Una testimonianza dalla Shoah

Autori: Fiano Nedo

Questi attimi di riflessioni ci sono perché mi sto domandano da che parte cominciare.

“Aussteigen! Alle unten! Los! Bewegung! Bewegt euch! Alle Pakete hier lassen”. Queste “dolci” parole, pronunciate da un infame “SS” volevano dire nella nostra lingua: “Scendere, scendere! Presto, presto!” e di lasciare tutte le nostre valigie e i nostri bagagli nel treno. Noi avevamo avuto una drammatica esperienza di sette giorni e sette notti in un vagone che non riesco nemmeno a definire tanto era rivoltante: tanto era impossibile respirare. Eravamo cinquantasette persone per vagone e in sette giorni abbiamo fatto un lunghissimo percorso: dal campo di Fossoli ci hanno portato poi a Verona, da qui al Brenner Pass e dal Brenner Pass abbiamo attraversato l’Austria abbiamo attraversato la Cecoslovacchia per poi arrivare in Polonia. Un viaggio sui 1300-1500 kilometri nel quale noi non riuscivamo assolutamente a capire dove fossimo perché tutte le stazioni erano mimetizzate e non ci dicevano nulla. Noi abbiamo vissuto nelle condizioni più terribili, con sporco di ogni genere. Pensate che il vagone aveva alle due estremità due grossi contenitori per i bisogni fisiologici. E questo potrebbe sembrare addirittura un’attenzione: in realtà i vagoni oscillavano durante il percorso e questi rovesciavano sul pavimento escrementi, urina e sangue che poi non potevano uscire, non potevano cadere fuori dal vagone perché naturalmente il pavimento era fatto in maniera che tutto fosse possibile. Il giorno dopo la partenza è morto un signore: è stato disteso per tutto il tempo del viaggio; il suo volto da color carnicino è poi diventato giallo, poi viola, e non so quanti altri colori. Non riuscivamo a percepire dove ci trovassimo, non riuscivamo a capire quanto dovevamo ancora viaggiare. Eravamo sporchi, non abbiamo mai potuto cambiare gli indumenti, nessuno di noi ha mai potuto radersi. Io non avevo la barba, ma per chi l’aveva era un problema. C’è stato un progressivo decadimento: eravamo sempre meno umani e sempre più animali. Vi do un esempio: il nostro convoglio ogni giorno si fermava, al mattino o al pomeriggio, lontano dalla stazione principale e i vagoni venivano aperti e i prigionieri potevano scendere giù per soddisfare i bisogni fisiologici. Non trovo le parole per descrivere le 600-700 persone, quanti eravamo, che si allentavano le gonne e i pantaloni per fare quello che noi normalmente facciamo al riparo da occhi indiscreti. Può sembrare una cosa da niente, ma questo è stato un colpo molto duro per la dignità di ognuno di noi. Ho visto mamma che stava allentandosi la gonna e ho subito guardato dall’altra parte. Mi dava un senso di imbarbarimento, non eravamo più quelli che eravamo saliti. Un viaggio in mezzo alla sporcizia, un viaggio con tanta paura, con tanta fame, tanta sete, tanta sporcizia. Sette giorni e sette notti ci hanno trasformato, ma non la mia mamma che aveva quegli occhi verdi, così belli, così indimenticabili; mi riferisco alla maggioranza di noi. Praticamente non abbiamo potuto dormire in quella settimana che un’ora, un’ora e mezzo, due ore, non di più. Sempre perché al ridosso della persona che ci stava davanti non potevamo piegarci. E questo tu tum tu tum tu tum: sentire questo battito continuo per sette giorni e sette notti è qualcosa di difficile da descrivere. Questo tamburellare lo si porta dietro anche quando il viaggio è finito e così è stato. C’era da parte nazista l’intenzione di animalizzarci perché quanto più noi eravamo animalizzati tanto più si giustificava questa convinzione: “Ma che cosa stanno a fare questi qui? non possiamo tenere degli scarafaggi tra di noi. Gente indegna, non può stare tra la popolazione civile, questa è gente da eliminare”. Ecco, io ho cominciato non certamente dall’inizio, come avete capito.

La nostra storia, la nostra persecuzione, è cominciata nel 1938 quando l’11 novembre i giornali nazionali, come il “Corriere della Sera”, uno dei tanti, portava a caratteri cubitali che le leggi razziali nei confronti degli ebrei erano state approvate dal Consiglio dei Ministri. Annunciato come un provvedimento d’importanza storica, un vanto per il regime, esso era stato caratterizzato da divieti che lasciano senza fiato: gli ebrei non potevano possedere la radio, il telefono, l’automobile, non potevano esercitare libere professioni, come medici, architetti, ingegneri. Era un insieme di negazioni e di proibizioni che cambiò profondamente la nostra vita. Non eravamo preparati a niente del genere: questo annuncio arrivò senza che ne avessimo percepito l’arrivo. Cambiò la vita nelle case, perché in alcuni negozi a Firenze c’era scritto su delle strisce: “Negozio ariano, vietato l’ingresso agli ebrei”. Io ero un ragazzo di tredici anni e provai un grande dolore – ne fui quasi sconvolto – di perdere tutti gli amici di scuola. Gli ebrei non potevano andare nelle scuole pubbliche, nelle biblioteche. Per me il fatto di perdere i compagni con i quali ero cresciuto fin dalle scuole elementari rappresentò proprio una lacerazione; non accettavo di non poter stare con il mio compagno di banco, un certo Palombi. E devo dirvi che mamma fu veramente una madre totale; lei si fece cura di me anche se aveva tante ferite, le sue carezze su di me avevano un effetto straordinario: mi confortavano, riuscivano a farmi dimenticare questa tragedia che ogni giorno si manifestava in articoli di giornali, nella radio. In una città come Firenze, di 150.000 abitanti, noi eravamo 1500 ebrei. In tutta Italia gli ebrei non erano un milione, nemmeno mezzo milione, nemmeno 200.000, ma in tutta Italia gli ebrei erano scarsamente 38.000. E fummo travolti da questa cosa, la nostra vita cambiò: papà ha perduto il suo lavoro come dirigente alle poste, mamma che aveva messo da parte una deliziosa pensione (avrà avuto sei stanze), ha dovuto chiuderla, io ho perduto la mia scuola. L’unico che ha continuato a lavorare è mio fratello, che era in un grande albergo fiorentino, ed è rimasto al suo posto, anzi poi lui fu arrestato proprio in albergo.

