Placida notte, e verecondo raggio
Della cadente luna; e tu che spunti
Fra la tacita selva in su la rupe,
Nunzio del giorno; oh dilettose e care
Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato,
Sembianze agli occhi miei; già non arride
Spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l’insueto allor gaudio ravviva
Quando per l’etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso de’ Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove a noi sul capo,
Tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta
Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell’onda.
Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
Infinita beltà parte nessuna
Alla misera Saffo i numi e l’empia
Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
Vile, o natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante, alle vezzose
Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo. A me non ride
L’aprico margo, e dall’eterea porta
Il mattutino albor; me non il canto
De’ colorati augelli, e non de’ faggi
Il murmure saluta: e dove all’ombra
Degl’inchinati salici dispiega
Candido rivo il puro seno, al mio
Lubrico piè le flessuose linfe
Disdegnando sottragge,
E preme in fuga l’odorate spiagge.
Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
Di misfatto è la vita, onde poi scemo
Di giovinezza, e disfiorato, al fuso
Dell’indomita Parca si volvesse
Il ferrigno mio stame? Incaute voci
Spande il tuo labbro: i destinati eventi
Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De’ celesti si posa. Oh cure, oh speme
De’ più verd’anni! Alle sembienze il Padre,
Alle amene sembianze eterno regno
Diè nelle genti; e per virili imprese,
Per dotta lira o canto,
Virtù non luce in disadorno ammanto.
Morremo. Il velo indegno a terra sparto,
Rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
E il crudo fallo emenderà del cieco
Dispensator de’ casi. E tu cui lungo
Amore indarno, e lunga fede, e vano
D’implacato desio furor mi strinse,
Vivi felice, se felice in terra
Visse nato mortal. Me non asperse
Del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perir gl’inganni e il sogno
Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
Giorno di nostra età primo s’invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
Della gelida morte. Ecco di tante
Sperate palme e dilettosi errori,
Il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno
Han la tenaria Diva,
E l’atra notte, e la silente riva.
1. “Ecco il fine di tutte le mie speranze de’ miei voti e degl’infiniti miei desideri (dice Verter moribondo e ti può servire pel fine)”. Questa citazione è dagli appunti leopardiani per una narrazione autobiografica, i cosiddetti Ricordi d’infanzia e di adolescenza del 1819. Anche l’Ortis foscoliano vi è più di una volta ricordato: altro romanzo dell’io, come il Werther goethiano, altra narrazione “tragica”. Le parole citate dal Werther (Verter nella versione tardo-settecentesca di Michiel Salom, cui guardava anche il Foscolo dell’Ortis) sono a loro volta quelle di un monologo tragico alla sua conclusione: quando, dice il protagonista qualche pagina prima, vicina la tomba, “tutto si fa più chiaro”.
Non c’è poi stato un romanzo autobiografico leopardiano, se non nella sua “sublimazione” lirica, nei Canti. E non c’è stato un finale per questi Ricordi. Ma Leopardi è rimasto sempre attento alla forma o al “modo” del monologo: nei Canti, almeno dal Bruto minore ad A se stesso. Anche in quei monologhi poetici che sono il Bruto (dicembre 1821) e l’Ultimo canto di Saffo, maggio’22 – entrambi a stampa la prima volta nelle Canzoni, 1824 – si tratta di dare voce alle “parole estreme”, le più affacciate sul silenzio ultimo, agli accenti del “tutto si fa più chiaro”. Quelli pronunciati dall”‘ultima soglia”.
Così, questo appunto wertheriano destinato a una prosa autobiografica è una spora che si aprirà comunque altrove. Nel Bruto minore è il protagonista che, moribondo – come dice anche per Werther Leopardi – e “fermo già di morire”, affida infine all’aura – meno ancora del vento – il suo messaggio di imprecazione e di rifiuto. Resti ignota la spoglia, “e l’aura il nome e la memoria accoglia”. Siamo al finale del Bruto. In questa réverie di annullamento – dell’eroe solo, in conflitto con i tempi e la storia che precipitano al peggio (Bruto minore, 112-113) – è anche Jacopo Ortis, nelle sue – appunto – ultime lettere, e non a caso quando è alle “parole estreme” per eccellenza, quelle del testamento affidato a Lorenzo: “…ch’io sia sepolto (…) di notte, senza lapide…”. Ma è ai versi estremi dell’Ultimo canto di Saffo, canzone speculare al Bruto e altro canto di immedesimazione dell’io con un personaggio monologante, che spettano le più dirette sollecitazioni del passo del Verter ricordato negli appunti autobiografici. Leggiamo la chiusa della Saffo: “Ecco di tante / sperate palme e dilettosi errori,/ il Tartaro m’avanza…”. E Verter “Ecco il fine di tutte le mie speranze…”.
Se nel Verter l’addio è a “tutte le mie speranze” e agli “infiniti miei desideri“, nell’Ultimo canto di Saffo c’è appunto un addio alle “sperate palme” e ai “dilettosi errori”. Ancora fra le sue letture di romanzi Leopardi poteva trovare, nella Corinne ou l’Italie di M.me de Staël, la figura della giovane (ma qui anche bella) poetessa, moderna ma dal nome antico, appunto Corinna, al suo “dernier chant”. Più in generale c’è un gruppo di romanzi, tutti segnati dal Werther – ricordiamo, con l’Ortis, le due prove narrative di M.me de Staël, Delphine e appunto Corinne – cui guarda questo Leopardi. L’impressione è che già contino per lui come un modo abbastanza individuato del romanzo nuovo, moderno: un modo spesso epistolare, prevalentemente monologante, sempre a fine tragica, anzi sempre col protagonista suicida. Ma oltre al modo, interessa a Leopardi la sostanza strutturale di questo modo del romanzo: in questi romanzi la prima modernità europea inscena la condizione non solo dell’eroe ma dell’eroina in conflitto con la società, in difficoltà con la natura e col mondo.
