E’ molto imbarazzante parlare di un bel libro come “Un violinista ad Auschwitz”, quando questo è molto più che un bel libro. Vorrei cominciare da un proverbio, un modo di dire in lingua jiddish (il professor Stroumsa non è aschemazita, cioè non è di lingua jiddish, ma è esfarabita, come sono io), che dice: “Un piccolo ebreo col suo violino”. Quando questo proverbio circolava, nel secolo scorso, stava a significare che tantissimi ebrei suonano il violino e nessuno avrebbe potuto immaginare quale significato avrebbe assunto per un membro della comunità di Salonicco nel campo di Auschwitz Birkenau. Veramente si vede come alcune volte le parole sono profezie, non in quanto dette da un profeta, ma per via di quello che accade nella storia. Ora questo libro è piccolo, perché in un certo senso mette in pratica un detto di un antico maestro, di un antico rabbino: “Quando ti rivolgi al Santo – e Stroumsa non si rivolge direttamente al Santo, ma se il Santo benedetto non prestasse orecchie a questo libro, dovrebbe vergognarsi – le tue parole siano poche”.
Ecco, io ho cominciato questo libro come un cammino in una giornata di sole che poi diventa sempre più cupa. Infatti il libro, a parte la divisione in capitoli, si può dividere in tre blocchi: prima, durante e dopo. E anche la parte, diciamo così, fino al 1938, è affascinante, è la vita di una grandissima comunità ebraica, famosissima, quella di Salonicco, popolata da ebrei che parlavano il giudesmo, il giudeo spagnolo, perché erano stati cacciati dalla Spagna, come la mia famiglia, sotto il regno di Isabella la cattolica. Mi sono un po’ ritrovato perché tutti questi intrecci familiari, queste famiglie complicate che andavano un po’ di qua, un po’ di là, mi ricordavano la mia infanzia nel piccolo mondo ebraico della mia città, ove non c’erano settantamila ebrei, ma nel massimo del fulgore cinquecento (e quando sono nato ce ne saranno stati cento). Però tutto questo intrico, in cui la famiglia è centrale, ma è una famiglia piena di mobilità, di viaggi, di spostamenti, di intrecci, mi faceva sentire molto a casa mia.
Poi compare la tragedia. Leggendo quello che è avvenuto a Salonicco, un lettore giovane che non conosca bene le cose come sono andate, anche un giovane israeliano – afferma Stroumsa – potrebbe domandarsi: “Ma perché si sono lasciati prendere? Perché non sono fuggiti? Perché non sono insorti? Perché non si sono rivoltati?”. Ricordo mio nonno, presidente della comunità ebraica di Asti, quando sono arrivate le leggi razziali, io ero un bambino, lui un avvocato. Diceva:” Ma abbiamo lo statuto di Carlo Alberto, non ci può succedere niente”. La fede nel diritto in quel momento è stata la trappola che ha impedito a tantissimi, ai milioni di ebrei, di rendersi conto che il diritto è la cosa più fragile che ci sia.
La deportazione è raccontata con una grande concretezza: non si vedono solo le masse, si vedono i fratelli, la sorella, la moglie, gli amici, si precisa quelli che si sono salvati e dove sono andati dopo la liberazione. Vi è una realtà di persone, non di generi. E questo viaggio in cui Stroumsa, molto onestamente indica anche i collaborazionisti, quale ad esempio il gran rabbino di Salonicco. Ed è una lettura in cui il protagonista quasi scompare, cioè non è una riflessione su sé stesso, è uno sguardo – come potrebbe essere il nostro – su tutto. Alcune volte, tra i molti libri che la Shoà ci ha lasciato, ve ne sono anche di molto belli, in cui però l’autore si concentra su se stesso, espone le proprie concezioni, eccetera. No, qui vi è un realismo che chiamerei biblico. La Bibbia, è stato detto giustamente, non conosce la differenza fra interiore ed esteriore, la Bibbia racconta.
La ragione del titolo è spiegata con grande sobrietà nel libro stesso: l’assistente del capo blocco (Stubedienst), sapendo che lui suonava, gli mette tra le mani un violino ed un archetto. – Domandai ingenuamente: “Cosa volete sentire? Mozart, Beethoven, Haydn? Concerto, sonate.. “. “Quello che vuoi”, mi rispose. Dopo aver scrupolosamente accordato lo strumento, cominciai a suonare. Ricordo che per una ventina di minuti, suonai senza fermarmi. Concerto in La maggiore di Mozart, Sonata in Sol di Beethoven ecc. Eravamo tutti emozionati. Ciascuno di noi tornò con la mente alla propria vita di uomo libero, a Salonicco e questa musica, in simili circostanze, aveva accenti patetici.
E allora avviene qualcosa come l’incantazione di un serpente perché lo Stubedienst, che nei campi di sterminio era un criminale comune che aveva il potere di vita e di morte sui suoi sottoposti, dice: “Suoni bene, sai. So quello che dico, perché sono pianista. In più, tu sei ingegnere e conosci bene il tedesco”. Gli mette una mano sulla spalla e gli dice: “Spero che tu non muoia qui”.
