Giulio Colombi, l’intervista si articola in sette capitoli di straordinario interesse per chi voglia capire non solo l’avventura culturale di un uomo «europeo» come Bendiscioli, ma anche risvolti poco noti, aspetti e fermenti significativi sia della storia italiana, sia del rinnovamento religioso operatosi nella Chiesa cattolica tra il ’25 e il Concilio Vaticano II. Nella seconda parte del volume il Giuliani ha ristampato «tre saggi di metodologia storica» oggi difficilmente reperibili. Il primo di essi ha la forma di lettera e fu pubblicata sulla rivista di Giovanni Battista Montini e Igino Righetti, «Studium», nel lontano 1926; il secondo riproduce nei passaggi essenziali la prolusione al corso di Storia moderna tenuto nel 1959, all’Università di Pavia; il terzo ha il valore di un’esemplificazione concreta, avendo per oggetto la rassegna critica delle biografie di Claus von Stauffenberg, il colonnello che attentò alla vita di Hitler il 20 luglio 1944. Il volume, infine, ripubblica, aggiornata, la Bibliografia degli scritti di Mario Bendiscioli, stilata da Mario Taccolini nel 1988 per l’editrice Morcelliana.
[4] Nato a Passirano, a pochi chilometri da Brescia, l’8 gennaio 1903, Mario Bendiscioli era decimo figlio dell’ing. Giacomo e di Giulia Lupi. Compì a Brescia gli studi liceali. In quegli anni fu decisiva per la sua formazione l’Oratorio filippino dei Padri della Pace. In quell’ambiente incontrò maestri di approfondimento culturale, di vita interiore e di azione caritativa. Per due di essi in particolare, Giulio Bevilacqua (1881-1965) e Paolo Caresana (1882-1973), Bendiscioli nutrì sentimenti di venerazione; l’uno e l’altro furono, sino alla loro morte, guide spirituali e liberi consiglieri anche di Giovanni Battista Montini. Alunno del collegio Ghisleri a Pavia, partecipò attivamente alle iniziative della Federazione Universitaria Cattolica Italiana. A Brescia frattanto continuò a frequentare la Pace e cominciò a scrivere su «Il Cittadino»; prese contatto inoltre con gli animatori del Circolo Manzoni e della coraggiosa rivista «La Fionda» (1918-1926), il prete Giovanni Battista Montini e l’avvocato Andrea Trebeschi, che nel ’45 morirà nel lager di Gusen. Nel ’26 gli fu affidato un incarico d’insegnamento liceale a Pavia e l’anno successivo, vinto il concordo, insegnò storia e filosofia a Merano dove rimase fino al ’33. Dal ’33 Bendiscioli passò a insegnare presso il liceo Carducci a Milano. Libero docente di Storia del Cristianesimo nel ’38, egli professò quella disciplina dal ’38 al ’73 presso gli atenei di Salerno e Pavia.
[5] Ecco in qual modo ci è pervenuto il testo che abbiamo riportato integralmente. Gli scolari pavesi raccolsero in un volume – Mario Bendiscioli, Dalla riforma alla Controriforma, Il Mulino, Bologna 1974 – i saggi più importanti del loro maestro su uno dei temi di fondo della sua ricerca. Il volume era accompagnato da una «scheda» che riportava il breve discorso tenuto da Bendiscioli agli studenti nella lezione di congedo. Cesare Angelini, l’impareggiabile rettore del Collegio Borromeo di Pavia per ben ventidue anni, in una lettera a Bendiscioli, in data 21 marzo ’75, sottolinea il valore di quella «scheda», le cui parole gli erano parse «così semplici e così grandi» da fargli venire in mente quelle pronunciate dal filosofo Francesco Acri il giorno in cui salutò i suoi scolari di Bologna (C. Angelini, I doni della vita – Lettere 1913-1976, Rusconi, Milano 1985, p. 576).
[6] La storia all’università, in L’insegnamento della storia di M. Bendiscioli e R. Berardi, Le Monnier, Firenze 1963, p. 25.
[7]Per una visione d’insieme delle vicende dell’editrice rimando al mio saggio La Morcelliana, «una casa insieme cattolica e intelligente», in «Studium» 1995, n. 6, pp. 933-947.