Qui ci viene opportuno un giudizio cointeressato sul Werther, quello di M.me de Staël alla vigilia di Delphine (1802) e di Corinne (1807): in De la littérature la Staël vedeva già Werther come l'”homme vertueux” su cui pesano da un lato “les peines de la nature”, dall’altro e ancora di più “l’organisation entière de la société”. “Il faut – aggiungeva – que la société jette ses poisons dans la blessure…, pour que la mort devienne un besoin”. E’ possibile che il trio Werther – Delphine – Corinne si presentasse in una simile prospettiva anche a Leopardi. Certo a noi Werther può bene non apparire come l'”homme vertueux” di cui parla M.me de Staël. Ora per esempio Baioni vi vede anzi l’eroe di una borghesia che per la prima volta si svela a se stessa come segnata dalle “colpe” che solo una generazione prima – col romanzo sentimentale – la borghesia attribuiva invece e solo alla classe aristocratica corrotta e libertina.
Leopardi comunque non può avere occhi per questa dinamica e polemica sociale, sì invece Goethe. Quanto alla Staël, almeno con la sua virtuosa, sensibile e infine infelice vittima Corinna (vittima dell’inadeguatezza maschile), ripropone il conflitto dell’eroe con quanto lo circonda, però lo intinge insieme di attenzione al diverso femminile e alle diversità nazionali (l’amante della romana Corinna è un lord inglese). Ma quanto c’è, più in assoluto, di ribellione, di conflitto, o anche solo di dolorosa separazione dal mondo nel Werther, questo sì è rapidamente “catturato” da Leopardi tra Bruto e Saffo. Del resto il romanzo giovanile goethiano si collocava a un discrimine epocale affine a quello in cui si colloca, ma più dentro la propria esperienza esistenzial-culturale, questo Leopardi. Come il suo Bruto – vedi quanto ne dice chiudendo la Comparazione delle sentenze di Teofrasto e di Bruto vicini a morte, marzo 1822 – e come la sua Saffo, questo Leopardi dà infatti l’addio alla sua ingenuità antica, dove l’illusione tiene ancora tutto insieme, e l’io con quel tutto. E si incammina sulla deserta ma inevitabile strada del vero moderno, nella “vecchiezza del mondo”. In maniera abbastanza simile col Werther (si veda ancora come lo legge Baioni), è accusata in pieno la caduta di quello che il divino garantiva invece al romanzo borghese settecentesco, cioè l’alleanza di virtù e bellezza (cfr. invece Saffo), di virtù e felicità (cfr. invece Bruto). Un’alleanza che proprio il Werther mostra in crisi irreversibile, insieme al mito di intattezza borghese che essa sottintende.
In questo modo entravano in pieno nel romanzo – accompagnando l’eroe solo, in conflitto con tutti, votato al suicidio l’eros, la noia, la malinconia. Di questo appunto si impadronisce il Leopardi poeta. E così, o anche così, entra a sua volta nella prima poesia moderna europea. Lo fa dunque rivolgendosi in modo non occasionale alla prosa, qui a quella romanzesca: e così fa onore a uno dei suoi primi appunti dello Zibaldone, sulla poesia che per nutrirsi ha appunto bisogno della prosa.
L’attenzione all’orizzonte di lettura e autoidentificazione romanzesca entro cui si muoveva questo Leopardi non deve però farei dimenticare che “il fondamento”, come lui stesso lo chiama, della canzone lo trovava più lontano, nel mondo classico; lo spunto fondamentale gli veniva dal versante a sua volta romanzesco di quel mondo, dalle Heroides di Ovidio, XIV, Sappho Paoni. In genere ci si interessa a questa epistola in distici elegiaci di Saffo al lontano e dimentico Faone solo per rilevare le differenze rispetto alla Saffo leopardiana. Ma per esempio i versi da lei dedicati, col tu vocativo, a Faone, al suo “lungo/amore” per lui e al furore “d’implacato desio”, 58-60, sono un’intensa eco dell’invocazione più diffusamente erotica dell’eroina ovidiana. E comunque dell’epistola ovidiana faremo un conto diverso se, oltre che interrogarci su certi possibili contatti di tipo, vedremo, retorico-stilistico e ritmicosintattico con l’Ultimo canto di Saffo, non trascureremo il fatto che si tratti anche per l’epistula ovidiana di un “ultimo canto” elegiaco (“elegi (…) flebile carmen”): un canto di lutto, in attesa che Leopardi – che nella dedica del Mai al Trissino chiama le sue canzoni “versi funebri” – colmi di significato esistenziale-storico, da “poesia sentimentale”, del vero, l’antica elegia.
Ricordiamo qui di passata che anche la famosa lettera del 1832 a Louis De Sinner è per il suo autore una specie di ultimo canto: la scrive, dice, “avant de mourir”, ed è una agonistica lettera testamentaria, dove infine ci si richiama proprio al messaggio contenuto nel Bruto minore.
Certo occorrerà distinguere: dietro monologhi come il Bruto minore c’è sì, per esempio, tra i moderni, la lettura ancora della Corinne molto postillata nello Zibaldone, ma è soprattutto avvertibile il monologo tragico. Non è un caso che alle spalle degli “inesorandi/numi” accusati da Bruto si profili “l’inesorabil Dio” con cui chiude la sua lotta col divino il Saul di Alfieri, anche lui vicino a morire…
Dietro la Saffo c’è anzitutto, invece, una lunga linea epistolare-romanzesca; le lontane voci monologanti delle Heroides – tra invocazione, interrogazione, memoria, accento luttuoso – crescono in drammaticità introspettiva e consapevolezza extra-personale nella fitta mediazione settecentesca e primoottocentesca, fino a questa Saffo leopardiana.
Ma in quell’alba della ricezione e rimodulazione italiana del primo romanzo moderno, quest’ultimo, nella sua specie monologico-tragica – dunque ben diversa da quella manzoniana – doveva essere sentito più vicino di quanto a noi non sembri alla stessa forma tragica e quindi autorizzato da questa. Certo è che già tenendo presenti per il Bruto e la Saffo queste “grandi forme” non ci riuscirà tanto pacifica la lettura, predominante nel nostro secolo, dei Canti in chiave di lirica pura.