Ecco, come si può descrivere il cambiamento di una vita serena quale è stata la nostra? Posso descriverlo in una fotografia. Noi eravamo una volta abituati all’ora di cena – c’erano mia mamma, mio papà, mio fratello ed io – a raccontarci le cose più svariate. Io ero un ragazzo di tredici anni, nel ’38. Il nostro tavolo divenne un tavolo silente. Nessuno voleva parlare di cose tristi, ma non si potevano inventare delle cose allegre, e quindi prevaleva un silenzio che finiva per demolire il ricordo di quelle belle serate di un tempo. Ma la cosa che accompagnò la persecuzione e che fu per tutti gli aspetti peggiori è che c’era poca solidarietà, ci fu poca condivisione, cioè le leggi erano dure, cattive, però toccavano meno di quanto ci toccava il comportamento di qualcuno che era stato nostro amico. Un esempio: io scendevo le scale con mamma qualche volta e incrociavamo qualcuno che in passato era stato un cordiale amico e che ci aveva tolto il saluto. Questa era una ferita lacerante: perché ci toglie il saluto? Non c’è una legge che obblighi a non salutare gli ebrei. Mamma, ricordo, fece una cosa della quale si occupò tutto il nostro palazzo: una volta la settimana invitava qualcuno del condominio per venire a mangiare nella nostra pensione e per assaggiare i manicaretti che faceva; era molto brava. Questa cosa, se volete, era quasi insignificante però creò un rapporto di grande amicizia con tutti. Quando ci vedevano per strada oppure per le scale ci dicevano: “Buongiorno signora Nella, come sta signora, tutto bene? suo marito?”. Ecco voi direte che non era una tragedia, è vero, non lo era. Però non era certamente una cosa che ci aiutava a capire la situazione ed ad accettarla.

E così è andata avanti: la Germania invase la Polonia, nel 1939, e l’Italia entrò in guerra nel 1940. Qualcuno ha detto che tutte le guerre sono un atto di violenza e di cattiveria, ed è profondamente vero. L’Italia entrò in guerra con l’alleato. Si è battuta in Europa, in Africa, su vari fronti. Ha vinto e perso. Poi nel ’43  la caduta del fascismo, ricordo il 25 luglio del 1943. Lo ricordo con un attimo di suspense. Ricordo mamma che andò in strada a gridare. Era felice ed era convinta che fossero finite le leggi e che saremmo ritornati ad essere i cittadini di un tempo. E invece è successo che l’Italia, che ha firmato l’armistizio con gli alleati a Cassibile l’8 settembre, determinò una violenta reazione da parte dei tedeschi perché si sentirono traditi ed occuparono prevalentemente l’Italia centro-settentrionale con qualche punta anche al sud. E cominciò naturalmente la caccia agli ebrei che la Germania aveva già da qualche anno sulle spalle.

Ma qual era la profonda differenza tra le leggi fasciste e quelle naziste? Secondo i nazisti gli ebrei non dovevano essere emarginati ma dovevano essere eliminati. Questa è una differenza profonda che mette in chiaro anche il comportamento degli “SS” che al mattino dell’11 novembre del 1943 bussarono alle porte violentemente. Le porte quando venivano aperte venivano abbattute. Presero bambini, giovani e vecchi, malati e sani. Presero 1200 ebrei in quella indimenticabile mattinata. E di questi 1200 ebrei ne sono tornati 7 alla fine della guerra. Checché dei campi di sterminio dicano certi fanfaroni secondo i quali non erano dei campi di sterminio ma dei campi per disinfettare le nostre uniformi. Ecco, questa incursione nel ghetto di Roma fu fatta con estrema violenza: quando io dico che hanno catturato 1200 persone, non insisto nel dirvi che hanno preso a calci donne e vecchi, giovani e uomini, tutti a calci come fossero stati degli animali da portare al mattatoio. Questo è importante: volevano ammazzare questa gente, perché volevano anche infierire?  Questi ragazzi vedevano picchiare le loro madri o le loro nonne. È una cosa che dire terrificante è poco. Comunque fu il segnale che la caccia era iniziata. Pensate che gli ebrei vennero cercati negli ospedali, negli ospizi, nelle scuole, nelle chiese, ovunque fosse possibile che qualcuno si fosse nascosto. Andavano a prenderli di giorno e di notte. Abbattevano le porte, usavano violenza nei confronti di tutti, cioè volevano dimostrare di essere forti, grandi e vincitori. Intanto la guerra avanzava e iniziavano a sentire il morso del nemico che davano già per vinto ma che vinto non era per niente.

Che cosa è accaduto dopo l’incursione e la razzia nel ghetto di Roma? Noi non abbiamo avuto subito questa notizia perché non avevamo il telefono; c’è stato un po’ un passaparola. Qualcuno, evidentemente qualche cattolico, l’ha appreso e poi l’ha diffuso, così l’abbiamo saputo. Amici di mamma e di papà, no so dire chi, dissero che l’indomani mattina sarebbero venuti ad arrestarci. Quando dico questo dico una delle cose che non mi abbandoneranno mai: questa frase che domattina verranno ad arrestarci. Io ricordo che mamma fu presa da una paura, da una crisi di pianto perché non poteva accettare una cosa del genere, una donna che ha vissuto una vita di lavoro e di grande onestà e viene ripagata dalla polizia che viene ad arrestarla.  Ricordo che mamma mise tre valigie sul tavolo: per papà, per me e per lei. Metteva le cose che si poteva supporre utili nel caso di una fuga. Ma il particolare era che mamma quando aveva riempito una valigia la vuotava e metteva dentro altre cose, e questo più volte. Papà era in un angolo che la guardava; papà in questi casi diventava livido e soffriva a vedere una cosa del genere. Una cosa che vorrei dirvi ancora prima di parlarvi della fuga: che cosa vuol dire lasciare una casa dove si è nati e cresciuti, dove si è lì da trent’anni, una casa piena di ricordi, di fotografie ed oggetti, abbandonarla come se fossimo stati degli assassini. Ricordo papà che disse: “Nella Nella! Dobbiamo fuggire!”, perché mamma continuava a svuotare e riempire. E siamo fuggiti. Io ricordo quando papà ha messo la chiave nella toppa della porta e l’ha girata: sembrava che non fosse la porta ma fosse un cane che salutava il padrone che andava via. Era veramente sconvolto. Mi sentivo al di sotto della situazione. Mi rendevo conto che non potevo fare assolutamente nulla per difendere la mamma che aveva già cominciato a mettere i capelli chiari: lei aveva occhi verdi e capelli neri corvini. Dalle leggi in avanti lei aveva sofferto moltissimo.

