In apertura di questa mia conversazione prendo spunto da questo libro, sul quale avete voluto cortesemente soffermare la vostra attenzione. Devo dirvi che non ho inteso scrivere un opera di dottrina, un’opera di teoria generale del diritto; probabilmente non ne avrei avuto neanche i mezzi, le possibilità, avrei chiesto troppo alle mie ambizioni.
Ho voluto invece dare una sorta di testimonianza un po’ inquieta, e sofferta dall’interno del mondo penitenziario, coperto da così tanti silenzi, incertezze, misteri. Sono profondamente convinto che altro è leggere del carcere, altro è vedere il carcere; entrare nei corridoi, nelle camere dei detenuti; respirare i loro odori, sentire i loro rumori. Immaginare e proiettare le sensazioni di ciò che essi vedono e di ciò che essi desiderano vedere e non vedono.
Quest’esperienza, che ho avuto la fortuna di fare in questi anni, ha rappresentato sul piano umano delle mie esperienze personali, il completamento quasi necessario di una purtroppo ormai pluridecennale esperienza come magistrato. Lo dico nel senso che per decenni, nelle aule di giustizia, quale giudice, ho imparato a vedere la storia del processo, la storia del delitto, i suoi drammi, immaginando che quella storia, pur così drammatica si concludesse al momento della sentenza, quando il giudice, rivestito dei simboli del suo potere di rappresentanza dello stato costituito esprime la volontà della legge. Subito dopo, sembra che ogni luce si spenga, che ogni attenzione si disperda e che subentri il silenzio, una sorta di buio, come se non ci fosse più nulla da quel momento in poi. Invece, ho cominciato a capire che, nel momento in cui sembrava finire la storia umana che doveva essere conosciuta, mediata, iniziava un tempo nuovo che non poteva essere semplicemente misurato con il numero dei mesi o di anni scanditi nella condanna, perché i mesi e gli anni di quella condanna non erano i tempi “reali” per quella parte di umanità, che dopo la sentenza viveva un altro dramma sul quale bisognava fare luce, sul quale bisognava concentrare doverosamente le attenzioni. Bisognava riuscire, in qualche modo, ad avvertire che se c’è l’uomo del delitto, c’è anche l’uomo della pena e che quest’ultimo non necessariamente si identifica con il primo. Spesso è un uomo diverso; la pena infatti ha un senso se essa rende diverso l’uomo che la porta sulle proprie spalle. Allora i tempi, la storia, i giorni, le notti, i silenzi, le assenze della pena, non sono gli anni o i mesi contenuti nella sentenza, ma sono una realtà diversa, in un modo che via via ho capito, compreso, approfondito. Sul piano teorico questo significava che il vero dramma che ci portavamo appresso era, in fondo, il non aver capito che la giustizia, questa grande madre della società, alto ideale che da sempre l’uomo porta con sé, meta di ogni aspirazione e di ogni più alto ideale, aveva due figli: un figlio legittimo, cioè il processo, il quale mostrava nella più splendente delle luci, orgogliosa, “lo stato di diritto”, la celebrazione dei riti della giustizia; ma anche un figlio illegittimo, il carcere, figlio di cui in qualche modo si vergognava, che andava nascosto, del quale non si doveva parlare e si doveva saperne il meno possibile. E allora mi sono reso conto che, se c’è una riforma possibile del carcere, questa passa necessariamente attraverso un suo riconoscimento come figlio legittimo della giustizia, attraverso il tentativo di sostituire, dentro il carcere, alle regole di quella che fu poi chiamata disciplina, le “regole” di quella discrezionalità non controllata, non misurata dell’esecutore della pena, regole in cui il fine diventa il parametro di ogni legittimità.
Alle regole della disciplina bisogna sostituire quelle del diritto, che sono chiare, ma soprattutto uguali per tutti. Riflettendo su questi temi, ci si accorge di come esistano due piani strettamente collegati e che difficilmente si staccano l’uno dall’altro: uno è il campo delle cose che sembrano alla portata delle nostre possibilità, delle nostre riforme e modifiche; l’altro è il campo delle nostre utopie più alte e più lontane, nelle quali bisogna continuare a credere.