2. Intanto era proprio il Bruto minore a proporsi come un luogo di inaugurazione della poesia moderna. E questo mentre cresceva da qualche anno sempre più chiaramente l’idea che la via difficile alla poesia nella modernità non poteva che darsi in contrasto con quella degli antichi: immaginativa la poesia antica, sentimentale quella moderna. Si trattava appunto di un’opposizione decisiva per la coscienza stessa della nascita della poesia moderna. Si pensi all’opposizione di Schiller di un po’ più di vent’anni prima, quella, molto simile, fra “naive Dichtung” e “sentimentalische Dichtung”. La poesia moderna non si fonda dunque più sull’immaginazione e sull’ingenuità antica, e invece “sgorga – annota Leopardi – dalla filosofia, dall’esperienza, dalla cognizione dell’uomo e delle cose, insomma dal vero” (Zibaldone, pp. 734-35, marzo 1821). Basta leggere la canzone Ad Angelo Mai, 1820, e Leopardi ci appare come un avversario armato del moderno. Ma contemporaneamente, se la poesia moderna si annuncia, in quel torno di tempo e non molto prima, come di recente ci ha ricordato Mengaldo, tra lo stesso Goethe, Hölderlin e Leopardi, nella percezione del tutto consapevole e drammatica che l’io è ormai separato dal divino, è esiliato dalla pienezza e intanto va separandosi da una società storicamente decaduta, il Bruto è una delle fondamentali carte di nascita della poesia moderna in Europa. E’ uno dei “grandi racconti” agonistici della nascita o, per dirla con Lyotard, dell’emancipazione del moderno. Pronunciato come accusa, profezia, bestemmia, dentro un dialogo impossibile, e frustrato, perché dei, fato, stelle, luna, inferi non ascoltano: e perciò il dialogo è un monologo.
Saffo è a sua volta incaricata, pochi mesi dopo, di un’altra – diversa e complementare – raffigurazione dell’io separato. Nel Bruto, potremmo dire, “les malheurs de la vertu”. Nella Saffo, annota Leopardi stesso sull’autografo, anche se riduttivamente, “la disgrazia della bruttezza”. La separazione è per Saffo, ancora prima che dagli dei e dal destino e dalle loro ragioni (di fronte alle quali a un certo punto lei si arresta), dalla natura. La quale è indifferente anche nel Bruto; ma solo a un personaggio femminile poteva affidarsi, subito dopo comunque l’ode Alla Primavera (gennaio 1822), tanto pathos della separazione e della sua stessa arcana inspiegabilità. Tanto più che il personaggio arriva da lontano, da un mondo pre-meccanicistico, per il quale tanto più può valere il mito, difeso a lungo da Leopardi, della natura come appunto compiutezza femminile, come altrice (nei Patriarchi), come sacra madre (Alla Primavera) e, come in Parini, “madre amante”. Nella Ginestra ironizzerà ferocemente questo mito dell’amante natura (“vegga quanto/ è il gener nostro in cura/ dell’amante natura”, 39-41, per chiamarla poi, rovesciando, “empia natura”, 148). Qui intanto Saffo chiama se stessa “dispregiata amante” di una natura che, nota Blasucci, lei erotizza: dunque la individualizza come una persona che, amata, si nega. Saffo sta educandosi al vero dell’inganno “naturale”, e intanto possono così assomigliarsi, nel canto, l’individua esclusione dall’amore di Faone e quella ben più ampia dalla bella natura, dall’idillio naturale.
Tutto questo intanto si affidava a un altro monologo, ancora a un canto ultimo e questa volta anzi già tale nel titolo della canzone. Anche questo pronunciato nella notte, ma quando la notte è, come poi nel Tramonto della luna, nel dilucolo (vedi il commento di Bandini), cioè nel passaggio buio, di totale assenza, dal regno della luna a quello del sole. Bruto comincia a parlare nel buio di una inquieta notte illune, e poi mentre parla ecco sorgere sui campi della strage la luna. Saffo avvia il canto in una notte di placida luce lunare, poco prima che la luna tramonti, e intanto nel cielo spunta Venere. Spunta proprio la dea che a Saffo si nega, mentre la luna-Diana si allontana (e assente è anche il dio maschile, solare): “Placida notte, e verecondo raggio/ della cadente luna; e tu che spunti/ tra la tacita selva, in su la rupe,/ nunzio del giorno…”. Sapeva bene anche il Pascoli di Solon che Sapfò vale in greco la luminosa, clara; Saffo è questo stesso ultimo raggio di luce che cade. Alla fine del canto, la notte sarà atra, nera, il silenzio sarà quello dello Stige, la dea unica sarà Proserpina sotterranea (come dice una variante).
3. Così anche noi, come a molti lettori a partire da De Sanctis, per parlare di Saffo è risultato inevitabile parlare di Bruto. D’altra parte una linea di interpreti della Saffo, fino a Blasucci, non ha trascurato di guardare poi all’uso in particolare dei pronomi, in questa canzone. Lo faremo anche noi, ma chiamando di nuovo in causa il Bruto minore, come invece non si usa in questo caso. Bruto è proiettato fuori dal proprio sé e dunque i suoi più importanti punti di riferimento sono soprattutto o in terza persona (“Preme il destino invitto…” …”Spiace agli Dei” il suicida… ecc.), o c’è il voi sia per gli dei avversi, sia per gli infelici figli di Prometeo – “A voi (…) figli di Prometeo…” -; l’io spunta in fondo, ma per dire quello che non farà: “non io” invocherò gli dei o la terra o la notte, né spererò nei posteri…
La Saffo è da subito, invece, costruita sull’io; però non lo espone, l’io, e anzi lo sposta al mi indiretto e al possessivo (“occhi miei”, 6), o lo dice con molti noi che all’avvio, per ora, sono univoci, sono del tipo antico, maiestatico, vedi per esempio v. 8, “Noi l’insueto allor gaudio ravviva…”. Nella seconda stanza, o lassa, compare soprattutto il pronome di prima persona, ma non come soggetto: dopo un “A me non ride l’aprico margo”, 27-28, ecco infatti “me non il canto…”, 29. E poi, 62, “Me non asperse”. Affine in parte, visto il contesto (ai “disperati affetti” non può sorridere ciò che appaia composto e sereno) è la serie di negazioni che affiorano nella prima parte della epistula ovidiana di Saffo: “Non facit ad lacrimas barbitos (= lira) ulla meas (…) nec mihi, dispositis quae iungam carmina nervis,/ proveniunt”, 8, 13-14; e poi, subito, nec me…, 15, nec me….16.