E comunque ci siamo trovati sulle scale frettolosamente con una valigina. C’era il coprifuoco e non si poteva stare nelle strade dopo le nove, nove e mezza, non ricordo più. E quindi, rasentando i muri, abbiamo cercato di andare dagli amici che presumibilmente ci avrebbero accolto; avessimo avuto il telefono sarebbe stata una cosa molto più facile. Che cosa hanno detto gli amici? Non hanno detto: “Non possiamo accogliervi”. Hanno cominciato a dire: “Noi vorremmo accogliervi, ma abbiamo dei bambini e se un cattolico ospita un ebreo questo cattolico la pagherà cara perché le leggi vietano questa assistenza”. Non so quante porte si sono aperte e poi richiuse, seppure con parole affettuose, ma eravamo arrivati un po’ avanti nella notte e pensavamo di ritornare a casa. E papà ha detto: “Proviamo ancora qui in via dei Barbi” (è una via lungo l’Arno all’altezza del Ponte Vecchio per chi conosce Firenze). E allora abbiamo suonato ed è venuto alla porta un signore che ha detto: “Grazie a Dio siete venuti a casa nostra! Venite, venite! Voi siete i Fiano. Voi qui non sarete degli ospiti, sarete parte della nostra famiglia!”. Mamma, che era una signora molto contenuta, non ha potuto arrestarsi e l’ha abbracciato con molto affetto e riconoscenza. Siamo stati lì, siamo stati incauti. Anna Frank è stata per ventitré mesi in una soffitta sopra l’ufficio con il papà e con gli zii, ed è stata arrestata anche lei perché un’anima buona ha parlato.

Su queste “anime buone” che parlano vorrei dire brevissimamente che per ogni ebreo che la polizia arrestava grazie alla delazione di un cittadino c’era un premio di 5.000 lire in contanti, più un kilo di sale. Il sale a quel tempo era una cosa rarissima. Che cosa è successo? Io sono stato arrestato. Mamma e papà pure. Mio fratello, la moglie e un bambino di diciotto mesi sono stati arrestati. Mia nonna, novantenne, è stata arrestata. E mia zia, sorella di mio papà, col marito e due figli, pure è stata arrestata. Voglio soltanto sottolineare un caso particolare: mia zia era andata a fare la spesa. Fra le tante cose c’era il bisogno di procurare del cibo; non avevamo più le tessere e le carte annonarie, quindi era una situazione molto delicata. Qualcuno l’avrà vista perché mamma andava a fare la spesa nello stesso quartiere dove avevamo vissuto. Come posso descrivere in parole sintetiche cosa vuol dire entrare in carcere a diciannove anni senza aver fatto niente, in una cella che era per quattro detenuti ed io ero l’undicesimo. Era il mese di febbraio. Distesi per terra il cappotto. Una voce mi ha chiamato:

– Ma tu cosa hai combinato?

– Non ho combinato proprio nulla!

– Tutti quelli che vengono qui dicono sempre che non han fatto nulla. Raccontaci cosa hai combinato.

– Io non ho combinato proprio nulla. Sono stato arrestato come ebreo.

– Ah, sicché sei ebreo! Ma lo sai che vi ammazzano tutti?

Ad un certo punto, dall’altra parte della cella, una voce ha detto: “Chi è l’infame che ha parlato?”. “Sono stato io!”. E sono scappati dei pugni. La mattina dopo quell’uomo aveva tutto il volto tumefatto. “Sei un vigliacco, non si dicono queste cose a un ragazzo”. In realtà aveva detto la verità. Io confesso che non sapevo niente. Ero tutto preso da queste persecuzioni italiane e non sapevo che si stava portando avanti un processo di eliminazione di persone giovani, vecchie, sane e malate. Dunque, dopo sono stato portato al campo di Fossoli ed in un giorno miracoloso ho visto arrivare mamma e papà. Vorrei dire che questo ha rappresentato nella mia avventura un episodio straordinario: non credevo ai miei occhi. Ho visto un gruppo di prigionieri arrivare da fuori e ho chiesto: “Ma da dove arrivano questi?”. E risposero: “Da Firenze!”. Ho frugato in mezzo a questa gente e ho visto mamma e papà. È stata una cosa incredibile. Non credevo fosse possibile, ero convinto che ormai non li avrei più rivisti. Quindi ho abbracciato la mamma con tutta la forza che avevo e lei mi ha accarezzato e baciato, con quegli occhi meravigliosi. “Come stai mamma?” le dissi. “Sto benissimo, guarda, non mi hanno fatto assolutamente nulla. Anzi, guarda, ti ho portato questi due vasetti di marmellata”. A Fossoli non si ammazzava nessuno però eravamo tanto affamati. Ricordo di aver divorato questi due vasetti di marmellata in un lampo. Mamma era così felice e soddisfatta di vedere suo figlio che mangiava con grande piacere. Siamo stati portati nella baracca, abbiamo vissuto nel campo di Fossoli per, penso, due o tre settimane. Mio fratello, con la moglie e il bambino di diciotto mesi, era partito per Auschwitz il giorno prima del mio arrivo. Trovai ancora la targhetta con scritto il suo nome. Dopo due o tre settimane il comandante del campo di Fossoli, al mattino all’appello – sapete cosa vuol dire vedere mia mamma stare sull’attenti senza guardare davanti? – ha detto: “Sarete portati in Germania per collaborare alla vittoria finale”.

E l’indomani siamo stati portati alla stazione su questi vagoni di cui vi ho parlato. Noi non sapevamo niente di Auschwitz. Non sapevamo che gli ebrei venivano bruciati come legname, eravamo lontani dall’immaginare una cosa del genere, al di là di ogni possibile intuizione. Sapevamo che probabilmente avremmo sofferto la fame e la stanchezza, ma anche la vita non era in discussione. Il viaggio è durato sette giorni e sette notti. Si fa fatica a spiegare come sette giorni e sette notti si possono trasformare in sette settimane, in sette mesi, perché è un tempo indeterminato. Quanta sporcizia in quel vagone, che infamia! Io soffrii molto per mia mamma, vedendola in quelle condizioni. Era una donna di tanta dignità. Che cosa è accaduto? Dunque mia mamma mi ha detto: “Nedo, Nedo abbracciami! Non ci vedremo mai più!” perché era stato dato il comando: “Uomini a sinistra e donne a destra!”. Allora mia mamma mi ha abbracciato con tanta intensità, ogni tanto sogno questo abbraccio. Mi sembrava di dover rientrare nel suo corpo come era stato nella mia nascita. Mi sembrava di appartenere a lei più che a me stesso. Per me il ricordo di mamma è un ricordo lacerante, mentre quando penso a papà questo è un ricordo serio ma non è lacerante. Io mi sentivo colpevole di non poter difendere mamma. Quando sono sceso giù dal vagone, quando sono saltato giù, ho visto tutto il convoglio, ho visto che il convoglio rovesciava giù la gente perché questi infami, che avevano nella destra un bastone e nella sinistra tenevano un dobermann, quando vedevano delle esitazioni bastonavano. Non ho visto mia mamma bastonata, assolutamente, anzi è stata aiutata dal papà a scendere. Ma se l’avessi vista bastonata, non so se sarei stato capace di trattenermi. In questo abbraccio mamma ha messo il punto a un lungo discorso, a una lunga sofferenza.