Perché se noi mutiliamo il nostro impegno in queste ambizioni così alte, mutiliamo la nostra umanità, la misura stessa della speranza di cui siamo capaci. Parlo per esempio dell’utopia secondo la quale l’umanità dovrebbe creare, non tanto un diritto penale migliore, quanto qualcosa di meglio del diritto penale.
Come dire l’utopia di una giustizia così perfetta che possa fare a meno dei tribunali e delle carceri. Direi che l’utopia più alta, se vogliamo rimanere nei limiti dell’imperfezione, sarebbe quella in cui l’uomo non avrebbe più bisogno di una giustizia, perché non ci sarebbero più torti da riparare, verità da ristabilire.
Ma la giustizia più alta a cui possiamo in qualche modo ambire è forse quella capace di stabilire una pena che sia soprattutto riparazione e quanto meno possibile punizione. Il nodo di queste riflessioni è sempre legato al rapporto inquietante che c’è tra la sofferenza del delitto e la sofferenza della pena, perché il delitto è certamente una sofferenza per chi lo subisce, poiché toglie tutto; ma anche per chi lo commette. Forse è vero che noi inseguiremo molto vanamente la giustizia, fino a quando continueremo a credere con qualche passività che una sofferenza possa cancellarne un’altra. Questa è in fondo l’ipoteca alla quale bisognerebbe sottrarsi, secondo cui se è vero che il delitto è un male, noi avremo una misura maggiore di giustizia quanto maggiore sarà la misura di sofferenza che saremo capaci di racchiudere nelle pene che comminiamo. Anche se riteniamo lontane e non realizzabili oggi quelle lontane utopie, pure ci appartiene un impegno, qui e ora, dal quale non possiamo sottrarci: quello di percorrere la strada di una pena che deve divenire quanto meno possibile punizione, la strada di una giustizia, che seppure non riesce a liberare la società dalla necessità del carcere, per lo meno comincia a liberarla dal carcere quando esso non è necessario. La strada di una riforma possibile per una giustizia che, se non può essere perfetta sia per lo meno convincente e persuasiva, è quella di un diritto penale minimo, nel quale si considerino reati, illeciti penali, le trasgressioni più gravi; un diritto penale meno punitivo, che risponda con il carcere non a tutte le trasgressioni, ma soltanto a quelle più gravi, che determinano un maggiore danno, un maggiore pericolo per la società. Non soltanto dal punto di vista delle sofferenze umane che comporta, ma anche da un punto di vista pratico, perché il carcere è la soluzione economicamente più cara. Si pensi che il mantenimento di un detenuto costa allo stato circa centomila lire al giorno, cioè tre milioni al mese; immaginate di proiettare questo tipo di calcolo alla infinita molteplicità di trasgressioni sociali alle quali si risponde col carcere, per misurare quanta strada si potrebbe fare, senza scomodare quelle altissime utopie, per raggiungere una giustizia che sia più convincente, più persuasiva. E’ la strada delle misure alternative alla esecuzione della detenzione: la semilibertà, l’affidamento in prova. Questi istituti sono stati opportunamente ampliati dalla legge dell’ottobre del 1986, considerata troppo spesso un semplice punto di arrivo. La strada di una umanizzazione del diritto penale, di una giustizia sempre più convincente, ha bisogno di una formula altra da quella delle misure alternative alla detenzione, perché tali misure sono pur sempre risposte istituzionali, che stanno nell’ottica della privazione della libertà. Se ci riflettiamo sono misure che certamente rappresentano passi avanti, ma un passo che non ha il coraggio di andare avanti tanto quanto sarebbe richiesto; è una sorta di compromesso, frequente non soltanto nelle normative, nelle legislazioni, ma anche nella coscienza professionale di ciascuno. Il compromesso sta fra la rinuncia alla risposta del carcere e la consapevolezza che tuttavia in quel caso il carcere non è la risposta giusta. Lo si infligge perché ci sia, al momento stesso della inflizione, la possibilità di togliere con una mano quello che con l’altra si infligge. Allora la strada non è, o non è soltanto quella delle misure alternative alla esecuzione della detenzione.