Per tornare alla Saffo leopardiana, l’oscillazione tra noi e me, entrambi riferiti, da prima a seconda lassa, a chi canta, a Saffo, prepara l’uso non univoco di noi/ nostro in tre grandi momenti della seconda parte del canto, dove Leopardi tanto più può giocare su quella che è poi – ma i commenti spesso non lo sanno – una risorsa inesauribile della poesia, sull’ambiguità, su modi – vedi per es. Zib., dicembre 1821, pp. 2288-89 – “indefiniti di significazione” di cui è ricco il greco come lo è il latino di Virgilio.
Si pensi al “Nascemmo al pianto” del verso 48. Certo può leggersi come maiestatico, per un “io nacqui al pianto”, ma non solo come tale. E invece a questa lettura univoca tendono in genere i commenti. Ma c’è proprio da credere che le cose non stiano così. L’alternanza noi / me (io) delle due lasse iniziali ha preparato strada facendo, per questo “(noi) nascemmo…”, un’ambiguità, una oscillazione semantica che è poi ricchezza di senso, con grande capacità comprensiva e intellettiva. Saffo sta parlando a se stessa: il riferimento si muove con ambiguità “ricca” tra l’io singolo, il duale (io Saffo parlo a te Saffo) e tutti noi, tutti nati al pianto. L’intertesto può confermare quanto sia ambigua e “comprensiva” la semantica di “Nascemmo al pianto”: nella Sera del dì di festa (1820) il pianto è dell’io (“d’altro / non brillin gli occhi tuoi se non di pianto”, 16-17, sostanzialmente tale già in edizione ’26); nel Sogno (1820 o’21) c’è un “Nascemmo al pianto” che è detto per due, un lui e una lei, v. 55; invece nell’Inno ai Patriarchi (luglio 1822) il “nascere al pianto”, v. 7, è condotto a “legge del cielo”, v. 11, cioè per tutti.
Intanto ecco, a precedere immediatamente quel “Nascemmo…”: “Arcano è tutto,/ fuor che il nostro dolor”, che è il primo caso, affidato al possessivo di prima persona plurale, in cui appare questa ambiguità “ricca” fra il riferimento all’io e quello a tutti noi. E così è per l’altro, ormai finale momento gnomico della canzone, 65-66: “Ogni più lieto / giorno di nostra età primo s’invola”. Il nostra è anche, sì, un mia. Ma pure qui si gioca sul significato anche per tutti di una tale sentenza.
Saffo d’altra parte non è una ragazzetta ignorante, è una figura di giovane maturata dal dolore e colta: anche per questo l’ha cercata Leopardi. Diversamente dal voi di Bruto il suo noi / nostra giunge, ma non da subito e invece nel farsi del suo monologo, a contrassegnare insieme il suo bisogno di guardare dentro il proprio destino e a muovere da lì uno sguardo che può diventare anche lo sguardo alla sorte comune. Bruto non ha molto tempo per chinarsi su di sé, è occupato ad accusare, lacerare, profetizzare. Saffo conosce il volto torvo del cielo e della sorte, ma non lacera, anzi usa per sé, per la sua fine di giovane brutta e ricusata, il verbo emendare, v. 57. Una variante era ammendare (“ammenderà”): il verbo era così ancora più “al femminile”. Il destino di Saffo, di vittima non rassegnata quanto consapevole, rammenderà” per una volta, con la morte, una lacerazione, l’errore o gli errori del Caso: la sua fine “il crudo fallo emenderà del cieco/ Dispensator de’ casi”, 57-58. Sono ben diversi quel “Non io…” di Bruto e “A me non”, “me non”, di Saffo. Bruto è il soggetto di un’azione, tutta intesa a negare: è junghianamente “Animus”. A Saffo spetta invece il ruolo di “Anima” di Giacomo. E intanto i me non di Saffo la mostrano anzitutto come oggetto d’azione. La parte di Leopardi che si identifica con lei può esprimere, per la via femminile, la condizione – che al limite è peraltro di tutti – della persona ostaggio della sorte.
Questa condizione, si è appena detto, è, al limite, di tutti. Precisiamo: Saffo giunge a questa uscita dall’io verso tutti nello svolgersi stesso del suo canto-riflessione. Dapprima può pensare, come è appunto degli antichi secondo Leopardi, che la sventura sia solo sua e comunque – vedi Zibaldone, p. 88 – “non universale e (non) inevitabile”, come invece tende a diventare per i moderni. Poi, ecco i noi e nostro: dunque non è solo questione di una individua bruttezza, o di una individuale storia di amore non corrisposto. Il vero – la condizione moderna – cresce così pian piano dentro il canto e si fa canto.
In questa condizione di passaggio tra antico e moderno è lo stesso Bruto, anche se nel suo canto non è così ascoltabile lo svolgersi stesso di un’emozione-pensiero come per Saffo. Ma anche Bruto, come Saffo, appare sulla scena del mondo quando (vedi la già ricordata Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte), al morire dei “sogni e dei fantasmi che governarono i pensieri degli antichi”, è l’ora di apprendere – con la disgrazia, per lui, anzitutto della virtù – il vero. Sia Bruto sia Saffo sono le erme classiche che per conto di questo Leopardi si pongono al discrimine epocale tra antico e moderno. Partono da un sentire “all’antica”, ma fanno «poesia sentimentale”. E’ una suggestione in genere non messa a fuoco della Saffo che il suo canto ultimo si costruisca, con le sue stesse ambiguità di senso, su questo discrimine. E che tanto avvenga nel farsi stesso del canto.