Poi l’ho vista andare avanti, verso un gruppo di due ufficiali e di tre sottufficiali. Ognuno doveva venire avanti, uno per uno, e questi ufficiali dicevano se dovevano andare da una parte o dall’altra. Non era assolutamente pensabile cosa ci fosse da una parte e cosa ci fosse dall’altra. Eravamo ad Auschwitz e non avevamo capito che cosa c’era in questa ciminiera dalla quale venivano fuori una fiamma altra quattro metri o più. Mia mamma è andata avanti. L’hanno mandata verso il crematorio numero 2, ma nessuno sapeva che esistessero i forni crematori. C’era la parte anteriore del forno crematorio, era un piazzale verde della grandezza di questa sala, un po’ di più, e naturalmente sono stati ad aspettare ma non so di che cosa avranno parlato. Dopo credo un paio d’ore, li hanno fatto scendere giù, nella parte sotterranea di questo forno, e lì sono entrati in una sala grande che poteva contenere anche sette-ottocento persone. Tutto il perimetro della sala era coperto da dei ganci e i ganci portavano un numero progressivo. Hanno gridato di spogliarsi e questa è un’altra cosa che mi è difficile descrivere: che cosa vuol dire che centinaia di persone si devono spogliare, i nonni davanti ai nipoti, le madri davanti ai figli e via dicendo. Comunque, ormai, la trappola stava per chiudersi o era già chiusa. Si sono tutti spogliati. Anche questa è una scena che non riesco a vedere bene. Sono stati poi fatti passare in una seconda sala. In questa seconda sala il perimetro era coperto da ganci con numeri progressivi e a un certo punto si sono chiuse le porte. Si sono spente le luci. Tutti stavano aspettando di fare la doccia, aspettavano quest’acqua come un fatto grandioso. Invece dell’acqua sono state introdotte delle canaline, devo leggere perché non riuscirò mai a ricordarlo: granuli di silicio impregnati di acido cianotico che a 27 gradi centigradi vaporizzavano e davano la morte in cinque minuti. Cinque minuti di asfissia sono una cosa che non si può purtroppo rappresentare, non si può descrivere a parole, se non che cominciavano ad avere difficoltà respiratorie. Poi c’erano quelli più forti e meno vecchi che cercavano di camminare sui corpi di quelli più anziani per cercare di respirare l’aria che aveva ancora dell’ossigeno. Comunque, dopo cinque minuti era finita. Allora con queste centinaia di morti accatastati nelle posizioni più inverosimili, con la testa in giù, da una parte dall’altra…venivano aperti gli sfiatatoi per far uscire il gas, perché doveva venire una squadra di uomini della SonderKommando, che in tedesco vuol dire “squadra speciale”, che doveva –  anche qui uso un verbo che non mi convince, “trattare” questi cadaveri. Avevano una sistola ad acqua per estrarre uno per uno questi corpi avviluppati. C’erano tre gruppi di questi uomini SonderKommando: uno era quello che avrebbe dovuto tagliare i capelli alle donne, uno che strappava i denti d’oro ai cadaveri e poi un altro gruppo che faceva ispezioni anali e vaginali per vedere se qualcuno aveva nascosto gioielli o denaro. Tutto questo naturalmente su centinaia di uomini non era una cosa da fare con rapidità, anche se i tempi erano tutti calcolati e dovevano essere rispettati come in una fabbrica di automobili. E allora a un certo punto, finita questa cosa, questi corpi venivano portati agli ascensori, in ragione di tre per volta, al piano superiore dove era in attesa la fila. I forni crematori bruciavano ventiquattro ore su ventiquattro, senza sosta. E questi corpi venivano infilati, come si fa nelle pizzerie: invece della pasta, sulla pala infilavano i corpi tre alla volta. Naturalmente c’era un’apertura molto grande che poteva consentire l’introduzione di tre corpi. Acceso il forno, si produceva una temperatura di oltre novecento gradi centigradi; per fare un paragone non troppo riguardoso, nelle pizzerie i gradi nel forno sotto intorno ai trecentocinquanta, quindi tre volte superiore, e anzi le autorità del campo volevano alzare la temperatura perché più alta era la temperatura tanto minore era il tempo. Occorrevano cinquanta minuti per ridurre in cenere tre corpi. Le ceneri si raccoglievano sul fondo in appositi contenitori che venivano prelevati da dei camion che erano ribaltabili e che portavano queste ceneri sulla Vistola. Siccome io ero nel corpo degli interpreti, sono andato là e ho visto i pesci che saltavano fuori dalla gioia perché le ceneri venivano utilizzate in due maniere: o per concimare i campi, intorno al lager, o per dare da mangiare ai pesci. Anche qui ci sarebbero molte considerazioni: questi pesci nutriti dalle ceneri in larga misura venivano pescati o proprio a ridosso del campo o anche dopo perché questo grande fiume Vistola, che nasce dai Carpazi e attraversa la Polonia da una parte all’altra, da est a ovest, finisce nel mar Baltico. E non so quante di queste ceneri saranno arrivate nel mar Baltico, ma per tutte quelle che sono state mangiate dai pesci deve essere stata una cosa incredibile, perché questi pesci saranno andati a finire nella mensa militare di qualche struttura locale, saranno finiti nelle case dei polacchi, concimate con le ceneri dei nostri genitori. Una cosa che trascende ogni possibile fantasia. Ecco, mamma è finita così: o nelle pance di questi pesci o indirettamente nei corpi dei polacchi o dei tedeschi che hanno mangiato le ceneri.

