Quasi 14 anni fa, nell’ ottobre 2002, Svetlana Aleksievič, invitata dalla CCDC a Brescia per presentare il proprio libro appena uscito in Italia Preghiera per Černobyl’, esordiva con la frase di un letterato dei primi del Novecento: «Tutto ciò che è russo è triste».
E aveva soggiunto, a proposito del proprio lavoro e dei suoi contenuti: «Mi potrei definire cronachista delle lacrime e delle sofferenze». In Aleksievič, nella sua trattazione delle vicende legate alla storia e civiltà sovietiche, è inoltre centrale quella che subito dopo lei chiama «la storia del piccolo uomo e della grande utopia».
Va precisato che quando era uscito in Italia il libro sul disastro nucleare di Černobyl’, la scrittrice aveva già pubblicato in lingua russa, prima del 1998, dunque in epoca gorbačëviana, tutti i suoi libri, tranne l’ultimo Tempo di seconda mano, scritto dopo la dissoluzione dell’urss, che sarebbe stato pubblicato in russo nel 2013 e in italiano nel 2014.
Oggi i libri sono tutti disponibili anche in lingua italiana e il lettore può accostarsi all’opera nella sua interezza: cinque «romanzi di voci». È l’opera della sua vita, premiata con il Nobel per la letteratura nel 2015.
Ma torniamo alle sintetiche parole che Aleksievič usò allora a Brescia per definire sé stessa e il tema della sua narrazione: «cronachista delle lacrime e delle sofferenze», disse e il riferimento ai cronachisti ovvero annalisti ci riporta ai primi secoli della Rus’ kieviana e dell’affermarsi del principato di Mosca, che è come dire alle radici della lingua e letteratura russa. Fatte beninteso le debite proporzioni l’analogia è valida in quanto nei secoli lontani tradizione orale, testimonianza e memoria storica, culturale e religiosa vengono elaborate in sapienti, epiche narrazioni, che prendendo spunto per lo più da fatti d’arme, non di rado trovavano l’afflato della grande poesia. E il rovescio della gloria guerriera è proprio la sofferenza del popolo e le lacrime delle donne. Un dolore che non risparmia neanche le regine. Cito solo, tra i tanti monumenti letterari di quei tempi lontani il Canto sulla rovina della terra russa (XIII secolo) e nel Canto sulla schiera di Igor’, forse XII secolo, il Pianto di Miroslava, uno dei vertici poetici di tutto il genere.
Ebbene, quell’autodefinizione di Svetlana, anche indipendentemente dagli esiti, è utile almeno per situare la moderna forma da lei scelta fin dagli esordi in campo letterario, quella del «romanzo di voci», del reportage narrativo, nell’alveo di una civiltà dalla storia secolare. E se l’ambito geografico e nazionale della scrittrice, le sue prime due case come lei le definisce, è quello delle due patrie ucraina e bielorussa, la terza casa è la grande letteratura e cultura russe, senza le quali lei non riesce neanche a concepirsi.
Di quella civiltà, così lontana specie oggigiorno nella percezione degli europei occidentali benché ad essi contigua, la quale nel secolo scorso si è proposta al mondo come rivoluzionaria e sovietica, Aleksievič avrebbe composto infine, nel testo che corona il ciclo dei romanzi di «voci dall’utopia», un «canto», vorrei dire, «sulla rovina della terra sovietica». Sarà Tempo di seconda mano, ma di questo poi.
Ora però vorrei accennare a quelli che considero i suoi libri più significativi, appunto Preghiera per Černobyl’ e La guerra non ha un volto di donna. Se l’Accademia di Svezia ha riconosciuto nell’opera della scrittrice «un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo», questi due libri corrispondono in pieno a tale caratterizzazione.
