Il primo luogo che cosa è il “Tribunale Sacharov”? Per quanto ciò possa sembrare paradossale esso non è un tribunale: è un’iniziativa che prende il nome inglese di “Hearing Sacharov”: nel sistema giudiziario anglosassone hearing indica una specie di udienza preliminare, dopo la quale si decide se procedere oltre o no nell’incriminazione dell’imputato. Gli organizzatori di questa iniziativa, un comitato di esuli dall’Europa orientale avente sede a Copenaghen, hanno ritenuto di partire per così dire in sordina in modo da raccogliere e sistematizzare fatti e testimonianze prima di passare ad un tribunale vero e proprio: in mancanza di termine italiano equivalente si è tradotto con “tribunale”, vocabolo che ha una presa immediata.L’iniziativa è stata intrapresa in seguito ad un appello dello stesso Sacharov e di altri nove dissidenti, il cosiddetto appello di Mosca, che porta la medesima data, 13 ottobre 1974, dell’apparizione in Occidente dell’edizione in russo del libro di Solzenicyn Arcipelago Gulág. Nel salutare l’apparizione di questo libro che parla dei crimini contro l’umanità commessi nel periodo staliniano, queste dieci persone decisero che valeva la pena di indagare sui crimini che tuttora vengono perpetrati nell’Unione Sovietica e si sono rivolte perciò in particolare all’opinione pubblica occidentale invitandola a promuovere iniziative in materia.
L’appello è stato raccolto in Danimarca e dal 17 al 19 ottobre 1975 si sono tenute queste udienze nella sede del Parlamento danese: nella medesima sede cioè nella quale anni prima si era tenuta un’udienza del Tribunale Russell sul Vietnam. L’indagine doveva abbracciare quattro aspetti della realtà sovietica: la persecuzione contro le religioni, quella contro le minoranze nazionali, la prassi di ricoverare coattivamente persone in ospedale psichiatrico per le loro convinzioni e le condizioni di detenzione nelle colonie di lavoro correzionale e nelle prigioni. A questi argomenti per puro caso se ne è aggiunto un quinto, poiché si è potuta reperire la testimonianza di una ex-studentessa di chimica dell’università di Mosca (attualmente residente a New York), Lyuba Markisc’, la quale ha parlato degli esperimenti su cavie umane condotti in URSS a scopi militari.
Il problema delle persecuzioni religiose, di cui qui ci occupiamo, è reso complesso dal numero e dalla varietà delle confessioni presenti nell’URSS, mentre al Tribunale Sacharov hanno testimoniato soltanto rappresentanti di quattro di esse (delle altre mancano fedeli emigrati in Occidente). Tra questi vi erano due membri della comunità battista, il cui problema oltre che religioso è anche nazionale, essendo essa in parte costituita da tedeschi del Volga, i quali sono la principale delle comunità tedesche stanziatesi in Russia al tempo di Caterina II. Dopo la rivoluzione la loro regione ottenne lo status di repubblica sovietica autonoma, ma all’inizio della seconda guerra mondiale dapprima alcuni di essi, come misura preventiva, poi in massa, con un’accusa generica di collaborazionismo (ma l’esercito hitleriano non arrivò mai nel territorio dei tedeschi del Volga), furono deportati nell’URSS asiatica e la loro repubblica abolita.