[8]La Morcelliana non uscì come Minerva dal cervello di Giove, tutta armata per le sue battaglie, e non ebbe affatto vita facile. L’editrice trasse origine dalla volontà di due gruppi cattolici impegnati a testimoniare la loro fede e la libertà per mezzo di due giornali, «Il Cittadino» e «La Fionda». La «Società Anonima Tipografica Editrice Morcelliana» fu costituita con atto notarile il 22 aprile 1925. L’editrice si dette subito anche una libreria, come punto d’incontro tra i sostenitori e di irradiazione di idee. Nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1926 squadre fasciste assaltarono Palazzo S. Paolo, che in Brescia era la sede delle organizzazioni cattoliche, distruggendo e incendiando anche la libreria e la tipografia della Morcelliana.
[9]L’Archivio De Luca (ADL) sta provvedendo alla pubblicazione del copioso Carteggio del prete lucano. Le citazioni qui riportate sono tratte da Luisa Mangoni, In parti bus infedelium, Einaudi, Torino 1989, p. 110.
[10] La vicenda è stata fatta conoscere da Bendiscioli nello scritto: La censura del S. Uffizio a «L’essenza del cattolicesimo» di K. Adam – Notizia di un carteggio 1928-35. L’ampio saggio, alla cui stesura collaborò Massimo Marcocchi, apparve nella rivista «Studi e Memorie», 1979, n. 7, pp. 87-147.
[11]Nei primissimi anni di attività della Morcelliana, l’attenzione di Bendiscioli si portò anche sul mondo anglosassone, grazie al suggerimento che gli venne da una suora canossiana indiana, a cui lo storico bresciano non esita ad attribuire un ruolo di primo piano nella sua vita intellettuale e spirituale (cfr. Un percorso di esperienze e di studio nella cristianità del ‘900, ed. cit., p. 24). Nel ’26, infatti, venivano pubblicati Note di direzione spirituale del Considine e Ortodossia,
[12] I numerosi saggi, articoli e corsi universitari di Bendiscioli sul Cinquecento religioso si sono tradotti in volumi solo molti anni dopo. Tra le pubblicazioni di maggior rilievo ricordiamo: La riforma protestante in Questioni di storia moderna a cura di E. Rota, Marzorati, Como 1943 (ed. riveduta nel ’64); Il luteranesimo, Galileo, Milano 1948; Il giovane Lutero fino al 1517 – Testi e note, Ceum, Milano 1950; La riforma protestante, Studium, Roma 1955 (ed. riveduta nel ’67); La riforma cattolica,Studium, Roma 1958 (ed. riveduta nel ’74); Il papato nel secolo XVI, in I papi nella storia, Coletti, Roma 1955 (ed. riveduta nel ’61); Riforma cattolica-Antologia di documenti, in collaborazione con M. Marcocchi, Studium, Roma 1963; Dalla Riforma alla Controriforma, Il Mulino, Bologna 1974. Bendiscioli ha studiato anche il mondo religioso lombardo del Cinquecento e dei primi decenni del Seicento dominato dalle figure di Carlo e Federico Borromeo. I suoi contributi di rilievo sull’argomento sono due: l’affresco di cinquecento pagine Politica, amministrazione e religione – Vita sociale e culturale, nel vol. X della Storia di Milano, Treccani, Milano 1957; e il saggio Penetrazione protestantica e repressione controriformistica in Lombardia nell’età di Carlo e Federico Borromeo, in Festgabe für J. Lortz, Baden-Baden 1858.