La straziante cronaca di un mondo di affetti umani violato nei corpi, nei rapporti, nella natura, in vite che si spengono e in vite che non potranno nascere o che sono condannate senza speranza, è anche il risultato della straordinaria determinazione di Aleksievič nell’affrontare l’inedito, fin lì ignoto, male scatenato dall’esplosione del reattore nucleare e dall’estesa ricaduta radioattiva. Ne ha cercato la testimonianza nei racconti di vittime e sopravvissuti con strenuo coraggio e disposta a condividere sofferenze e lacrime di persone, soprattutto donne, annichilite da un dolore che supera ogni immaginazione. La prima e la seconda «voce solitaria», quelle di Ljudmila e Valentina, che aprono e chiudono Preghiera per Černobyl’, sono il culmine di una narrazione sconvolgente. Le loro voci raccontano di come avevano accudito, eludendo i controlli negli ospedali e incuranti dell’inevitabile contaminazione e stringendoli tra le braccia fino all’ultimo, i propri mariti, eroici vigili del fuoco che avevano affrontato «a mani nude» l’incendio nucleare.
Altre ragazze, alcune poco più che bambine, arruolatesi volontarie nella Seconda guerra mondiale sul fronte russo-tedesco, spesso per colmare i vuoti degli eserciti sovietici dopo le iniziali disfatte, sono le protagoniste dell’altra memorabile impresa letteraria e umana di Aleksievič: quella di dare voce alle donne combattenti, fin lì relegate nel silenzio da chi raccontava solo la «guerra al maschile», e cioè proprio i loro ex commilitoni.
L’aver dato voce, e che voce!, alle vittime di Černobyl’ e alle donne-soldato sovietiche nella seconda guerra mondiale rappresenta, secondo me, per le circostanze e gli esiti, un vero e proprio podvig. Podvig designa l’atto eroico, generoso e disinteressato, nonché importante e significativo e che per questo merita di restare inciso nelle memoria e nella storia del paese in cui si compie: è in particolare attribuito a eroi e protagonisti delle antiche cronache e annali.
Aleksievič ha assimilato e fatti propri l’eroismo e l’abnegazione dei suoi personaggi, in particolare nello sforzo di restituirne il più veridicamente possibile le voci, salvandone con cura quei passaggi, da lei paragonati a «pagliuzze d’oro», «pietre preziose», che innalzano certi racconti spontanei all’altezza della grande letteratura.
E veniamo più in generale alla «storia del piccolo uomo e della grande utopia», il ciclo narrativo nel quale rientrano tutti e cinque i libri finora scritti da Aleksievič. Il «piccolo uomo» (inteso, va da sé, come uomo e donna, malen’kij čelovek in russo) è il protagonista, il soggetto (e la vittima) dell’esperimento politico-sociale messo in atto dopo il 1917 in Russia-urss; la grande utopia è appunto quella comunista e il suo progetto di cambiare la natura stessa dell’uomo, facendo nascere un «uomo nuovo» e un «mondo nuovo» radicalmente mutati. Ecco come tratteggia l’Autrice questo progetto nel suo Discorso in occasione del conferimento del Nobel:
Si era voluto edificare il regno dei Cieli in terra. Il Paradiso! La Città del Sole! E quel che ne è rimasto è un oceano di sangue e milioni di vite sacrificate.
In Tempo di seconda mano, l’ultimo suo libro, dedicato al crollo dell’Unione Sovietica e ai primi anni del periodo postcomunista, Aleksievič dà voce ai «reduci» ancora fedeli a quel sistema sociopolitico. I suoi interlocutori sono in maggioranza persone che hanno in buona fede creduto alle prospettive del socialismo mentre ora si ritrovano in una società senz’anima dominata dal denaro, dal commercio e dalla ricerca dell’arricchimento e del successo a tutti i costi. Aleksievič comprende e vive il loro smarrimento, E si dichiara «complice», cioè partecipe di quel progetto infine fallito. Trattando dello sfrenato individualismo e cinismo della nuova società postcomunista la scrittrice cerca le cause di questo decadimento morale e sociale:
Che valore può avere la singola vita umana? Siamo pieni di odio e pregiudizi. Veniamo tutti da laggiù, dal Gulag e da una guerra atroce. La collettivizzazione, lo sterminio dei kulaki, la deportazione di interi popoli…
Di sé stessa, in uno dei due discorsi a Stoccolma, Aleksievič ha detto: «Lo ammetto, non mi sono liberata subito». Si è infatti liberata dopo un breve soggiorno in Afghanistan, presumibilmente nella prima metà del 1989, nelle more della ritirata dell’Armata Rossa dal paese occupato; e la sua disillusione le è subito costata un penoso conflitto con il padre da sempre e per sempre comunista convinto.
