La Compagnia Teatrale Scena Sintetica Scena Sintetica, in collaborazione con la Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura, ha presentato lo spettacolo “Tra la notte e l’alba è un velo”, riduzione del dramma “La festa dell’8 dicembre” di Mario Apollonio per la regia di Antonio Fuso nella Chiesa del Carmine nei giorni 19, 20 e 21 maggio 1988 alle ore 21. Visto il grande successo di pubblico, la sacra rappresentazione è stata replicata anche il 26 e il 27 maggio e, nella chiesa dei Miracoli, il 31 maggio, 1 e 2 giugno.
Apollonio, Mario. – Nacque ad Oriano (Brescia) il 28 sett. 1901 da Artemio ed Elodia Vimercati. Studiò al liceo “Arnaldo da Brescia” in questa città, e qui frequentò il gruppo confraternale e culturale dell’Oratorio della pace (l’esperienza fu decisiva per la sua scelta spirituale cattolica), animato da un giovane sacerdote proveniente dall’università di Lovanio, G. Bevilacqua, il quale fece conoscere al gruppo gli autori della corrente cattolica francese: C. Péguy, P. Claudel, P. Bourget, J. Maritain. Nel 1919 si iscrisse alla facoltà di lettere dell’università di Pavia, divenendo convittore del collegio “Ghislieri”. Si laureò nel 1923, relatore I. Sanesi, con la tesi “Indagini sulla commedia dell’arte”, in cui affrontava e sviluppava il tema che avrebbe costituito il nucleo centrale del suo primo breve saggio Per una storia dei comici dell’arte (in Rivista d’Italia [1927], pp. 432-455), e soprattutto di quella Storia della commedia dell’arte (Roma-Milano 1930) che, se non costituì il suo esordio (nel 1928 era uscita a Milano la Vita di U. Foscolo), restò tuttavia tra i fondamenti della sua futura attività critica e rappresentò un approccio all’argomento originale e, all’epoca, variamente discusso e commentato. Nel 1926 aveva vinto la cattedra di materie letterarie nei licei ed era stato destinato a Varese. Mantenne però la residenza a Milano e l’anno successivo, dal febbraio, cominciò ad esercitare la critica teatrale sulle pagine del quotidiano cattolico milanese L’Italia, mantenendo l’incarico fino al 1930, quando abbandonò il campo della critica militante. Dal 1936 al 1939 tenne la cattedra di letteratura italiana presso l’università di Oslo; dal 1938 al 1944 fu incaricato per la medesima materia ad Urbino; nel 1939 iniziò anche la sua collaborazione con la Cattolica di Milano presso la quale divenne ordinario, sempre di letteratura italiana, nel 1942, operando questa scelta anche per difendersi dall’invadenza politica del regime fascista. Negli anni a venire avrebbe tenuto presso la medesima università gli incarichi di storia del teatro (dal 1954 al 1967) e di filologia dantesca (dal 1966 al ’68). Fu tra gli animatori dell’Uomo, il giornale clandestino sorto nel settembre ’43 nell’ambito della Cattolica, che da Milano si diramò nelle principali città dell’Alta Italia, di cui poi l’A. fu direttore insieme con G. Bontadini e D. Del Bo. quando il periodico uscì dalla clandestinità (8 sett. 1945-1º sett. 1956). Fu quindi nel dopoguerra figura di rilievo dell’area culturale cattolica, soprattutto attraverso il suo magistero all’università del Sacro Cuore di Milano che abbandonò solo poco prima della morte. L’A. morì improvvisamente a Galliate Lombardo (Varese) il 28 giugno 1971. Nel 1926 aveva sposato Lina Ferro da cui ebbe la figlia Carla.