I testimoni della confessione battista al Tribunale Sacharov erano appunto tedeschi del Volga emigrati. Per comprendere la situazione dei credenti nell’Unione Sovietica è necessario tener presente che la legislazione prevede libertà di culto per una determinata serie di confessioni: quella ortodossa, quella cattolica di rito latino, la battista, la luterana. Invece altre confessioni sono espressamente vietate dalla legge in base alla motivazione che i loro riti nuocerebbero alla salute dei cittadini: i pentecostali, gli avventisti del settimo giorno, i testimoni di Geova. Quanto ai battisti, una loro componente è permessa e registrata, un’altra, maggioritaria, invece no. Infatti nel 1961 si iniziò un processo scismatico all’interno della comunità battista dell’Unione Sovietica: due presbiteri, accusando la gerarchia di connivenza col regime, avviarono iniziative volte a promuovere un miglioramento della vita ecclesiale e religiosa il quale ebbe largo seguito tra i fedeli. Si arrivò così nel 1966 allo scisma: i battisti che vi hanno aderito – i cosidetti “initziativniki” – non sono riconosciuti, le loro comunità non vengono registrate, mentre i rimanenti sono riconosciuti e i rappresentanti della loro gerarchia possono liberamente anche viaggiare in Occidente senza vedersi vietato il rimpatrio. Il capo spirituale degli initziativniki è il pastore Gheorghii Wintz, arrestato nel 1975 con l’accusa di violazione della legge della Repubblica socialista sovietica ucraina sulla separazione dello Stato dalla Chiesa e della Chiesa dalla scuola: ossia, tra le varie accuse, aveva insegnato il catechismo ai bambini su richiesta dei genitori. I testimoni battisti al Tribunale Sacharov, i pastori G. Hahn e D. Klassen hanno riferito di fatti gravi, e in particolare della tortura e uccisione del soldato Ivn Moisséiev, avvenuta a Kerc’, e di Nikolài Marà a Omsk.
Un altro testimone è un pentecostale, Evghénii Bressendèn, che viveva a Nakhòdka (vicino a Vladivostòk) e lavorava come elettricista. Gli appartenenti infatti a questa e simili confessioni sono prevalentemente operai e contadini, come si può ricavare dalla stessa stampa sovietica, specialmente quella locale e quella specializzata (le riviste antireligiose, ecc.); un dato che emerge frequentemente è che essi sono i lavoratori più stimati dai dirigenti poiché lavorano con diligenza e rifuggono dal fumo, dall’alcool e dall’assenteismo. I pentecostali nell’URSS sarebbero circa duecentomila. Questa denominazione è sorta a Los Angeles alla fine del secolo scorso e in Russia fu introdotta dopo la rivoluzione dal predicatore russo-americano Ivàn Voronàiev, il quale riuscì a trovare parecchi nuovi adepti finché non fu arrestato: morì nel cortile di una prigione sbranato dai cani (ai familiari si disse che era stato ucciso in un tentativo di fuga).
I pentecostali sono confessione non registrata, quindi non hanno luoghi di culto e devono tenere in abitazioni private le loro assemblee liturgiche, che assai spesso la polizia disperde con idranti e lacrimogeni; gli organizzatori rischiano la condanna per pratica di culti illegali. A causa perciò delle intense persecuzioni (si ricordano quelle del 1939, quella di Cerniakhòvsk nel 1961 e altre più recenti) la maggior parte dei pentecostali ha deciso di emigrare rivolgendo domanda di espatrio all’autorità competente (l’Ufficio visti e registrazioni); ricevendone rifiuti la comunità di Nakhòdka, una delle più importanti, scelse appunto quale suo portavoce Bressendèn, mandandolo a Mosca perché esponesse il problema a Sacharov, il quale immediatamente informò i rappresentanti della stampa straniera a Mosca della situazione dei pentecostali. Questo gesto infastidì a tal punto le autorità sovietiche che Bressendèn e i suoi familiari ottennero subito il visto e anche altri pentecostali hanno potuto lasciare l’URSS: si spera che il flusso possa continuare anche a causa delle pressioni dei loro correligionari statunitensi sul Congresso degli USA.
Per gli ortodossi ha parlato Anatòlii Levitin-Krassnòv, un laico noto per la battaglia che ha sempre condotto a favore dei diritti umani e civili, che è stato nel 1968 tra i quindici fondatori del Gruppo d’iniziativa per la difesa dei diritti civili e ha partecipato alle dimostrazioni che regolarmente si tengono sulla Piazza Pùshkin ad ogni anniversario della Costituzione e che hanno preso l’avvio nel 1967 dal processo a Siniàvskij e Daniél’. Come nel caso della Chiesa battista, anche la gerarchia ortodossa è spesso accusata da parte dei fedeli di connivenza col regime, e anche in ambito ortodosso si sono avuti fenomeni scismatici, rimasti però minoritari. E’ il caso dei tikhonovtzy (dal nome del metropolita Tikhon che a suo tempo aveva scomunicato il potere sovietico), che si definiscono i “veri cristiani ortodossi” e accusano la Chiesa ortodossa di avere stretto un patto con il demonio. I tikhonovtzy ovviamente non sono registrati e molti di loro sono stati incarcerati; per esempio il monaco M. Ersciòv, morto dopo una trentina d’anni di reclusione, e il suo collaboratore Kalinin, anch’egli monaco.