Nei confronti di quei comunisti che hanno sinceramente creduto negli ideali propagandati dal Partito e hanno cercato di metterne in pratica qualche buon insegnamento nei rapporti con gli altri, Aleksievič, specie nel libro in cui critica il «tempo d’accatto» del postcomunismo, ha dunque un atteggiamento assai benevolo. Non nasconde però quanto questi nostalgici abbiano voluto e continuino a voler chiudere gli occhi su certe incontrovertibili evidenze della storia sovietica, quali la diffusa repressione e l’eliminazione fisica di qualsiasi opposizione politica e sociale.
In ogni caso, il suo campo d’indagine resta l’intimo pensiero, l’anima della persona, di donne e uomini qualunque, che si confidano con lei in conversazioni pazienti e partecipi; Svetlana privilegia l’anima sofferente, perché le sofferenze, argomenta, fanno grande la persona. Nel suo lavoro lei profonde un fervore instancabile – orecchio, occhio e penna – sempre più persuasa, con Dostoevskij, che il bene e il male del mondo si diano battaglia lì dentro, nel cuore di ognuno di noi. E che, come già ricordato, ognuno possa farsi autore di pagine letterariamente memorabili e non inutili anche per la grande Storia.
Infine una considerazione sull’attualità: per quanto riguarda il mondo russo di oggi e la sua natura da un punto di vista psico-socio-politico e culturale, adesso Aleksievič oltre al retaggio del «passato che non passa» sembra considerare prevalenti, e forse risolutive, certe peculiarità deteriori viste come connaturali al popolo russo, quello a suo tempo egemone nell’Unione Sovietica e oggi egemone nella Federazione Russa, in quella decurtata ma sempre vastissima parte euroasiatica del mondo che corrisponde al vecchio Impero prima zarista e poi sovietico.
Alla fine del discorso dalla tribuna di Stoccolma tradotto adesso nel nostro libro, parlando della situazione attuale, la scrittrice affida ad alcune voci di quel coro popolare cui ha per quarant’anni prestato un attento orecchio alcune sparse considerazioni, raccolte «viaggiando per la Russia». Il quadro che ne esce è disperato e disperante: «da noi la modernizzazione è possibile, ma solo mediante il lavoro coatto e la fucilazione», «l’uomo russo non capisce la libertà, ciò di cui ha bisogno è il cosacco e la frusta», «Le due più importanti parole della lingua russa sono guerra e prigione», «viviamo sempre così, tra casino e galera», «i russi hanno sempre bisogno di un’idea che faccia accapponare la pelle», «da noi un uomo onesto che sia uno non lo trovi, ma i santi ci sono, e come!».
Nello sfacelo generale descritto, nella desolazione del «tempo di seconda mano», dopo il fallimento del comunismo e dell’auspicata, ma finora rimasta fantomatica, alternativa democratica pluripartitica di stampo occidentale, certe disillusioni sono comprensibili.
Tuttavia, in questa «nuova Russia», per quanto problematiche possano esserne le prospettive, è indubbio che i suoi cittadini possano contare almeno su una «casa» sicura, quella evocata da Aleksievič della grande cultura e letteratura russe, una casa gremitissima di libri, ma anche non deserta di idee e fermenti ideali.