Ecco, questo è un miracolo che la musica di Mozart ha fatto lì; dire da parte di questo personaggio “Spero che tu non muoia qui” è qualche cosa che in quei luoghi e in quei tempi era un miracolo. E Stroumsa suona per un mese e poi – analogamente a quanto succede a Primo Levi – viene assegnato come ingegnere a uno studio tecnico.
Ci sono nel libro alcuni documenti che raccontano ad amici o ad amiche superstiti la morte dei loro cari. Una cosa che di solito non teniamo presente è che dopo la liberazione, gli scampati per mesi e mesi non sanno se i loro fratelli, i loro padri, i loro fidanzati, i loro amici sono vivi e dove, o sono morti. Anche l’autore viene a sapere della morte di sua sorella parecchi mesi dopo. A Nita, la sua amica a cui deve raccontare la morte del fidanzato, scrive: “Ecco, cara signorina Nita, quel che i Tedeschi ci hanno fatto. Hanno preso i migliori di noi, li hanno uccisi nel modo più terribile che si possa immaginare, e noi – che la morte ci ha risparmiato – noi siamo completamente disadattati, disorientati, quasi incapaci di vivere e rientrare nel ritmo della vita normale”. In un altro punto del libro dice: “Ma siamo davvero usciti da Auschwitz ? E’ possibile uscire da Auschwitz?”. Ma in Stroumsa spontaneamente prevalgono le ragioni della vita, a differenza di quel che è successo ad alcuni reduci che io ho conosciuto, che non sono mai usciti da Auschwitz. In lui prevale quello che un pensatore ebreo americano ha così espresso: “Per non dare una vittoria postuma a Hitler, noi dobbiamo aggiungere ai seicentotredici precetti un precetto seicentoquattordici che è sopravvivere, produrre vita”. E infatti, Stroumsa, che aveva perso la giovanissima moglie incinta nel campo di sterminio (apro una parentesi, preferirei che si parlasse di campi di sterminio piuttosto che di campi di concentramento, perché i campi di concentramento erano anche quelli dove si tenevano i prigionieri inglesi, francesi che non erano destinati a morire), una volta liberato, sposa la signora qui presente e generano dei figli. Guardate che dopo la Shoà avere la forza e la fede di generare dei figli è, per come la vedo io, anche una provocazione a Dio, se così si può dire. Una provocazione a Dio nel senso che, nonostante abbia guardato quello che è successo senza intervenire, noi continuiamo ad obbedire a quello che ha detto nella Genesi: “Crescete e moltiplicatevi”. Perché effettivamente il Dio che qui si intravede, compare, scompare, non è il Dio di prima che va ripudiato, va respinto: dopo quello che è successo bisogna ripensare a Dio da capo.
Siamo al dilemma che è stato anche di Wiesel, di Primo Levi, di tantissimi: raccontare o tacere? Il raccontare ha due ostacoli: si tratta di descrivere l’ineffabile, l’ineffabile negativo; inoltre chi racconta è vivo, e chi è vivo non ha toccato il fondo come chi è morto. Da qui quella specie di senso di colpa che coglie talvolta i sopravvissuti: ero forse migliore dell’altro? Mi viene in mente una frase di Gionata: “Chi mi concederà di morire al tuo posto, Assalonne, figlio mio?”. Questa sensazione di privilegio immeritato è una delle più nefande azioni commesse dai nazisti.
Bisogna raccontare, e Stroumsa dice una cosa che ho sempre pensato, cioè, queste persone che sono sparite nel nulla, che non hanno neanche una tomba non possono essere dimenticate. Apro una parentesi: Stroumsa racconta che da allora ogni volta che a Parigi vedeva un funerale, si fermava e lo seguiva per un po’, il che è un precetto rabbinico (se tu incontri un funerale devi seguirlo per almeno dieci passi), ma a parte questa cosa, Stroumsa ha sentito il dovere di giustizia, di conservare quello che si può di chi non ha più neanche una tomba, cioè il nome. Del resto in ebraico il memoriale dell’olocausto Jad wa-Shem significa esattamente: “Ricordo, metaforicamente, i nomi”. Se i nomi vengono dimenticati è come se queste persone non esistessero più per niente, quindi il narrare che poi è una caratteristica biblica, ebraica di tutti i secoli (… racconterai a tuo figlio), è anche una funzione religiosa di far vivere i morti come si può.
L’ultima parte del libro “Violinista ad Auschwitz” racconta la straordinaria ripresa di vita, che non è condizionata dal rifiuto di ricordare e di parlare del passato Prima di concludere vorrei ritornare un momento sul luogo dove Stroumsa ha lavorato tanto, il così detto memoriale dell’olocausto Jad wa-Shem. E qui devo aprire un’altra parentesi molto amara: sono molto pochi i pellegrinaggi cristiani che vanno a visitarlo, magari vanno a venerare un luogo sacro fasullo. Ci è andato il Cardinal Martini, ed è entrato nella galleria dei bambini, dove nell’oscurità vengono detti i nomi e i luoghi di provenienza e i luoghi di morte di un milione e mezzo di bambini uccisi. Ecco, io credo che questo libro di Stroumsa in qualche modo sia una guida a questo memoriale e sia anche il modo di lavorare alla conservazione dei nomi, che è poi tutto quello che noi possiamo fare.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conversazione tenuta a Brescia il 12.10.2000 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.