A me e papà le cose sono andate diversamente: papà era un uomo di due metri, un fisico prestante, ha dichiarato che era più giovane di quanto in realtà fosse; io avevo diciannove anni e non mi hanno chiesto niente. Ci hanno tatuato il numero sul braccio, dato la casacca, gli zoccoli, il berretto e tutto quanto e poi sottoposti a una disinfezione totale. Ci hanno poi portato nel campo della “Quarantena”, che è una cosa sacrosanta che succede in tutto il mondo e in tutti i tempi, solo che ad Auschwitz aveva una finalità che era poi la finalità del campo: portare a morte migliaia di persone. Sì, perché quando nelle condizioni medie un uomo ha bisogno di 4.000-4.200 calorie al giorno, là nel campo di Auschwitz queste calorie erano 1.800 e nella “Quarantena” erano 950. Il nostro corpo, se non riceve la quantità di calorie di cui ha bisogno, mangia sé stesso. E lo dimostra il fatto che le cure dimagranti sono quelle che danno subito l’effetto di un corpo più magro. Solo che con 900-980 calorie per due o tre settimane i prigionieri riuscivano un po’ traballanti, più morti che vivi. Ecco a me e a papà non è accaduto questo. Siamo stati accompagnati in una baracca dove c’era la distribuzione della zuppa accompagnata dalle loro urla. Io insisto nel farvi sentire queste urla, ma non per godimento mio ma perché ad Auschwitz nessuno parlava. I cosiddetti kapos dovevano gridare dalla mattina alla sera e le loro corde vocali erano distrutte. Allora abbiamo preso un contenitore per mangiare questa zuppa: con la fame che ci ritrovavamo avremmo mangiato anche i sassi. Ho visto papà che metteva la faccia dentro per mangiare la zuppa e io allora ho chiesto: “Per favore, un cucchiaio!”. Mi hanno risposto: “Questo è un campo di sterminio, non ci sono né coltelli né forchette!” e ho ricevuto una prima bastonata sulla spalla destra che è tuttora vivace e si fa sentire, ed è quella che mi consente di affrontare tanti problemi della vita. Tutte le volte che mi lamento, mi dico: “Ricordati come è andata”.

Allora abbiamo mangiato; che dico, divorato questa zuppa in condizioni bestiali e a un certo punto il solito grida: “Achtung!” (“Attenti!”), ed è entrato un ufficiale con stivali lucidissimi e con un’uniforme impeccabile. Eravamo tutti in piedi guardando un punto all’infinito perché noi non avevamo il diritto né di parlare né di guardare un SS. Questa potrà sembrarvi una mia personale esagerazione, ma nei campi di sterminio era proprio così. Noi ci siamo alzati e questo ci ha guardato come si guarda un oggetto, non delle persone. “Abbiamo bisogno di qualche interprete! Chi parla qui il tedesco?”. A questo interrogativo alcuni dei miei compagni di viaggio si sono precipitati per sottoporsi a un esame, ma lui non faceva un esame, dava dei grandi calci negli stinchi, tant’è che quelli tornavano indietro zoppicando. Allora io non avevo il coraggio di sottopormi a questo esame.

Un piccolo passo indietro; no piccolo: a me insegnò il tedesco mio nonno. Mio nonno insegnava il tedesco in inglese. Era cieco, non vedente. Al colloquio non si preoccupava di come si scrive e l’inglese e il tedesco (perché non ci vedeva), ma lui insegnava a colloquiare. Io avevo resistito disperatamente, non volevo sentirne parlare.

Comunque, arrivati a quel punto, io non mi sentivo in condizioni di superare un dialogo con una canaglia del genere. A un certo punto ho sentito dietro le spalle la mano del nonno che mi spingeva verso di lui (il nonno era morto ormai da diversi anni). Naturalmente nessuno mi crederà, è da psicanalisi questa cosa (è chiaro che io ho lavorato interiormente questa cosa): mi ha spinto verso costui che è indietreggiato, ma è indietreggiato con un certo sorriso e mi ha domandato:

– Di dove sei?

– Sono un italiano, signor Maggiore!

– Sì, va bene, ma dove sei nato?

– A Firenze.

– Incredibile, sei veramente nato a Firenze?

– Sì, signor Maggiore!

– Caro amico – signori, nel campo di sterminio di Auschwitz un Maggiore delle SS che mi ha detto “caro amico”! Non ci crederete, ma è andata proprio così, altrimenti non sarei qui a parlarvi. Evidentemente lui ha avuto a Firenze un’esperienza straordinaria e io gli ho risvegliato il ricordo di giorni felici –  sono stato tante volte a Firenze, la più bella città italiana.

Questo del “caro amico” ho intenzione di utilizzarlo come titolo di un libro: è una cosa incredibile: un Maggiore delle SS che ha dato del “caro amico” a me che ero uno scarafaggio. Comunque, è andata così: sono stato arruolato nella squadra degli interpreti che doveva essere presente giorno e notte, in due turni alternati, sulla rampa, cioè su quel tratto di campo dove si fermavano i treni che portavano un’umanità dolorante da tutte le parti d’Europa. Tutta l’Europa rovesciava gente lì, quindi Belgio, Francia, Olanda, Italia, Jugoslavia, Ungheria, insomma tutta l’Europa. Ora, che cosa voglio dire? mi convinco sempre di più che siamo governati dal caso perché io potevo essere nato a Ferrara e non sarei qui a parlare stasera. Evidentemente c’è qualcosa che noi non possiamo capire.

La vita del campo era dominata non dalla paura ma dal terrore. Il nostro corpo finché abbiamo paura ci ubbidisce, ma quando abbiamo terrore non ci ubbidisce più. Questo lo dico perché ho visto molti casi di prigionieri il cui comportamento non era assolutamente prevedibile ma ha determinato delle situazioni incredibili. Qui lo dico con parole che non sono mie ma di Pessoa: “Eravamo randagi in tutto, perfino nel nostro animo. Ci sentivamo al ponente di tutte le emozioni, la nostra vita ci pareva come una giornata di pioggia lenta, in cui tutto e senza colore e in penombra. Ci sentivamo terribilmente vicini al cuore della tristezza, eravamo rimasti abbandonati a noi stessi, nella desolazione di sentirci vivere; eravamo maestri del nulla, capaci di conservare un qualche equilibrio nel vuoto più totale. La realtà ci mancava. Avevamo preso congedo dal lei, senza nemmeno volerlo”. Notate che ci sono delle definizioni di grossa forza poetica, come quando Pessoa dice: “Ci sentivamo al ponente di tutte le emozioni” e “la desolazione di sentirci vivere”. Cioè non avevamo più una capacità reattiva immediata del male, eravamo posseduti permanentemente da questo male. Eravamo abbandonati a noi stessi, non c’era più un punto d’appoggio.  Io capisco molto bene, eravamo desolati, eravamo “maestri del nulla”.

Ora devo leggervi ancora una cosa, del mio amico Primo Levi, ma prima voglio raccontarvi di lui: un uomo che ha vissuto un grande, grandissimo miracolo come tutti noi che siamo tornati. Ma in più ne ha vissuto un altro: lui, dopo la liberazione nel campo di Auschwitz (io poi fui liberato nel campo di Buchenwald), ha fatto un viaggio terribile di cui ha scritto con rara capacità narrativa e si è diretto verso Torino, è arrivato a casa sua e salendo in cima alle scale c’era sua mamma che lo aspettava. Questo è un sogno che io ho fatto un milione di volte, e chissà quanti altri prigionieri l’hanno fatto, ma lui l’ha vissuto.