Penso alle sanzioni pecuniarie: non privilegiano i ricchi rispetto ai poveri? Oggi viviamo in un momento storico in cui quotidianamente assistiamo, pressoché inerti, alla devastazione dell’ambiente, alla distruzione della natura, del verde. Questo per colpa di un consumismo sfrenato, di una industrializzazione selvaggia che non ha più regole, perché a questo “nuovo Dio” offriamo ogni giorno degli altari straordinari, addormentando la cultura, lo spirito, i valori della civiltà, della speranza e del progresso. Di fronte a questa situazione penso se non sarebbe più efficace, nei confronti dei responsabili dello scempio, titolari di queste industrie e di traffici molteplici che ci assediano e ci offendono, non la misura della reclusione, che viene poi regolarmente sospesa, o una sanzione pecuniaria, che è diventata una presa in giro, ma una sanzione amministrativa seria, che comporti il divieto di esercitare quel mestiere, quel commercio. Sarebbe una strada di riflessione, come quella di un lavoro socialmente utile. Pensate alle possibilità incredibili di quest’altra forma alternativa. Timidamente introdotta nel nostro ordinamento con una legge del 1981, praticamente non è mai stata applicata.
Si pensi alle possibilità di lavoro: assistenza agli handicappati ed ai malati, soccorso alle vittime delle mille pubbliche calamità, riordino delle biblioteche. Questa sanzione avrebbe il vantaggio di riparare il danno come le altre; ma la finalità di rieducazione della pena sarebbe affermata al momento stesso della esecuzione. Potrebbe dimostrare concretamente, per il fatto stesso di eseguirsi, il ristabilirsi di quei vincoli di solidarietà sociale che il delitto ha infranto. Quale ideale più alto possiamo proporre, noi uomini destinati ad una inevitabile imperfezione, di una pena la quale riesca a rispondere al male del delitto, non con un male inutile, cioè con la sofferenza del colpevole fine a se stessa, ma con una sofferenza che ha un fine nella utilità di quella stessa società che ha subito il danno? Nella misura in cui noi continuassimo ad inseguire la giustizia sulla strada di una sofferenza fine a se stessa, noi saremmo ancora, pur con il trascorrere dei secoli, legati alla realtà morale in cui eravamo secoli fa, quando vigeva la vendetta privata rispetto al delitto. Non cambierà nulla nella realtà delle nostre istituzioni, se non ci convinceremo che quella è la strada da percorrere. Lo è anche su un piano di umiltà pratica. Perché il problema, per la società, è di riuscire a recuperare coloro che trasgrediscono le leggi. Nessuna società può avere interesse ad esiliare così ferocemente alcuni suoi elementi, che inevitabilmente saranno poi definitivamente suoi nemici. E allora, se non riusciamo ad eliminare del tutto la sofferenza della pena, riduciamo per lo meno questa alla sofferenza minima indispensabile.
Se il carcere è inevitabilmente una misura di grande dolore, occorre che da esso si eliminino tutti i patimenti superflui. L’ideale sarebbe quello di un carcere che riuscisse a conservare agli uomini privati della libertà, tutti i diritti che ad essi come cittadini spettano, tutti i bisogni che essi hanno come uomini e che non siano incompatibili con la privazione della libertà, compreso il diritto di amare ed essere amati.
Se noi abbiamo istinti, sentimenti, realtà umane che sono inevitabilmente inscritte nelle anime, questi non sono qualcosa in più, ma qualcosa che nasce, vive, respira con l’uomo, i cui ritmi sono i ritmi stessi della vita dell’uomo. E’ umanamente impossibile cancellare quello che la natura stessa ha inserito nell’anima.