Non basta. Saffo non solo si china su sé con le implicazioni che si sono dette, ma guarda ansiosamente indietro, al proprio passato. Già nell’edizione bolognese delle Canzoni, 1824: “Qual de la mente mia nefando errore/macchiommi anzi ‘l natale (…)? Qual ne la prima età (…)?” 37-44. Che poi diventa, fra edizione fiorentina dei Canti, 1831, ed edizione napoletana,’35: “Qual fallo mai (…)? in che peccai bambina (…)?”. Con Saffo entra così nella poesia delle Canzoni non solo il tempo che si fa sensibile per via dell’aprirsi, procedendo il canto dello stesso orizzonte noetico di Saffo, ma, dentro questo processo, il tempo che al soggetto arriva dal proprio passato più interno. Qui conta e molto l’esperienza di un poesia dell’io consegnata ormai agli Idilli. Ma questo è anche il risultato del fatto che Leopardi si muova con la Saffo entro referenze anche romanzesche. Il tempo è una sostanza che, nel suo impiego pieno, è sostanza, diceva il giovane Lukàcs, del romanzo. Qui siamo almeno all’avvio dell’interferenza del “narrativo” nella lirica moderna.
Intanto le domande stesse che Saffo si rivolge (già presenti nell’edizione ’24, ma più suggestive nell’edizione definitiva: “Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso/ macchiommi anzi il natale (…)? In che peccai bambina (…)?”) spingono il personaggio a un altro comportamento estraneo a Bruto: Saffo risponde infatti subito dopo a se stessa. Così, 44-46:
Incaute (’24: Malcaute) voci
spande [schiude] il tuo labbro: i destinati
eventi move arcano consiglio…
Qui l’io dà del tu a se stesso: i precedenti settecenteschi saranno magari ancora teatrali, magari da colloquio col cuore in musica (l’Attilia di Metastasio, al suo cuore in tumulto, come poi Leopardi a se stesso: “assai/ si palpitò”…); o sono dal Monti più pre-leopardiano, vedi gli sciolti al Chigi (“Giorni beati (…) ratti qual lampo (…) qual fallo mio v’estinse?”). Ma non dimentichiamo, in quello che diventerà Il primo amore, i primi accenti di colloquio dell’io col proprio cuore. Qui, mentre preme la stessa esperienza del mondo dell’io maturata con gli idilli, tutto è tradotto a un’altissima “poesia sentimentale” – di esperienza del cuore e di cognizione del vero -; e intanto ecco, nel silenzio degli dei, farsi più forte il dialogo che appunto cresce nel moderno tanto più quanto più il divino si allontana, cioè il confrontarsi tutto interno tra voce di inermità appassionata e voce riflessivamente amara e cauta, il dialogo dell’io con l’io.
4. Certo già l’avvio del monologo è intonato molto diversamente rispetto alle prime parole di Bruto: “Stolta virtù…” con quello che segue a partire dal verso 16. Poco più sopra c’è nel Bruto minore, 13, fine di verso, il primo verbo che serve alla “messa in scena” del personaggio, ed è un accùsa, e poi ecco il richiamo in ù, bloccato e forte, di virtù. Diciamo subito che l’accento di tonica, o, anche più significativo, l’accento metrico, punta spesso, nel Bruto, sulle vocali estreme: ì / ù.
E’ proprio il contrario di quanto succede nella Saffo. E come dire che già nei due nomi in titolo – BrUto, SAffo – c’è implicita una differenza timbrica ù / à poi attiva e significante dentro le due “voci” monologanti di questo Leopardi.
Nel Bruto, anzi, su otto stanze, due sono sigillate in -ù- (la IV, ricùsa: accùsa; la VII, sciagura: cùra) e due in -ì- (spìngi: strìngi la Il; intrìde: sorride la Ill), con vari rinforzi interni. Nessuna in -à-. Due su quattro chiudono invece proprio in -à- nella Saffo e proprio nessuna in -ù-: ma ci torneremo. Per stare intanto all’avvio dell’invettiva di Bruto: la stessa sostanza di “Stolta virtù”, un concentrato di tre occlusive sorde, / to/ta/tu/, accompagnate una volta da una sorda sibilante /st/, un’altra da vibrante /rt/, diffonde la sua energia all’intera canzone: ma un’energia, direbbe Mallarmé per la /t/, bloccata, con esiti di fissità. Per qualche campione: “chiedeste, e frodolenta/ legge al mortale insulta“, 23-24; “il destino invitto e la ferrata/ necessità” 31-32; «cognati petti il vincitor calpesta“, 80; tutti già in edizione 1824. Ben altri esiti nella Saffò, dove fra l’altro né l’attributo participiale né il raddoppio consonantico sono in tale evidenza.
Diciamo all’ingrosso che invece la Saffo è tra le canzoni quella che più si sporge, pur senza squilibrarsi, verso il mondo dell’esperienza idillica appena conquistata. Così, se a un lato dell’Ultimo canto c’è il Bruto, dall’altro lato – benché a debita distanza – potremmo disporre in particolare La sera del dì di festa, 1820.
Primo raffronto con quest’ultima. Santagata ha osservato come proprio con la ben più ampia Sera del dì di festa Leopardi senta il bisogno di introdurre, nel continuum dell’idillio, una scansione, un principio di discontinuità e distinzione nel tessuto in endecasillabi sciolti: Leopardi ricorre per questo, non essendoci distinzioni strofiche, alla ricorsività del “dì festivo” dentro il continuum endecasillabico. Ebbene, il comportamento cui assistiamo nella Saffo è speculare e opposto. All’interno di questa come delle altre canzoni esiste, ed esiste diciamo istituzionalmente – come non si dà, mettiamo, nel Sogno o nella Sera -, la scansione: nella Saffo provvede a “distinguere” la partizione in quattro lasse. Ma ecco in atto, a contrastare le distinzioni strofiche, il massimo sforzo di contrappeso omofonico verso il continuum.