“Voi che vivete sicuri / Nelle vostre tiepide case, / Voi che trovate tornando a sera / Il cibo caldo e visi amici: / Considerate se questo è un uomo / Che lavora nel fango / Che non conosce pace / Che lotta per mezzo pane / Che muore per un sì o per un no. / Considerate se questa è una donna, / Senza capelli e senza nome / Senza più forza di ricordare / Vuoti gli occhi e freddo il grembo / Come una rana in inverno”. Sono delle definizioni meravigliose.

“Meditate che questo è stato: / Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / Stando in casa andando per via, / Coricandovi alzandovi; / Ripetetele ai vostri figli.”

Noi abbiamo vissuto situazioni al massimo estremo della sopportazione: quando vi dico di questi convogli che rovesciavano migliaia di persone al giorno in quel campo, io non vi ho detto lo spettacolo. Per esempio nei convogli che arrivavano dalla Grecia le persone non stavano sui vagoni sette giorni e sette notti, ma arrivavano a stare quindici – venti giorni nei vagoni. E quando noi aprivamo questi vagoni, su quelli della Grecia almeno un terzo erano morti.

E vorrei ancora porre una domanda: come si può stare in un vagone con un trenta per cento di morti? Non convivere con la morte ma respirarla la morte. Domandarci se si è ancora vivi. Ora, a me sembra che coloro – sono parole di Wiesel – che non hanno vissuto quell’esperienza non sapranno mai che cosa sia stata; quelli invece che l’hanno vissuta non riusciranno mai a dirla, non veramente, non fino in fondo: questo è sacro. Loro avevano organizzato un campo per eliminare persone: si chiamava “lager” e per condannare i viventi a vivere in prossimità della morte. Dice sempre Levi che se non c’era la fortuna di lavorare in condizioni particolari la vita media da due mesi a due mesi e mezzo: per me è fin troppo generoso. Cioè sapevamo tutti di dovere morire: questo è il punto. Mentre alla guerra in qualche maniera uno può difendersi con un’arma, noi invece sapevamo di dover morire. Noi eravamo candidati alla morte e questo aveva un’influenza estrema sul nostro comportamento. Non tutti però, non tutti: il proverbio che girava nel campo era: “Non pensare”. Cioè secondo l’opinione dei vecchi, che poi non erano vecchi ma erano quelli arrivati prima, il pensare era un’attività che uccideva, cioè che tagliava alla radice quest’albero della fiducia, dell’ottimismo.

Ora io vi racconto un fatto personale vissuto. Io avevo due condizioni che mi hanno aiutato: la prima fu quella di essere nel corpo degli interpreti e la seconda è che feci il cantante; il cantante non per la guarnigione degli SS, ma per i prigionieri. Nelle baracche alla sera il comandante della baracca riuniva quattro o cinque altri Blockaltesten e io cantavo loro le canzoni italiane inventando le parole perché tanto quelli non capivano, e così arrotondavo il mio cibo. Ma soprattutto non avevo distrutto la mia fiducia di venirne fuori. Non è che io menassi vanto di questo, non è che fosse una condizione continua: avevo anch’io delle cadute, però mi sembrava che fosse importante riuscire a non essere divorato dalla fame. La fame distrugge le resistenze interne di un uomo e ridurre la capacità reattiva dell’uomo era fatale. Io per esempio sono ancora sottoposto all’effetto “neve”: ero a Torino due giorni fa, belle le Alpi, bella la neve, ma io quando tocco e vedo la neve ho la sensazione di tornare veramente indietro. Vi è proprio la sensazione di un’offesa, la sensazione di un flashback, cioè del ritornare indietro. Perché, vedete, la neve in Polonia aveva questa particolarità: di distruggere tutti i colori esistenti e di far vivere in una luce accecante, di un bianco aggressivo; la neve mi riporta a quel tempo. La stessa cosa quando piove e soffia. Io posso dirvi che per un anno e mezzo o due quando pioveva io non potevo usare l’ombrello. Abituato a quell’esperienza, dato che l’ombrello per i prigionieri non esisteva. Come ho avuto un grosso handicap a dormire su un materasso troppo morbido.

Dunque io ho attraversato la Germania, sono stato uno fra i primi a essere evacuato dal campo di Auschwitz-Birkenhau  e mi hanno portato a Danzica, nel campo di concentramento di Stutthof. Noi avevamo queste nostre uniformi e a un certo punto siamo arrivati a ventitré gradi sotto lo zero; i nostri amici morivano, non riuscivano nemmeno ad arrivare sul luogo dove lavorare. Poi da quello mi hanno portato nel campo di Echterdingen, che è il campo di aviazione di Stuttgart, dove invece le cose sono state capovolte completamente. È stata una pausa importante. Siamo arrivati in questo campo e in una carretta c’era un albero di Natale, con tutti i colori e i palloncini, era una cosa per cui io non credevo ai miei occhi, mi sembrava di sognare. Poi quando siamo entrati dentro il campo, in quadrati, c’era il comandante che prendeva il segno e parlava al suo ufficiale. Ha segnato cinque di noi e io credevo che lui volesse dare un esempio di disciplina, invece li ha mandati ad un ospedale a Stoccarda perché li ha visti molto deperiti. Erano militari della Luftwaffe, non erano SS. E dopo quindici giorni sono tornati irriconoscibili, trasformati, con gli occhi pieni di vita Io ero stato invitato a cantare al compleanno di un comandante. Io e un ungherese, accompagnati da una sentinella, siamo andati in una baracca, dove c’era un tavolo lungo e pieno di cose da mangiare, però non potevamo portare niente fuori da quella stanza. Io, poi, ho preso posto vicino alla sentinella e le ho detto che avevo un compagno molto affamato nella baracca; che ero molto imbarazzato a mangiare, che gli chiedevo il permesso di portare qualcosa fuori e lui mi ha detto: “Va bene,vai!”.

Tra l’altro era il fratello di Terracina; gli ho detto: “Cesare! Cesare, vieni! Ti ho portato la zuppa! Dai, non fare…”; ma era morto e non ho potuto dargliela. Poi abbiamo fatto altri due o tre canti.

