Corriere della Sera, 16 ottobre 2022
Nella serie dei suoi «Incontri letterari», la CCDC ne dedica uno al tema Attualità di Giovanni Verga a cento anni dalla morte. L’incontro si terrà nella Sala Bevilacqua di via Pace 10 giovedì 20 ottobre alla 18,30. Interverranno i professori Gianni Oliva, dell’Università «D’Annunzio» di Chieti, e Pietro Gibellini, docente a Ca’ Foscari di Venezia, e collaboratore del nostro giornale; l’attrice Giuseppina Turra leggerà due novelle dello scrittore catanese. Il 27 ottobre, stessa ora, Gianni Mussini parlerà dei Canti anonimi di Clemente Rebora. Rivolgiamo alcune domande a Gibellini:
Gli studi innovativi, negli ultimi decenni, si sono rarefatti. Questo si deve probabilmente a due pregiudizi: sulla sua opera si sarebbe già detto tutto; la stagione del verismo sarebbe tramontata e la narrativa moderna deriverebbe dalla costola del decadentismo. Prevalentemente studiato da critici isolàni, Verga è stato esplorato più per le magnifiche pagine rusticane, che per le novelle milanesi di Per le vie, giustamente rivalutate da Gianni Oliva, abruzzese. Il fatto è che, come Guy de Maupassant, geniale discepolo del grande Flaubert, mette a stridente confronto la sua campagna normanna con la Ville lumière, così Verga sposta lo sguardo dal mondo arcaico della sua Sicilia, fatto di pescatori, contadini e pastori, con la metropoli milanese, borghese ma anche popolare, con la nuova classe operaia, le osterie, le portinerie. Ora, questo confronto tra la società rurale e quella industriale e commerciale mi pare ancora di attualità nel mondo globalizzato, dove ondate migratorie spingono milioni di uomini a passare dai paesi della terra ai paesi delle macchine.
Lo vendiamo anche nelle nostre strade e nelle nostre scuole: a proposito, qual è la posizione di Verga, oggi, nell’insegnamento delle superiori?
Non so bene quale sia, ma so quale dovrebbe essere. Quella di un grande autore italiano, anzi europeo. Sostengo da sempre, come D’Azeglio, che per fare l’Europa occorre fare gli europei, partendo dalla scuola: credo sia utile rinunciare ad autori minori pur di acquisire Shakespeare e Baudelaire ed esportare Dante e Manzoni. In un ideale cànone degli scrittori europei credo che Verga sia irrinunciabile, come un Balzac o un Dostoevskij… In ogni caso, il suo esempio può insegnare a un giovane a guardare al vero, a descriverlo con lucidità e concisione, e con un italiano che serba il sapore del parlato dialettale, della lingua viva.
Lei pensa che il pessimismo di Verga abbia radici sociali o esistenziali?
La letteratura è capace di far scendere dalla penna di un conservatore un testo progressista, e trarre dalle pagine di un pessimista stimolo per riflessioni morali e religiose. Verga era un cosiddetto «galantuomo», un possidente terriero timoroso di possibili rivolte sociali; ma certe sue pagine sui semplici, sui poveri, sui vinti della vita, sulle frustrazioni delle donne e dei fanciulli hanno una forza socialmente dirompente. Valgono per il suo tempo e per il nostro. Il suo pessimismo rasenta il nichilismo: basterebbe pensare alla sferzante ironia con cui chiama «Provvidenza» la barca che naufragando porta alla rovina i Malavoglia. È una stilettata al pur ammirato Manzoni che invece aveva fatto superare a Renzo Tramaglino tanti ostacoli, trasformando alla fine del libro il filatore e vignaiolo in imprenditore. Il suo sguardo sul destino degli umili nella nuova realtà urbana, umoristico e tragico, invita il lettore a una riflessione: se la vita umana appare tristemente dominata dalla legge del denaro e dell’egoismo, il suo senso non andrà cercato altrove?