[13] Sulla riunione dell’11 febbraio ’29, nell’abitazione di Montini, abbiamo il racconto di un testimone diretto, Giuseppe Cassano, allora giovane fucino. «La conversazione – scrive l’avvocato Cassano – fu vivacissima: non direi che ne nascessero contrasti radicali veri e propri, dato che ognuno si rendeva conto degli aspetti positivi e negativi che l’avvenimento [della Conciliazione] presentava. De Gasperi ne vedeva prevalentemente il lato negativo, però lo stesso P. Bevilacqua, che naturalmente non amava affatto il prestigio che ne sarebbe derivato al regime, si rendeva conto che era un fatto storico che finalmente, sia pure in circostanze disgraziatissime, era possibile togliere di mezzo il più forte argomento per l’accusa grossolana di temporalismo che si continuava a rivolgere contro la S. Sede e tutte le sue istituzioni ed organizzazioni, ed anche contro noi cattolici, singolarmente scherniti come ‘paparealisti’… Naturalmente si prevedeva che non sarebbe stato mai più perdonato ai cattolici italiani di aver utilizzato il regime autoritario per imporre al popolo italiano un patto che si diceva vantaggioso per la Chiesa» (Testimonianze di antichi studenti di Mons. G. B. Montini: Giuseppe Cassano, «Notiziario dell’Istituto Paolo VI», 1982, n. 4, pp. 67-68). Bendiscioli – che, come si è detto, era presente a quella riunione – conferma le annotazioni scritte di Cassano, facendole proprie non senza aver ribadito: «Ho un ricordo assai vivo di sentimenti e giudizi nei riguardi del Trattato e del Concordato» (Un percorso di esperienze ecc., ed. cit., p. 32). Cassano e Bendiscioli ricordano che Montini quella sera fu di un «riserbo estremo», ma che non rimase in silenzio: «Con la sua consueta chiarezza espositiva, egli sottolineava gli aspetti negativi e gli aspetti positivi del fatto, che collocava nella storia più che nella cronaca e negli interessi del momento». Montini si augurava che la Conciliazione ponesse fine ai due integralismi, quello laicista e quello clericale, che dal 1870 avevano profondamente turbato la vita religiosa e politica del Paese. Le riserve sulla Conciliazione egli le aveva espresse prima della sua stipulazione. Scriveva ai suoi di Brescia, in data 19 gennaio ’29: «Se la libertà del Papa non è garantita dalla forte libera fede del popolo, e specialmente di quello italiano, quale territorio e quale trattato lo potrà?» (Lettere ai familiari 1919-1943, Ed. Studium, Brescia-Roma 1986, vol. II, p. 583). E su «Azione fucina» del 24 febbraio ’29 risuonava forte l’appello ai cattolici più consapevoli a essere desti, «a non aver più fiducia per il trionfo della verità nell’aiuto delle circostanze esteriori che nell’intima natura della verità stessa». Sul periodo in cui il sacerdote bresciano fu assistente nazionale della Fuci si veda il saggio penetrante e ben documentato di M. Marcocchi, G.B. Montini-Scritti fucini 1925-1933: linee di lettura, in «Notiziario dell’Istituto Paolo VI», 1991, n.21, pp. 67-89.
[14] Pio XI, pochi giorni dopo il duro discorso anticristiano di Mussolini alla Camera, il 30 maggio dichiarava al card. Gasparri che «gli avvenimenti dell’11 febbraio avevano provocato una così universale esplosione di serena gioia, che poche uguali si ebbe nella storia». Trent’anni dopo P. Bevilacqua scriveva cose del tutto opposte: «Nel lontano febbraio del ’29 il gelo eccezionale segnato dai barometri si dimostrò ancora inadeguato ad esprimere il gelo che invase gli spiriti all’annuncio, inatteso e clamoroso, dei conclusi Patti Lateranensi. Né euforie di sfere ufficiali, né apologie di stampa imbavagliata, né un clima di viltà o di dimissione, né la messa in moto di tutte le tecniche della degradazione valsero a ridurre o a scalfire un’opposizione che coalizzava imponenti forze di provenienza e finalità contrastanti… La grande maggioranza dei cattolici non riusciva a rendersi ragione come la Chiesa avesse potuto venire a patti con una forza dimostratasi anticristiana in sé, nel fine come nei mezzi» (I Patti Lateranensi dopo trent’anni, in «Humanitas» 1959, n. 3, pp. 182-190). A questo proposito lo storico Giacomo Martina, gesuita, ha osservato: «Se non si può storicamente accettare l’affermazione del padre oratoriano, secondo cui l’opposizione amara e irriducibile di una minoranza, le cui voci, come spesso avviene nella storia, poco o nulla avvertite allora dall’opinione pubblica, avrebbero avuto in seguito un grande rilievo e avrebbero tracciato degli orientamenti di cui ormai nessuno può prescindere» (Appendice storica al volume: Alcide De Gasperi, Lettere sul Concordato, Morcelliana, Brescia 1970, pp. 144-145).
[15] Questa lettera di Montini fa parte del «Fondo Bendiscioli», affidato all’Istituto Paolo VI che ne curerà lo studio e la pubblicazione. Il passo citato è tratto da Un percorso di esperienze ecc., p. 33. Nel discorso alla Camera del 13 maggio ’29 Mussolini aveva dichiarato: «Nello Stato la Chiesa non ne è sovrana e non è nemmeno libera… La religione cristiana è nata nella Palestina, ma è divenuta cattolica a Roma. Se fosse rimasta nella Palestina, molto probabilmente sarebbe stata una delle tante sette che fiorivano in quell’ambiente arroventato, come ad esempio quelle degli Esseni e dei Terapeuti, e molto probabilmente si sarebbe spenta, senza lasciare traccia di sé… Non abbiamo risuscitato il potere temporale dei Papi: lo abbiamo sepolto» . Arturo Carlo Jemolo cita il testo ufficiale del discorso di Mussolini, ma precisa che i giornali del 14 maggio recavano un’altra versione, quella originale, dell’ultima frase: «gli abbiamo lasciato tanto territorio quanto bastasse per seppellirne il cadavere» (A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Einaudi, Torino 1948, p. 641).