L’attività dell’A. fu molteplice: l’impegno accademico si accompagnò a quello di saggista e critico letterario notevolmente prolifico (oltre cinquanta opere in volume, una ventina di introduzioni e commenti a testi, oltre duecento fra articoli e saggi di contributo a volumi e riviste); fu giornalista e narratore (scrisse sei romanzi pubblicati dal 1934 al 1970), lavorò in ambito teatrale anche come regista (fu tra i fondatori a Milano del Piccolo Teatro e del S. Babila) e compose testi drammatici (venticinque opere nel periodo dal 1927 al 1968). Quale critico l’A. ha lasciato una bibliografia saggistica assai ampia, dedicata a svariati soggetti, dimostrandosi, fin dai suoi esordi, distante dalla critica crociana e più sensibile invece ad altre influenze, dal magistero di Serra all'”umanesimo integrale” di Maritain. Il teatro fu senz’altro uno dei terreni di lavoro cui si dedicò con maggior interesse e passione: se nella ricordata Storia della commedia dell’arte già compaiono alcune delle coordinate teoriche che caratterizzeranno la sua critica teatrale futura, in particolare relativamente al “processo per cui l’intuizione del drammaturgo si attua nel coro della folla spettatrice”, è con L’opera di Carlo Goldoni (Milano 1932) che queste vanno meglio precisandosi. In essa il critico, a fondamento della ricerca, riprende e sviluppa con maggior chiarezza teorica due temi: l’estetica “corale”, appunto legata alla sua concezione del teatro come rapporto che ha il suo momento più alto nella partecipazione attiva di un pubblico il quale, lungi dal limitarsi ad assistere, assurge al ruolo di interlocutore-artefice; e la sua visione ontologica dell’arte in quanto espressione di forme assolute, per cui il rapporto tra autore chepropone e “coro” che risponde “ha valore non per la sede in cui s’avverò, ma per la potenza della verità spirituale espressa”. Il concetto di “coralità” del teatro si ritroverà nelle altre opere sulla drammaturgia; sarà ribadito nella Storia del teatro italiano (Firenze, I, 1938; II, 1940; III, 1946; IV, 1950; 2ª ediz., ibid. 1954), ed esemplificato praticamente nei testi teatrali dell’A. concepiti in obbedienza alla definizione di drammaturgia come “luogo dove si dispongono e si precorrono le partecipazioni attive”.
Altro momento basilare della riflessione critica dell’A. è quello metodologico; in Critica ed esegesi (Firenze 1947), egli raccoglie i suoi scritti di metodo e propone una definizione più accurata dei concetti di filologia, critica ed esegesi, quest’ultimo in particolare è inteso come il termine definitivo della lettura, operazione che “riassume ed oltrepassa la storia verso il segreto della poesia”, individuando infine e sviluppando, in quanto “esegesi perenne”, i valori significanti dell’opera d’arte del passato in rapporto alle generazioni presenti. Il concetto di esegesi verrà ripreso in Ontologia dell’arte (Brescia 1961), testo di ulteriore approfondimento metodologico, in quanto tentativo di fondazione metafisica del problema estetico, basato sul concetto di arte come “ritrovamento” (inventio) dell’immagine di Dio. Fra queste due opere fondamentali del suo pensiero critico, l’A. pubblicò, a significare la progressiva maturazione delle sue istanze metodologiche, numerosi testi di storia letteraria. Particolarmente importanti i lavori di critica dantesca; Dante è una presenza costante nella produzione dell’A. e – come è stato sottolineato da A. Vallone – per comprendere il rapporto fra l’opera dantesca e l’A., possono essere utilizzate due diverse indicazioni critiche, in quanto Dante è contemporaneamente il “centro attivo e propulsore di tutta la produzione del critico” e insieme una continua “occasione di incontro o banco di prova … di accertamenti metodologici” (A. Vallone, Gli studi danteschi, in Otto–Novecento, p. 169). Accanto ai due più noti volumi Dante. Storia della Commedia (Milano, I, 1952; II, 1954; 2ª ediz., ibid. 1958) non vanno dimenticati altri contributi del medesimo indirizzo: Immagini dantesche nella poesia romantica (ibid. 1947); Il canto XIV dell’Inferno (Firenze 1961); Immagini dantesche nelle arti (in Temi danteschi ad Orvieto, Milano 1965). Ricordiamo quindi innanzitutto le Fondazioni della cultura italiana moderna. Storia letteraria dell’Ottocento, opera divisa in tre volumi (Vita dei poeti, Firenze 1948; Mediazione dell’intelligenza, ibid. 1952; Miti del popolo