Per quanto concerne l’Ortodossia riconosciuta bisogna dire che la pressione su di essa esercitata non è così grave come sulle confessioni protestanti, tuttavia è necessaria una distinzione: un operaio o contadino che frequenti la chiesa può essere ammonito pubblicamente, ma non gli succederà nient’altro (a meno che le sue convinzioni religiose non lo inducano anche ad un impegno civile); se invece ad essere credente è un insegnante, usato quindi dal regime per i propri scopi ideologici, o comunque un intellettuale, il minimo che gli possa capitare è il licenziamento.
Numerosi credenti ortodossi sono stati imprigionati, ma soprattutto a motivo del dissenso nei confronti del potere sovietico.
Ricordiamo tra gli altri Andréi Tverdokhlèbov, un convertito, condannato a quattro anni di confino in Iakùtiia (Siberia) per la sua lotta in favore dei diritti civili; Igor Ogurtzòv, il quale fondò nel 1964 a Leningrado un gruppo politico clandestino denominato “Unione socialcristiana panrussa per la liberazione del popolo”, che fu presto scoperto: Ogurtzòv fu arrestato con gli altri componenti nel 1967 e condannato a quindici anni di reclusione, di cui cinque da scontarsi nella prigione di Vladimir e i rimanenti in campi di lavoro correzionale a regime speciale; o ancora G. Superfin, condannato per aver fatto pervenire in Occidente i diari di Eduàrd Kusnetzòv, diari che sono una delle migliori testimonianze sui lager odierni (Kusnetzòv è una delle persone implicate in un tentativo di dirottamento aereo, fallito, da Leningrado alla Svezia).
Tuttavia alcuni ortodossi vengono imprigionati anche per motivi strettamente religiosi: per esempio il padre Boris Solivàkov che, già condannato a dieci anni per attraversamento clandestino della frontiera tra URSS e Cecoslovacchia, è stato condannato a scontarne altri tre nella prigione di Vladimir (vicino a Mosca), la più famigerata delle prigioni sovietiche, perché diceva messa nel lager; anche Superfin fu trasferito dal lager a Vladimir perché trovato in possesso di una Bibbia. Nel caso di padre Solivàkov la motivazione ufficiale dell’inasprimento della pena è stato l’aver svolto attività antisovietica sotto il pretesto delle funzioni religiose. Come si può vedere anche nel caso degli ortodossi succede che motivi strettamente religiosi possono essere causa di repressione.
Al Tribunale Sacharov si è parlato tra l’altro anche della situazione dei cattolici lituani, sulla quale si è informati dalla rivista clandestina, ora ciclostilata ora dattiloscritta, intitolata “Cronaca della Chiesa Cattolica in Lituania”, che esce dal 1973. Una lunga serie di arresti si è avuta per insegnamento del catechismo da parte di sacerdoti a minorenni (il che in URSS è vietato), e si sono avuti casi anche di laici arrestati sotto quell’accusa: è da notare il fatto che dopo ogni arresto i genitori hanno trovato il modo di protestare collettivamente dichiarando di aver dato il loro consenso all’insegnamento del catechismo. Il cattolicesimo in Lituania è fortemente radicato nella storia e nel popolo, analogamente forse alla situazione in Polonia, con la differenza di una repressione molto più dura. Anche in Lituania si assiste alla connivenza di una parte della gerarchia con il regime, spesso denunciata dalla “Cronaca”. La Chiesa cattolica è riconosciuta, quindi c’è possibilità di celebrare il culto con gli stessi limiti di cui si è detto a proposito della Chiesa ortodossa per quanto concerne gli intellettuali. Il divieto di insegnamento del catechismo, valido ovviamente per tutte le Chiese, è però più frequentemente violato presso i cattolici lituani. Rispetto alla situazione della Chiesa ortodossa, si può dire che qui c’è maggiore resistenza da parte dei fedeli.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 17.2.1977 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.