Siamo finiti, successivamente, al campo di Buchenwald dove avevano spento il forno crematorio da due giorni o tre perché c’erano gli americani che stavano arrivando ed essi erano tutti preoccupati di buttar via le uniformi per andare poi a nascondersi. E ricordo che io avevo questa gamba destra che era il doppio della sinistra, perché era divorata da un’infezione. Avevamo i letti a castello ed io ero sopra. Si è aperta la porta ed è entrato un raggio di luce fortissimo, che sembrava una spada, una scimitarra, e invece era un soldato americano. Mi sono buttato giù dal letto e, gattonando, l’ho abbracciato. Non so se ho dormito un giorno o un giorno e mezzo, non posso dirlo. So che mi sono svegliato e toccavo i margini del letto, era un lettuccio di un ospedale da campo, o qualcosa del genere. Sentivo le lenzuola, ed avevo un cuscino bianco. Poi è arrivata un’infermiera che ha detto “How are you today? “, sorridendo. Ero svenuto un’altra volta. Ecco, non voglio dirvi più di tanto, dirò che eravamo trasformati perché avevamo vissuto un’avventura terrificante in quanto sentivamo su di noi questa ghigliottina che ci stava per tagliare la testa. Alla liberazione mi ricordo che gli americani lanciavano pacchetti di sigarette e che io presi un pacchetto di Chesterfield. L’ho aperto. Sono svenuto subito.

Molti sono i fatti e le cose che avrei da raccontare. Indubbiamente aveva ragione Socrate a dire “Solo chi è stato schiavo può capire il valore della libertà”. Solo chi è stato malato può capire il valore della salute, e tante altre cose. Io mi sentivo sbattuto come in un fiume, trasportato dalla corrente, con alberi e rottami di ogni genere. Sono ritornato ad Auschwitz otto volte. Nel mese di aprile-inizio maggio, tornerò ancora una volta con dei ragazzi e i ragazzi rappresentano la vita. Il mio appuntamento con Auschwitz è un appuntamento tutto particolare: è come se cambiassi abbigliamento, come se venissi rituffato in quel passato. Io rivedo le situazioni. Ad esempio, guardando questa stoffa mi ricordo che nel campo c’era una guarnigione di millecinquecento uomini SS e un canile con un migliaio di cani, in prevalenza dobermann. I dobermann erano stati istruiti dalle SS a saltare addosso a noi, per una ragione o per un’altra. Il dobermann che saltava addosso al prigioniero gli strappava i genitali. Non credo che ci sia un dolore più grande di quello; il prigioniero si rotolava in terra e il dobermann leccava il sangue; quando il prigioniero era morto, il dobermann non leccava più il sangue.

Faccio un salto, vediamo di trovare una nota divertente. Io avevo giurato morte ai dobermann. Molti decenni dopo, mia moglie ha scoperto a Milano una parrucchiera molto brava, carina, capace, che ha tuttora un negozio con davanti un po’ di prato e una cuccia. Che cosa doveva esserci in questa cuccia? Proprio un dobermann. Io ero molto imbarazzato, perché volevo tenere fede al mio impegno, per cui quando accompagnavo mia moglie al negozio o mi fermavo sul cancello e lasciavo che entrasse lei oppure l’accompagnavo fino al negozio, però guardando da un’altra parte. E fu così per diverso tempo, finché un giorno sono entrato e mi sono seduto per aspettare mia moglie. In genere lei mi chiede: “Come mi trovi?” e io rispondo sempre la stessa cosa: “Stavi meglio prima di quando sei entrata”. La proprietaria di questo negozio, uscita fuori, ha chiamato il suo cane: “Blaky, vieni qua!”. Blaky l’ha guardata, come se dicesse: “Ma che cosa vuole?”. Lei l’ha chiamato quattro volte. Il cane è uscito dalla cuccia, ma non è andato dalla padrona: è venuto da me e si è strusciato sulla mia gamba destra in una maniera che valeva come mille parole. Poi ho visto una “nuvoletta” che c’era sopra: “Mi dici tu che colpa  ho io se il mio trisavolo ha fatto la carogna nel campo di Auschwitz?”. E questa la spiega lunga nel dare la colpa non solo ai cani ma anche agli uomini. È una storia vera e quel giorno lì, veramente, mi sono complimentato con me stesso, e questa è una cosa buona.

Dunque, mi preme in chiusura fare una riflessione, più che un racconto. Ogni giorno che passa noi ci allontaniamo sempre più da quel tempo sciagurato e sanguinario. Ma il ricordo è sempre più vicino, perché il ricordo è più forte del tempo che scorre.

Mi ricordo di mia mamma come di una donna molto bella e intelligente, sognatrice nei miei confronti. Io mi sono laureato nel ’68, alla tenera età di quarantatré anni, ma non perché non avessi voglia di studiare ma perché avevo tre figli e la moglie. Ma siccome lei era una sognatrice nei miei confronti (lei sognava per me l’università), per me mia mamma rappresenta tuttora l’eternità, la stabilità: descrivo qui il baricentro della mia geografia sentimentale. E quando dico “mamma”, la parola ha un suono diverso, pieno di mille abbracci assenti. Quante volte però avrò pensato in questi sessantacinque anni a quegli istanti di mamma, di strapparla ai nazisti ad Auschwitz: andò a morire insieme a tante altre mamme verso il gas, verso la liberazione. Il mio cuore resta anche in parte a mio fratello, a sua moglie, a suo figlio Sergio, che aveva diciotto mesi, per non parlare di mia zia, sorella di mio padre: che era uscita a far la spesa e ritornando non ha visto nessuno a casa, ha chiesto ai vicini se avevano visto il marito e i figli e le hanno risposto che era arrivata la polizia e li aveva portati via. Si è rimessa il cappotto ed è andata dalla polizia. “Signori voi avete arrestato mio marito e i miei figli, io non ho più ragione di vivere”. “Prendetemi”, disse; ed è stata arrestata.