[16] «Mio metodo di lavoro era stato quello di abbinare la lettura di pubblicazioni, giornali, riviste, libri e il contatto diretto coi loro autori e ispiratori. Queste conversazioni confidenziali con protagonisti della cultura e della politica mi hanno aiutato assai a comprendere ed a valutare il rapporto tra l’autore e la sua opera. L’informazione che è alla base di Germania religiosa del III Reich ha avuto una duplice fonte: l’esplorazione sistematica di giornali, periodici, pubblicazioni rappresentative di posizioni impegnate nel conflitto culturale, soprattutto di quelle con posizioni di punta, e la consultazione sistematica di persone e di cerchie in grado di dar lume sulle polemiche, di integrare l’informazione incompleta, tendenziosa o mancante nelle pubblicazioni, di rivelare retroscena, di mettere a disposizione stampe sequestrate, ritagli di giornale, di rendere possibili attraverso presentazioni talora in codice, ulteriori contatti con persone ed istituzioni. In questo hanno avuto una parte importante librerie, o, più precisamente, impiegati di librerie che non soltanto segnalavano le pubblicazioni significative, dando informazioni su autori, editori, ispiratori, ma mi procuravano copia delle pubblicazioni sequestrate o di scritti che circolavano clandestinamente». M. Bendiscioli ci ha fornito queste notizie nella Premessa quasi autobiografica alla II ed. di Germania religiosa nel Terzo Reich (Morcelliana, Brescia 1977, pp. 6-7).
[17] Uno dei saggi più vivi, di alta sintesi storica, di Bendiscioli è Rapporti tra Stato e Chiesa nel regime fascista, incluso nel volume Storia contemporanea – Scritti 1924-81, ed. cit., pp. 86-100.
[18] Si leggano sull’argomento in Un percorso di esperienze e studio ecc., ed. cit., le pagine 44-46 e Appunti per un diario di carcere in Storia contemporanea ecc., ed. cit., pp. 77-86.
[19] Bendiscioli fu commissario per la scuola del Cln lombardo, a Milano, a partire dall’agosto ’45 e dovette affrontare due gravi problemi: l’epurazione del personale e la riorganizzazione di tutte le scuole della Lombardia, università comprese. Toccava a lui reperire i fondi per gli stipendi, confidando nell’aiuto dei rappresentanti del governo militare alleato. Nel biennio ’45-’46 fu direttore della bella, combattiva rivista «Scuola e vita», pubblicata dall’editrice La Scuola di Brescia; la rivista, a cui dette un appassionato apporto Enzo Petrini, letterato e pedagogista insigne (è lui l’autore del libro Cuore della Resistenza, Piccole fiamme verdi), ebbe vita breve perché avversata a causa della sua linea politica.
[20] La via tedesca fu ristampata nel 1985 nei «Reprints Morcelliana», a quarant’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale. Su questo «nido di resistenza» al nazismo si veda: M. Perrini, «La via tedesca» di Friedrich Muckermann. Un classico della resistenza europea, in «Studium» 1986, n. 2, pp. 195-206. Di Friedrich Muckermann, oltre La via tedesca, fu tradotto in italiano L’uomo nell’età della tecnica (Morcelliana, Brescia 1950), libro scritto nella clandestinità, senza poter consultare alcuna biblioteca, nella Francia del 1942. In Germania, dopo il volume di Nanda Herberman, F. Muckermann ein Apostel unserer Zeit (Paderborn, Verlag Schöning, 1953), è apparsa la principale fonte e rievocazione dell’opera di F. Muckermann col titolo Kampf zwischen zwei Epochen (Nella lotta tra due epoche – Mainz 1971, pp. XVIII-665).
[21] M. Bendiscioli, Antifascismo e resistenza, Studium, Roma 1964; II ed. aumentata nel ’74. Lo storico bresciano non solo prese parte egli stesso alla resistenza, come si è ricordato prima, ma ebbe un ruolo attivo nella formazione dell’Archivio dell’Istituto nazionale di Liberazione in Italia, di cui dal ’49 al ’55 fu direttore. Bendiscioli lavorò intensamente nel dopoguerra all’Unesco, negli anni in cui fu segretario Vittorino Veronese, nella commissione per la revisione dei manuali di storia.