Inoltre, secondo raffronto. Sempre a proposito di specularità tra Saffo e Sera: è perfino ovvio che si pensi non certo a un inizio come quello dell’invettiva di Bruto – “Stolta virtù”, ecc. – ma semmai a quello della Sera – “Dolce e chiara è la notte…” -, quando si legge l’avvio della Saffo (“Placida notte, e verecondo raggio …”). Ma poi non si usa notare che anche nella Sera del dì di festa, subito dopo quell’invocazione iniziale, il cielo, pur benigno all’aspetto, e la stessa “natura onnipossente”, 11-14, si negano all’io: “A te la speme/nego, mi disse, anche la speme…”, 14-15, con bella anadiplosi, alla vigilia di quelle che vedremo nella Saffo. Non diversamente Saffo cerca il bello e gli aspetti di benignità serena di una natura anche lì personificata. Ma il bello le si nega: “Già non arride/ spettacol molle ai disperati affetti”, 6-7.
Di più, e siamo a un terzo punto di frizione tra Saffo e Sera: Nencioni, nel suo mobilissimo quadro della Lingua del Leopardi lirico, vede tornare nella Sera del dì di festa “come in negativo e direi in dissolvenza, il nome di Roma, il suo impero, le sue armi…” e parla di “interferenza”, qui nella Sera, del registro eroico-morale, da canzoni, con quello idillico. Ebbene, di interferenza si può parlare anche per la Saffo, ma il movimento ovviamente anche qui è inverso. Vi si dà, in una “forma” classico-ardita, da canzoni, l’interferenza, spinta fin dove è possibile, dell’esperienza idillica con quella, detta in accezione tardo-settecentesca, in registro sublime.
Partiamo in proposito da quel bello da idillio in chiave classicheggiante – “Vago (dal’31, Bello) il tuo manto, o divo cielo” ecc. – che non arride a Saffo (e proprio arride è un hapax nei Canti, fra tanti sorridere e ridere, quest’ultimo anche, più in là, nella Saffo medesima, v. 27, “a me non ride/ l’aprico margo”). Se quel bello non le sorride, ecco che Saffo si cercherà il paesaggio e le esperienze che sono quelle appunto previste dal “sublime”: la tempesta, il tuono, il rischio sulla riva del fiume in piena… Certo Settecento anche italiano offriva già alle prove poetiche del primissimo Leopardi la suggestione del “tempestoso”. Ma qui il sublime si oppone al bello. Viene allora da pensare non genericamente al trattato sul sublime dello Pseudo-Longino – che fra l’altro ospitava con gran riguardo i versi dell’ode famosa di Saffo, “Faìnetai moi Kenos ìsos theoisin …”, “Mi sembra simile agli dei…” – e insieme viene in mente tutta una linea di teorizzazione tardosettecentesca (da Burke a Schiller) che appunto opponeva, sulle tracce dello Pseudo-Longino, il sublime al bello. Qualcosa di simile fa, benché suo malgrado, questa Saffo, tra prima e seconda lassa: cioè appunto tra quel bello che lei cerca anzitutto, ma che le si nega, e (seconda lassa), quel sublime cui allora si volge…
5. Blasucci ha giustamente osservato che già nell’edizione dei Canti del’31 la Saffo “chiude” le Canzoni e subito seguono gli Idilli, queste “avventure” dell’io in “poesia sentimentale”. E l’esperienza dell’io urge sul canto di Saffo, un canto che pure Leopardi vuole intonato dall’antico, da lontano. Da qui certi aspetti di interferenza, che del resto non è solo dagli Idilli, perché è attiva dentro la storia stessa dei ritocchi, degli assestamenti – su cui torneremo – di questa canzone: è certo un linguaggio “ardito” quello di Saffo e in chiave sublime, ma lo è un po’ più nel’24 che tra Canti del’31 e ’35 e dopo. Resta comunque che, volendo leggere in profondo se stesso allo stesso discrimine di Saffo, cioè tra l’allontanarsi dell’età immaginativa e l’offrirsi del vero, era necessario a Leopardi – che intanto negli Idilli, e anche là magari aiutato ancora dal Werther e dall’introspezione romanzesca, sullo sfondo stesso dell’idillio aveva esplorato la propria inquietudine emotivo-riflessiva – chiedere alla sua Saffo “in sublime” di affacciarsi il più possibile a quell’esperienza idillica appena trascorsa.
Ove si abbia chiaro questo, sarà anche più ovvio tornare a misurare, ora però su parole, su punti lessicali particolarmente rivelatori, la differenza, se non l’opposizione, della Saffo rispetto al Bruto minore. Si potrebbe cominciare proprio da quel placida in avvio della Saffo e in sincronia tanto diversa nel Bruto, v. 83. O si pensi a una voce come arcano. Bruto parla di “arcana legge”, 69, ma l’eroe non ha tempo, si serve dell’aggettivo in uso rapido, per così dire senza cantarlo. Siamo agli inizi della storia di arcano dentro la poesia leopardiana, fino poi alle Ricordanze, fino a Sopra il ritratto di una bella donna. Ma è nella Saffo che per la prima volta il pensiero indugia su arcano, perché Saffo cerca di più il tempo per meditare su di sé e il proprio destino, per avvolgere il discorso sul proprio stesso canto; e così arcano torna nel verso, si raddoppia: “i destinati eventi / move arcano consiglio: arcano è tutto, / fuor che il nostro dolor”, 45-47. O si guardi infine ad altra voce importante, quella che si lega ai numi di marmo del Bruto minore. Già rivolgersi al divino chiamandolo Giove, come fa Bruto, o invece chiamandolo, oltre che Giove, Padre, come fa Saffo pur ironicamente, v. 50, è cosa ben diversa. E anche qui, poi, in quale sincronia? Per Bruto si conferma quanto sappiamo, si veda qui come tiene la -ù- spesso tonica, o in parola-rima: “dunque degli empi / siedi, Giove, a tutela?”, dentro richiami del tipo insulta: esulta, ribattuti da un doppio dunque interrogativo… Ma Saffo: “Oh cure, oh speme / de’ più verd’anni! Alle sembianze il Padre, / alle amene sembianze eterno regno / diè nelle genti…”. Torna qui per sembianze la figura dell’anadiposi, del raddoppiamento già visto con arcano: e si tratta di una figura che era già molto attiva nella Saffo ovidiana. Tipo, “Si mihi difficilis formam natura negavit, / ingenio formae damna rependo (repende?) meo. / Sum brevis, at nomen quod terras impleat omnes, / est mihi: mensuram nominis ipsa fero”, 31-34, eccetera; intensa, anche in Ovidio, l’armonizzazione. Intanto per Saffo leopardiana amene richiama speme, dentro una vocalità chiara di ritorni in -è-, mentre tutta la sostanza fonica di amene-speme ritorna in sembianze; con le quali subito assuona e consuona la rima baciata di chiusa in questa lassa, canto: ammanto, 49-54. A loro volta i ritorni in -è- appena riconosciuti si ritessono in avvio di lassa seguente, 55: “Morremo. Il velo indegno …”.