Come possiamo immaginare di poter sopprimere questi bisogni, o ancora di poter costruire una legge contro la natura degli uomini? Ciascuno di noi ha il diritto di pensare liberamente a questo, ma è necessario che prenda consapevolezza delle implicazioni conseguenti alla sua scelta, perché c’è una misura grande di perversioni, violenze, patologie, inquietudini, autolesionismo, che esplodono tutte le volte che si tenta di cancellare una parte della natura umana. Allora il problema non è di caldeggiare l’una o l’altra delle scelte possibili; il problema è avere piena consapevolezza delle conseguenze delle proprie scelte, è capire se veramente noi inseguiamo la giustizia sulla strada di una sofferenza sempre maggiore o se invece riteniamo che andiamo tanto più avanti sulla strada della giustizia, quanto più riusciamo a togliere le sofferenze.
Voglio fare un’ultima considerazione. Occorre, infine, che si riesca a sconfiggere la ghettizzazione, a cui per troppi secoli il mondo della pena in genere ed il mondo del carcere è stato consegnato. Il muro del carcere, segno fisico del contenimento di uomini privati della libertà personale, deve perdere quel significato morale che per troppo tempo ha avuto: l’esclusione di coloro che stanno al di là del muro. Ricordo che nel medioevo c’era la consuetudine di mettere folli e pazzi su navi, le quali, poste poi sui fiumi, navigavano senza mai approdare da nessuna parte, perché si immaginava che in questo modo l’acqua avrebbe evitato il contagio che dai folli sarebbe venuto al resto degli uomini. Qualche volta immagino che il muro, il cancello, le sbarre del carcere, abbiano acquistato proprio questo significato forte di esclusione morale, obbediscano a questo desiderio forte, invincibile, ancestrale dell’uomo di circondarsi di barriere fisiche o ideali, attraverso le quali allontana tutte le diversità nelle quali non vuole riconoscersi. Come se ci fosse una parte di umanità ricca, giusta e onesta e un’altra parte cattiva, sporca, malata, povera, e la prima parte non volesse riconoscere la seconda e immaginasse di circondarsi di una serie di criteri di normalità che tracciano mille distinzioni tra buoni e cattivi, bravi e meno bravi, sani e malati, normali e pazzi.
Credo invece che dobbiamo acquistare la consapevolezza di una invincibile unicità dell’umanità in tutti gli uomini.
Diceva Tolstoi, secondo me giustamente, che nel cuore di ogni uomo c’è il seme di ogni delitto.
Non c’è una parte di uomini che sia immune dal delitto, che sia, per un destino che li precede, destinata a giudicare i delitti degli altri e un’altra parte che sia invece votata al crimine, condannata al male.
Nessuno di noi ha il diritto di immaginare di essere l’unico depositario del bene, del bello, del giusto e della verità. Nasce la consapevolezza della necessità di questa umiltà; il problema del carcere ci appartiene come società, perché i problemi che portano al carcere nascono tutti quanti in essa. Il tempo e lo spazio della reclusione, il tempo e lo spazio della libertà, non sono altri da quelli della società nella quale viviamo tutti i giorni.
Forse c’è qualcosa di utopico in tutto questo; ma forse è anche vero che, nell’era del consumismo ottuso, del materialismo sfrenato, si vive con l’angoscia di possedere, con l’incubo di misurare il valore di ciascuno non per quel che è, ma per quel che ha, perché solo il guadagno e il potere misurano il valore degli uomini.
Di questi tempi va recuperata un po’ di utopia, anche se è rischioso. Ma c’è sempre un rischio quando si dice o si fa qualcosa che non molti fino a quel momento dicono o fanno; si rischia sempre quando si turba la quieta tranquillità delle coscienze, quando alle persone si aprono a forza gli occhi perché vedano. Ma penso che anche il rischio ci appartenga, inevitabilmente, in quanto uomini; fa parte del nostro destino, della nostra vita.
In una società, in un contesto come quello in cui noi oggi viviamo, l’unico rischio che gli uomini possono correre è quello di non correre rischi.
NOTA: testo, rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 14.2.1989 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.