nuovo, ibid. 1961), che fu una delle più care al critico il quale con essa disegnava una storia letteraria dell’Ottocento, dal protoromanticismo alfieriano al decadentismo, visto come momento discendente della parabola romantica. Poi la Storia della letteratura italiana (Brescia 1954). concepita non come un manuale nozionistico, ma come strumento di esegesi e storia di “presenze”, dove la concezione della storiografia letteraria appare sempre più incentrata “sul drammatico, misterioso rapporto fra l’uno e i molti, fra il divenire e l’essere, fra la Storia e Dio” (Frattini); l’A. vi prospettava inoltre un nuovo periodizzamento della letteratura italiana, successivamente ripreso (La letteratura dell’età barocca, Torino 1960; Studi sul periodizzamento della storiografia letteraria, Milano 1968), nelle tre età di “medioevo e umanesimo”, “rinascimento ed età barocca” ed “età romantica”. Se dalla sintesi era estromesso il Novecento, ad esso era dedicata la Letteratura dei contemporanei (Brescia 1956; rist. nel 1969 col titolo I contemporanei, con un’appendice sulla cultura di massa), storia degli autori e delle forme letterarie. Vanno altresì menzionate le monografie su autori italiani (oltre alla già citata Vita del Foscolo, Metastasio, Milano 1930; Alfieri, ibid. 1930; Bacchelli, Padova 1943; Papini, ibid. 1944; Ermetismo, ibid. 1945; Sacchetti, Milano 1963; Olivelli, Roma 1966) e stranieri, a esemplificazione di una indubbia vocazione europea dell’A. (Shakespeare, Brescia 1941, Molière, ibid. 1942; Ibsen, ibid. 1944; Defoe, ibid. 1946). L’A. professò anche un’intensa attività giornalistica fin dalla fondazione, in età giovanile, del Tropario, mensile per il rinnovamento del teatro cattolico (dicembre 1929-luglio 1930); negli anni Trenta, oltre alla già citata collaborazione all’Italia, scrisse su diversi fogli letterari e artistici: Cronache latine e Giovedì (con lo pseudonimo di Tartaglia), mentre nel dopoguerra dette il suo contributo ad iniziative quali Cronache sociali di Dossetti e Democrazia di P. Malvestiti. Collaborò inoltre a quotidiani e periodici da IlQuotidiano e Il Popolo di Roma a L’Avvenire d’Italia di Bologna, il Giornale di Brescia, La Provincia pavese, il Giornale del popolo di Lugano e La Sicilia del popolo. Fondò Drammaturgia (pubblicata dal 1954 al 1959) e, interrotto dalla morte, lavorava al progetto di un nuovo periodico, successivamente attuato con la rivista Otto–Novecento, diretta da U. Colombo.
L’A. fu fra gli intellettuali italiani più sensibili alle profonde novità inerenti all’avvento dei mezzi di comunicazione di massa (fu egli stesso autore di molti radiodrammi) e alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie; fondò così e diresse dal ’56 la Scuola di giornalismo e mezzi audiovisivi di Bergamo, che, trasferitasi a Milano, prese poi il nome di Scuola superiore delle comunicazioni sociali. Ultimo capitolo del lavoro dell’A. è infine quello di narratore. Questa sua esperienza (Il soldato e la zingara, Milano 1934; Intermezzo, ibid. 1936, Solstizio d’inverno, ibid. 1945; Battaglia di San Martino, Brescia 1957; Iraggi–pane, Milano 1966; Cinquantacinque, ibid. 1970) va considerata, come del resto l’opera teatrale, in rapporto ad una visione globale della sua attività ed è ad essa legata ed apparentata da molti segni. Scrittore lombardo, ma sensibile alle esperienze europee ed ai modelli delle grandi strutture narrative postromantiche, da Tolstoj a Mann, dotato di una scrittura sontuosa e traboccante, quasi aulica, l’A. percorre nei suoi romanzi una sorta di iter culturale che approda ad un ribadito impegno cristiano. Se è l’elemento storico a caratterizzare la prima opera, e l’introspezione e l’indagine spirituale le due successive, con la Battaglia di San Martino i due motivi trovano una profonda sintesi, concludendo la parabola iniziata nel 1934. Con l’ultima produzione narrativa, l’autore si apre invece al recupero della cultura contemporanea e soprattutto al tema dei mass media: nell’ultimo romanzo Cinquantacinque (il quale, nel titolo, celebra l’anno della diffusione della televisione in Italia), l’A. chiarisce il senso della sua proposta di un recupero, in epoca moderna, di valori umani, sociali e spirituali, fondata sulla necessità di fornire alla tecnica, appunto attraverso questi valori, uno sbocco positivo, valido per una società in evoluzione. (www.treccani.it – 2019)