Cosicché voglio prendere spunto da quell’ultima delle considerazioni sopracitate riguardo alla presenza nel popolo russo, malgrado tutto, di «santi». Di uomini così, cioè «giusti», in Russia ce ne sono sempre stati, prima, durante e dopo l’Ottobre 1917, durante il leninismo-stalinismo, nella gloriosa stagione del cosiddetto «dissenso» poststaliniano e non mancano neppure adesso. Questi «giusti» non hanno mai cessato di nutrirsi dei libri, dei grandi libri – opere letterarie o saggi di varia indole – proibiti in urss e pubblicati nella vasta diaspora russa, e il discorso vale anche per le altre diaspore nazionali in forzato esilio. Con Gorbačëv, con El’cin, e certo anche con Putin queste opere sono tornate o stanno ritornando in patria, vengono pubblicate e ripubblicate dalle case editrici ormai libere dalla ferrea censura ideologica di un tempo. E i loro autori vengono riabilitati e adeguatamente onorati, sia pure post mortem. E il patrimonio così recuperato alimenta approfondimenti e dibattiti di voci libere praticamente su ogni cosa dell’«universo-mondo». I mezzi di comunicazione di massa, vecchi, nuovi e nuovissimi, riflettono una vita culturale vivace e sicuramente non omologata in un «pensiero unico» obbligatorio.
Anche il lavoro di Svetlana Aleksievič, certo caratterizzato un tempo da non trascurabili sacrifici e difficoltà, ha potuto godere di questa epocale e inaspettata svolta del 1989-1991.
È stato per me un vero piacere tornare a parlare di cose russe nell’ambiente degli amici della Cooperativa cattolico-democratico di cultura. Non posso dimenticare che a metà degli anni Ottanta, quindi più di trent’anni fa, la Cooperativa ospitò due validi storici russi espulsi dall’urss proprio per i loro lavori eterodossi, Aleksandr Nekrič e Michail Geller. Ebbene, il poderoso e finalmente veritiero libro sulla storia dell’Unione Sovietica da loro scritto a quattro mani, oggi apprezzato come merita e ristampato ovunque, e anche in Italia e in Russia, si intitolava proprio L’utopia al potere.
I tempi della grande storia e del maturare di una visione più equanime del passato capace di ispirare scelte più accettabili per il presente e il futuro, nonostante la catastrofe antropologica di 70 anni di «socialismo reale», possono essere molto lunghi, e il loro corso contraddittorio, tortuoso e anche rovinoso… ma da subito in tante delle storie dei «piccoli», cui si è dedicata Svetlana, rifulge spesso quella «sapienza del cuore» che trova alimento nella tensione verso la giustizia-verità (pravda), nell’amore che, mai disgiunto dalla sofferenza, può infondere comunque coraggio e vigore. Una sapienza che sa aspettare e sperare. In questo, soprattutto, vedo il grande dono di Aleksievič ai suoi lettori ed estimatori.
Sergio Rapetti *
*Traduttore, studioso della letteratura e cultura russe, ha promosso e tradotto in Italia decine di opere di importanti autori di quell’area linguistica, in epoca sovietica e post-sovietica e fino ad oggi.
Il 26 maggio 2016 presso la libreria dell’Università Cattolica, sede di Brescia, è stato presentato il libro di Svetlana Aleksievič Il male ha nuovi volti. L’eredità di Černobyl’ (progetto editoriale della CCDC per i tipi dell’Editrice La Scuola, Brescia), che contiene tre discorsi della Premio Nobel 2015 per la Letteratura, due dei quali pronunciati a Stoccolma in occasione del conferimento del Premio. Integrano il volume contributi di Goffredo Fofi, Alberto Franchi e Sergio Rapetti. Viene qui pubblicato il testo dell’intervento tenuto da Sergio Rapetti in quella occasione. Il testo è stato rivisto dall’Autore.
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