Ora, vorrei dirvi che, sempre citando il primo tema, “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”, perché ciò che è accaduto può ritornare e le coscienze possono essere di nuovo sedotte e oscurare anche le nostre. Una canzone dice: un giorno dopo l’altro, gli anni passano veloci, travolgenti: vengono i figli, i nipoti e i capelli bianchi. Io sono un uomo come tanti altri, come si può incontrare in treno, per strada. Io sento spesso un inferno interiore, cioè ho questo dualismo: sorridere e far ridere ma sono anche dentro… Io cerco sempre di apparire sereno e felice, perché io ho vissuto una tragedia veramente terribile. Quello che mi auguro è di essere riuscito a parlare ai vostri cuori e non soltanto alle vostre intelligenze. Nel tempo il silenzio, la dimenticanza agiscono come una siccità, prosciugano, inaridiscono ogni cosa e distruggono il passato, ma il ricordo è un valore da preservare che va tramandato: perché la storia è un valore che non può essere messo sotto le scarpe. Se vogliamo che la memoria sopravviva nel tempo, il passato non può, non deve essere un muro invalicabile. Ancora dopo sessantaquattro anni quell’aria mi aggredisce e sento ancora nelle mie mani quell’odore sconvolgente di carne umana bruciata. Spesso sento ancora le grida degli SS, però in me c’è questo dualismo: io riesco a entrare nella norma, nella vita di tutti i giorni. Sento però che se la vita è ridotta al lavoro, se la vita è ridotta a un fatto contabile, c’è un bel vuoto; credo che noi dobbiamo coltivare il nostro sentimento: dobbiamo essere capaci di commuoverci, per essere capaci di difendere il mondo dalle bugie secondo le quali, per esempio, quegli immensi forni crematori servivano per fare un trattamento alle nostre uniformi. Il tempo è passato, è cambiato, e diciamo che negli ultimi anni è stata una corsa terribile che si è fermata. Ma anche in questo Auschwitz serve a me, cioè quello che si sta prospettando nell’economia è detto in chiare note dalla stampa, dalla televisione, dalla radio e anche dalle chiacchiere, ma per ogni situazione, secondo me, esiste in noi una forza sconosciuta per reagire. Bisogna saper reagire anche alle crisi economiche; si pensa, per esempio, alle file dei disoccupati. Io so che quelli che ad Auschwitz non avevano fiducia di ritornare, non sono ritornati. Cioè bisogna avere fiducia in noi stessi e pensare anche, secondo un vecchio proverbio, che il punto più buio della notte è il punto più vicino al sorgere del sole. Anche questo passerà, anche questo vuole la nostra partecipazione perché il bene e il male passano sempre per le mani degli uomini, che sempre rovesciano sugli altri le loro colpe e le loro paure. Credo che per chi è vissuto ad Auschwitz quel luogo è un sentimento, una sensazione nel senso più drammatico del termine: cioè quando mi chiedono quante sono le baracche, venti piuttosto che trenta, si vuole mettere un rigore contabile a dei fatti sentimentali; io penso alle schiere di morti…  mi ricordo una volta – avevo finito il turno e stavamo entrando nel campo – quando abbiamo incontrato un gruppo che invece stava andando al forno crematorio. Una voce disse: “Ciao Nedo! Nedo! Dove ci portano?”. Io ero stupito di essere riconosciuto con quell’ uniforme, senza capelli: era il segretario della comunità ebraica di Firenze. Dissi: “Renato! Renato non ti preoccupare, ti portano a fare la doccia”. A posteriori mi sono domandato se ho fatto bene a dire così oppure se dovevo dirgli la verità. No, la verità non era da dire, cioè che l’avrebbero ammazzato nel giro di poche ore; avrei dovuto forse dire che non lo sapevo. Dandogli quella spiegazione gli ho dato un’ora di speranza.

Su quei maledetti binari, tra quei volti infami e i cani assassini che continuano ad abbaiare, più volte mi sento calato e mi guardo attorno come quando il freddo mi entrava dentro e mi rosicchiava un pezzo alla volta. Questo è stato a Danzica, dove dovevo muovere le mani e i piedi senza fermarmi se no si sarebbero congelati. Descrivo che il sangue scorreva con fatica nelle vene, ero disperatamente solo con me stesso e non potevo pensare ad altro. Mia moglie dice che parlo sempre della mamma e non parlo mai di papà, ed è vero. E non parlo di mio fratello, ed è vero. E di mia nonna, che ho visto arrivare a d Auschwitz con un convoglio. Da questo scendeva tanta gente e ad un certo punto ho visto la nonna: me la ricordo ancora (lei era sorda completamente come sto diventando anch’io) che si stava guardando attorno e non riusciva a capire dove l’avessero portata. Allora io ho fatto un salto per andare ad abbracciarla e sono svenuto, proprio con quel salto. I miei compagni mi hanno nascosto e dopo non l’ho più vista. Sì, queste scene per me sono fuori dal tempo, non posso dire gli anni che sono passati perché voi lo immaginate già, ma noi ora dobbiamo batterci perché quella tragedia non possa accadere mai più. Questo è l’impegno categorico: dobbiamo parlarne ad alta voce, senza paura, per coloro che a milioni furono gasati e gettati nelle fiamme. Se l’eco delle loro voci, ha detto Paul Eluard, dovesse affievolirsi, noi periremmo. Voltare le spalle a questo tragico capitolo della nostra storia significa volerlo dimenticare, e colui che dimentica diventa un complice di quegli assassini. Coloro che non hanno vissuto quell’esperienza, ve l’ho già detto, non sapranno mai che cosa sia stato; quelli che invece l’hanno vissuta non riusciranno a dirla, non veramente, non fino in fondo. Ecco un incubo grande come un campo da calcio incombeva in quell’inferno di schiavi: signori, in quarantadue chilometri quadrati vivevano centomila-centodiecimila prigionieri. Centodiecimila prigionieri. Il mio cuore non ha dimenticato né date né nomi ed oggi vorrei testimoniare, con la vita che mi resta da vivere, della mia appartenenza all’unica razza, etnia, classe e specie che per me ha valore: quella degli uomini umani, così come l’ha chiamata César Vallejo. Dove c’è la dittatura non c’è la libertà del dissenso e la storia delle tragedie umane torna a ripetersi. Ma la democrazia non è garantita nei secoli, bisogna volerla, vigilarla, aiutarla a progredire, bisogna difenderla e rafforzarla, perché è l’unico vero vaccino contro il ripetersi di tragedie terribili e sanguinarie che possono accadere solo in mancanza di democrazia. Ricordiamoci che nell’ultimo conflitto, fra civili e militari, uomini e donne, sono stati uccisi sessanta milioni di persone. Il dieci per cento era sei milioni di ebrei.

Prima di concludere vi voglio raccontare il mio primo incontro con Primo Levi. È venuto a presentare Se questo è un uomo. Grandi applausi, poi tutti si sono avvicinati al tavolo per una firma e io gli ho detto: “Io ti do del tu perché sono stato anche io ad Auschwitz”. Lui mi ha guardato e ha detto “Ah!” e basta. Me la sono legata al dito e la volta successiva, non so per quale delle sue opere, anche lì sono andato a congratularmi e lui mi ha detto “Ah! Ricordo che ti ho risposto molto male. Me ne sono pentito, ma non potevo ritrovarti”, eccetera. Lui era un’ostrica: bisogna smartellare le ostriche per aprirle!

“Visitatore – è un saluto accorato che lui fa ai visitatori del campo di Auschwizt- Birkenau – osserva le vestigia di questo luogo e medita. Da qualunque paese tu venga, tu non sei un estraneo; fa che il tuo viaggio non sia stato inutile, che non sia stata inutile la nostra morte. Per te e per i tuoi figli, le ceneri valgano di ammonimento. Fa che il frutto orrendo dell’odio, di cui hai visto qui le tracce, non dia nuovo seme né domani né mai”.

Concludo dicendovi due parole soltanto: mai più! mai più! mai più!

Nota: conferenza tenuta a Brescia il 10.3.2009 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura. Testo non rivisto dal relatore.