Presente, passato (già nel’24, “Qual de la mente mia nefando errore…?”), immediato futuro (“Morremo…”) dicono quanto sia esteso e inquieto lo sguardo di Saffo. Evocazione dolente e drammatica, autobiografismo riflessivo, sentenza, linguaggio del desiderio, le stesse tracce di ironia… Ma, nel monologo che canta tutto questo, spetta una curva particolare alla modulazione continua, cui anche concorre la scelta quasi tutta (diciassette versi su diciotto per ogni lassa) endecasillabica. Forse Leopardi aveva in mente come la Staël definiva il canto di Corinna, una “mélodie intellectuelle”. Certo è che questa cura dell’armonizzazione sinuosa mira all’alto continuum del canto ultimo. Ed è efficacemente leggibile proprio in quelli che potrebbero essere e non sono i punti di salto, le interruzioni appunto tra lassa e lassa. Basti guardare al passaggio forse più importante, quello centrale, da seconda a terza lassa. Qui tra l’altro ha luogo anche il passaggio strutturale che sappiamo, da prevalente descrittività e attenzione all’io, a prevalente riflessività e sentenziosità ormai individuale-cosmica. La seconda lassa, già nell’edizione del ’24, chiude così: “…le flessuose linfe / disdegnando sottragge, / e preme in fuga l’odorate spiagge”. Qui, come per ciascuna delle altre lasse, la coppia finale rimata (settenario: endecasillabo) tende di per sé a chiudere l’ampio movimento strofico di canto e meditazione. Ma, così chiuso, il movimento, subito dopo, nella lassa seguente si apre cercando gli stessi colori fonici, con fitte riprese ed echi di quanto immediatamente precede. Qui per esempio l’avvio di terza lassa muterà sì nel dopo ’24, ma resterà la ricerca di un ponte di riprese foniche armonizzanti, qui in -à- prevalentemente: “Qual de la mente mia nefando errore / macchiommi anzi ‘l natale …” (poi, dal ’31, questa ricerca anzi si perfeziona: “Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso…”). E intanto, a contorno e rinforzo, ecco le altre, vicine, riprese, i continui ritorni di sostanze foniche: ritorni fino al paranagramma, come, dicevamo, per speme / sembianze / amene sembianze; o come per la “indomita Parca” del v. 42 che ritorna, quasi intatta con la sua ferocia, dentro arcano raddoppiato al v. 46: “i destinati eventi / move arcano consiglio. Arcano è tutto…”. Sono i momenti in cui il canto e il pensiero insieme più visibilmente tornano su se stessi.
Il monologo di Bruto fende diritto come una spada e così non c’è veramente tempo per mescolare io a voi, per farne un noi. Il monologo di Saffo tende invece a una linea più “femminile”, tende al sinuoso, in alto pathos riflessivo ed elegiaco-drammatico; qui il passato non è quello della storia ma quello dell’io o piuttosto del me e il me matura nel canto e, procedendo la “mélodie intellectuelle”, può diventare anche noi e nostro.
6. Tanta cura dell’armonizzazione, dentro un concertato timbrico che cerca di preferenza le note centrali, avvolge gli stessi modi “arditi”, da canzone, della Saffo: per esempio avvolge di “alta naturalezza”, come diceva De Sanctis, le stesse puntute arditezze del lessico greco-latino – presente qui come altrove nelle Canzoni ma come anche nella lettera ovidiana – da erinni greco-virgiliano dei primi versi, al finale e greco-ovidiano tenaria (“Diva”) (ma l’escursione, ove però si guardi al testo a partire dall’edizione ’35, è fino alla familiarità dolcissima e atroce di bambina: “In che peccai bambina?”). 0 vedi il giro latineggiante (“noi (…) giova”: nell’idillio Alla luna, invece, “mi giova / la ricordanza”), o le luneturae che già Leopardi considera come arditamente sinestetiche (“spettacol molle”…). E l’armonizzazione, infine, è anche cercata per modulare un canto che – lo vedremo presto – ancora una suggestione ovidiana conduce all’antico. E insieme, si aggiunga ora, a un profondo livello autobiografico-mitico.
Per giungere a questo livello, diciamo auto-mitologico, non basta più il confronto sincronico. Occorre dare maggiore luogo a una più ampia estensione intertestuale, tornando a interessarci dì un “modo”, quello delle “parole estreme”, dal quale aveva preso l’avvio il nostro discorso. Vi torneremo sapendo abbastanza ormai quanto si individui, nell’armonizzazione “alta” della Saffo, quel “modo” appunto del monologo. Cerchiamo dunque nel primo Leopardi quanto possa metterci sulla strada.
Siamo nel 1816 e lui medita di morire «per acqua», annegando, testimone la notte, nella vasca del giardino del palazzo paterno. Invoca la morte e intanto nasce la prima poesia che Leopardi riconosca come veramente sua: nominandola spesso, riprendendone e rielaborandone l’ultima parte ormai nel ’35, per l’edizione napoletana dei Canti. Si intitolava all’inizio Canto funereo; poi, Appressamento della morte.