[22] Antifascismo e resistenza, II ed., 1974, pp. 220-221. Occorre sottolineare che soprusi e assassinii politici furono commessi, specie dopo la liberazione, in aperta violazione delle direttive del Cln e dei partiti che lo costituivano, che aveva predisposto appositi istituti punitivi in attesa del ritorno alla legalità.
[23]La Chiesa confessante nella «Dichiarazione di Barmen» del maggio 1934 giustificava teologicamente, all’articolo 5, la condanna dello Stato totalitario in questi termini: «Noi rifiutiamo la falsa teoria che lo Stato debba e possa, al di là del suo compito specifico [la custodia del diritto e della pace], divenire il principio ordinativo unico e assoluto della vita umana e quindi determinare anche la condotta della Chiesa». Nel giugno ’36 in un coraggioso memoriale fu rotto il silenzio contro l’antisemitismo razziale dello Stato nazista e si attaccò espressamente il culto idolatrico del Führer. Nell’ottobre ’43 si tornò a denunciare come profondamente anticristiana la politica di annientamento del popolo di Israele e si formulò il principio: «Nessuno di noi può lasciarsi togliere dai suoi superiori la responsabilità di fronte a Dio».
[24] Ebbe grande risonanza la denuncia del cardinale von Galen contro la politica eugenetica nazista nel ’41, così come la dichiarazione dei vescovi renani del ’42 contro gli arresti arbitrari, le uccisioni degl’innocenti, le continue violazioni dei diritti naturali di vita, libertà e proprietà. Con trasparente riferimento al calvario dei deportati – e in particolare al genocidio di ebrei e polacchi – Pio XII nel messaggio natalizio del ’42 richiamava l’attenzione del mondo sul crimine orrendo perpetrato a danno di «centinaia di migliaia di persone senza colpe personali, solo per le origini, condannate a morte o a una lenta distruzione». Nell’agosto del ’43 l’episcopato tedesco ricordava in una lettera pastorale che l’uccisione di ostaggi innocenti, di prigionieri di guerra disarmati era un crimine, un peccato di cui i cristiani non dovevano macchiarsi, «anche se l’assassinio veniva compiuto per comando delle autorità costituite e con la pretesa che fosse richiesto dal bene comune». I vescovi tedeschi ammonivano inoltre che non si doveva odiare il nemico e invocavano apertamente amore e solidarietà effettiva «per quegli esseri umani innocenti che non sono del nostro sangue e non appartengono al nostro popolo, per coloro che sono costretti all’esilio».
[25] Germania religiosa del Terzo Reich, ed. cit., p. 408.
[26] Padre Carlo Manziana, dell’Oratorio della Pace di Brescia, coetaneo e amico fraterno di Bendiscioli, arrestato dai nazifascisti nell’autunno del ’43 e deportato a Dachau, ha lasciato due sobrie ma preziose testimonianze sulla ‘svolta ecumenica’ a cui dette origine l’incontro nel lager tra i cristiani di diverse confessioni. Scrive l’illustre filippino: «Nascostamente, nel tempo libero o durante il lavoro in baracca, si tenevano periodiche conversazioni tra sacerdoti cattolici, protestanti, ortodossi ed anche qualche laico, su tematiche che interessarono la ricostruzione d’Europa e anche il Concilio Vaticano II, in modo particolare per quanto riguarda l’ecumenismo» (Testimonianza sull’esperienza del lager, in Antifascismo, Resistenza e clero bresciano, Cedoc, Brescia 1985, II ed., p. 166). Ed ancora: «L’incontro di Dachau tra persone appartenenti a quaranta nazioni, di confessioni religiose diverse e di ideologie divergenti, costituì un elemento assai positivo per porre in atto una riconciliazione e un affiatamento… Possiamo dire senza esagerazioni che le conoscenze fraterne fatte a Dachau ci prepararono al dialogo sia ecumenico che europeistico e suscitarono un unanime impegno per contribuire a costruire una società più libera, giusta, solidale e pacifica» (Carità e umanità nel lager della crudeltà, in La deportazione nei campi di sterminio nazista, a cura di F. Cereja e B. Mantelli, Franco Angeli, Milano 1986, p. 214).
[27] Germania religiosa nel Terzo Reich, ed. cit., p. 355.
[28] La via tedesca, ed. cit., pp. 53-54.
[29] Un percorso ecc., ed. cit., p. 60.