E’ il canto ultimo di un giovane che canta il proprio morire incolpevole, ultimo canto, già qui, di un teatro d’ombre che qui incomincia a inscenarsi, fortemente autobiografico: ombre che si affacciano su un destino incomprensibile, perché il soggetto si sente innocente. Si propone dunque da subito in Leopardi la dimensione tragica della vittima innocente. Ma poi, dopo questo 1816, l’impeto provato, di morire per acqua, nella vasca del giardino, o, come dice nelle Ricordanze, nella fontana, e questo piegarsi su sé nel canto ultimo, dove lo rievoca? Lo ricorda in quel poema della memoria autobiografica che sono, scritte da un poco più che trentenne, appunto le Ricordanze, 1831, vv. 104-118:
E già nel primo giovanil tumulto
(…)
morte chiamai più volte, e lungamente
mi sedetti colà sulla fontana
pensoso di cessar dentro quell’acque
la speme e il dolor mio.
(…)
e spesso all’ore tarde, assiso
sul conscio letto, dolorosamente
alla fioca lucerna poetando,
lamentai coi silenzi e con la notte
il fuggitivo spirto, ed a me stesso
in sul languir cantai funereo canto.
Di Saffo, allieva a sua volta, si è visto, dì Werther, era l’addio finale alle cure, alla speme “de’ più verd’anni”. E nelle Ricordanze ecco il pensiero del giovane, di uccidere “la speme e il dolore“, anche lui morendo per acqua. Bruto, intanto, è incaricato di perseguire l’altra morte, quella propriamente maschile, che non è – direbbe una storica ed etnologa della Grecia antica, Nicole Loraux, e proprio indagando nel campo tragico antico, tra le figure femminili della morte tragica non è la morte femminile per soffocamento, ma quella rigorosamente eroico-maschile, per spada. Leopardi dunque ha fantasmaticamente consumato entrambe… Ma intanto ecco nelle Ricordanze “il fuggitivo spirto”: ci viene in mente Saffo, 56, “rifuggirà l’ignudo animo a Dite”. Dunque sia il “funereo canto” del 1816, sia il ricordo di Saffo antica si presentano, ben vicini, a questo Leopardi del’31: diciamo anzi che in quel paio di versi, “il fuggitivo spirto ed a me stesso / in sul languir cantai funereo canto”, c’è un raccourci motivico che dal ’16 va all’Ultimo canto di Saffo e poi oltrepassa le Ricordanze, aprendo ormai verso il ritorno più asciutto dell’ultimo canto “a me stesso”, appunto quel filosofico madrigale in morte di se stesso che ormai conduce all’ultimo Leopardi.
Del resto questi versi delle Ricordanze sono venati di memoria poetica anche più di quanto abbiamo detto finora. Un altro rinvio, e dovremmo infine vedere meglio, al di là delle stesse stratificazioni di cultura, a quale strato di mitologia personale attinga questo Leopardi dell'”ultimo canto”. Apriamo questa volta non le Heroides ma le Metamorfosi di Ovidio. Nel libro XIV c’è una scena di notte vicina. “Sparserat occiduus (…) litora Febus”. E qui compare un’altra delle “figure di canto” femminile che sono tanto care a Leopardi, da Circe a, chissà, l’Elena della Donna del lago rossiniana che lo commuove a Roma nel’23, da Saffo all’ignoto “assiduo canto” di donna che gli arriva da un interno, dall'”arguto canto” della fanciulla nella Vita solitaria a quello di Silvia… Qui è Canente, una ninfa che, già lo segnala il nome, è inarrivabile “arte canendi”, nell’arte del canto: sul far della notte attende invano il giovane sposo; poi lo cerca per monti e valli, finché muore di dolore sulle rive del Tevere, versando, dice Ovidio, pianto e parole. Muore, aggiunge,
ut olim
carmina iam moriens canit exsequialia cycnus,
come il cigno canta morendo il suo canto funebre…
Torniamo alle Ricordanze e ci accorgeremo che il passo che si ricordava più sopra nasconde il cycnus, il cigno. Ma per il resto traduce fedelmente al giovane poeta il verso ovidiano:
ed a me stesso
in sul languir cantai funereo canto.
E vicino a canto nell’autografo si legge carme. La ricerca di alta, sinuosa armonizzazione che vedevamo attiva nella Saffo, tanto più là dove, nei passaggi da lassa a lassa, potrebbe interrompersi il continuum riflessivo-timbrico della modulazione del canto, è anche la ricerca della voce del cigno, del suo ultimo messaggio. Dal’31, da quando nasceva per il libro poetico leopardiano il titolo di Canti, quel canto di Saffo in testa alla canzone chiedeva tanto più i ritocchi, i perfezionamenti dell’armonizzazione. E così avvenne, nel ’31 e anche poi per l’edizione 1835.
Certo, c’è un’attenzione armonica leopardiana che, nei canti, non riguarda solo l’Ultimo canto di Saffo. Potremmo dire molto genericamente – e tanto genericamente che il discorso riuscirebbe non solo ovvio ma sfocato e inesatto – che una tale attenzione armonica investe ogni canto leopardiano. Ma solo con la Saffo e poi col Canto notturno di un pastore errante dell’Asia la parola canto appare in titolo. Sono dunque, questi due, i canti “al quadrato” di Leopardi, e in entrambi, anche se in modi a loro volta diversi, il poeta ha prestato un “di più” di lavoro e di attenzione alla compaginazione armonica. Qui poi, con la Saffo, si aggiunga che il canto è l’ultimo canto di una grande voce poetica. Era il canto del cigno di Saffo. E dell’io – di quel Leopardi che in certo senso è sempre all’ultimo canto, all’ultima soglia; del resto anche la Staël parlava di “chant du cygne” per il Dernier chant de Corinne al finire del romanzo.
Epifania della luce e canto del desiderio, così vede un Bachelard la figura del cigno. Ma qui proprio il largo uso neoclassico consigliava di occultarla, questa figura, e intanto quel canto, fattosi più segreto, diventava “mélodie intellectuelle”, si colmava di auto-ascolto e dialogo interiore, nel perenne ragionare col proprio cuore, e di appassionata riflessione per tutti, nella prospettiva del vero affidato alle parole estreme”.
NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 21.2.1991 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura