Virgilio e la campagna

Niente vi è di più riposante e di più dolce per l’occhio e per lo spirito dell’ondulato verde campestre, che scende in lenti declivi e dolcissimi rilievi dalle sponde meridionali del Garda giù giù fino alla piatta campagna di Mantova. In questo panorama che lievemente digrada, in questa terra fertile, ma tante volte anche invasa dalle acque limacciose del Mincio, che in tempi antichissimi attirò l’indovina Manto, da cui la leggenda deriva il nome della città di Mantova, in questa terra dicevo è nato Virgilio, uno dei più grandi poeti dell’antichità latina e certamente il più entusiasta cantore della campagna italica. Qui i suoi genitori avevano una proprietà terriera che forniva loro una discreta agiatezza, se poterono procurargli una accurata educazione. Di questa campagna Virgilio ha sempre conservato l’amore, il sano equilibrio, i costumi, i sentimenti schietti e la religiosità. Qui tra dolci luoghi ed affetti, nella semplicità di gente laboriosa e proba, fedele alla terra e alle tradizioni dei padri, crebbe la giovinezza del poeta e qui rimase il suo cuore, come dimostrano le soavi rievocazioni del paese natio, che si incontrano in tutte le sue opere. E questi anni trascorsi nella campagna mantovana furono veramente decisivi per la formazione del carattere e dei suoi gusti. Infatti i campi celebrò prima delle armi, i campi del lavoro e delle messi prima che quelli della vittoria e del valore.
Anche quando venne a Roma per progredire nei suoi studi, e anche quando, ormai stimato e celebrato, viveva nella coltissima e raffinatissima corte di Augusto, restò sempre in lui un rimpianto nostalgico della sua terra e pianse e soffrì amaramente quando vicende politiche successive alle guerre civili parvero dovergli sottrarre il suo amato podere; e da questo dolore, da questa condizione di sconforto, che si combinò con l’esperienza filosofica epicurea e con la moda alessandrina allora tanto diffusa in Roma, nacquero le Bucoliche, un canto delicato e malinconico, tutto teso alla celebrazione ideale di questa terra, che il poeta amava e sulla quale aveva trascorso i suoi anni più sereni, ricchi di quei sogni e di quei progetti per l’avvenire, che una amara realtà si incaricava di rendere vani, creando in lui il profondo pessimismo con cui sempre avrebbe guardato alle vicende umane.
Virgilio, tuttavia, sentiva che in questi campi e in quegli anni si svolgeva non solo il suo dramma personale e familiare, ma sapeva che il suo disagio andava ad intrecciarsi al dramma dei suoi contemporanei e che quelle confische di terra erano soltanto un aspetto del più vasto dramma che agitava l’Italia. Perciò, superata questa fase amara di sconforto, riscattandosi dalle illusioni giovanili, ecco che Virgilio si apre ad un ancora più pungente amore della campagna, ad una ancora più intima ammirazione della sua bellezza e ad una coscienza più avveduta dell’abnegazione laboriosa che essa domanda e della giustizia rimuneratrice che esercita. Se la malizia degli uomini ottenebrati dalle passioni rende impossibile attuare l’ideale di pace e di vita serena nei rapporti umani, solo la natura, madre perenne e sempre affettuosa, riuscirà a lenire l’angoscia del poeta che più che mai viene riconoscendo come soltanto in essa ci sia il bene, la verità, la vita. Ma chi ormai tra i suoi contemporanei comprendeva ciò? Da qui allora la necessità di rinnegare la compagnia degli uomini per sprofondarsi con ancor più struggente amore nella visione e nella celebrazione di quel mondo che più parlava al cuore di Virgilio: la natura agreste; per questo la figura umana, come già ebbe ad osservare il Paratore, nelle Georgiche scompare quasi del tutto dalla scena, mentre emerge la corposa evidenza degli armenti, delle greggi, dei paesaggi, delle feconde distese.
Solo la natura col muggito e il belato delle sue bestie, col cinguettio dei suoi uccelli, col mormorio dei fiumi e delle sorgenti, con lo stormire dei suoi boschi e il fruscio delle sue messi, col folgorio degli astri e lo strepito delle tempeste diventa la protagonista delle Georgiche, che nascono proprio da questi motivi e da questi sentimenti, che abbiamo fugacemente esposti, al di là e al di fuori di ogni sollecitazione esterna. Allora i quattro libri di quest’opera diventano il poema dell’agricoltura, di questa antica ricchezza e occupazione italica. Abbandonata l’idealizzazione, la campagna italica sarà vista nella sua concreta e precisa realtà: la coltivazione dei campi secondo i terreni e le stagioni, l’arboricoltura, l’allevamento del bestiame e delle api, insomma la "divina gloria dei campi", intesa non come ozio contemplativo, ma come dura fatica che però la terra giustissima sa ricompensare.
Nessun altro poeta ha sentito e cantato così totalmente la realtà della campagna. Per Virgilio l’agricoltura è una battaglia senza tregua, in cui vince chi, adorando gli dei e amando la famiglia e la patria, bandisce l’ambiziosa cupidigia e l’odio fratricida, per apprezzare i beni veri della virtù, della pace sicura e tutelata e del lavoro.
In mezzo al crollo di tutti gli ideali e di tutte le tradizioni che avevano fatto grande Roma, nel momento in cui le forze malvagie dell’umana passionalità scatenate sull’Italia dalle guerre civili sembravano tutto distruggere, Virgilio sentiva che la redenzione era strettamente condizionata alle sorti dell’Italia agreste, di quell’Italia, ricca di biade e di frutti, in cui sembrava permanere un fondo misterioso della antica saggezza e innocenza, pronto a rivelarsi a chi avesse gli occhi e la mente capaci d’intenderlo. E in quello stupendo canto che il poeta innalza nel secondo libro delle Georgiche alle bellezze italiche, tra le quali è ricordato anche il nostro lago di Garda, fa brillare ancora il miraggio che solo dalle zolle di questa terra, dopo tanti dolori e tante percosse, può levarsi a ridare pace e felicità agli uomini: le ricche terre d’Oriente ci attirano coi loro profumi, con le loro piante rare, le loro gemme, ma l’Italia ci rasserena il cuore con l’opulenza dei suoi frutti, delle sue messi, con le sue viti e i suoi ulivi; le ricchezze strane dell’Oriente eccitano la cupidigia, la terra italica ispira invece frugalità e saggezza e nutre una stirpe di uomini semplici e forti.
C’è in tutto questo canto una profonda coscienza di quelle che sono le virtù primigenie del popolo italico, di quel popolo, del quale Virgilio più di ogni altro, nel mondo antico, ha sentito l’unità geografica e etnica. Per questo non solo agli studiosi della poesia e dell’arte, ma a tutto il popolo italiano, dovrebbe essere meglio noto, quasi domestico tesoro, il poema di Virgilio, retaggio comune a tutti noi. E questo comprese il Carducci, quando nel 1884, in occasione dell’inaugurazione del monumento a Virgilio in Pietole, ebbe a dire: "Io toglierò il poeta dalla scuola degli eruditi, dalla accademia dei letterati, dalle aule dei potenti, e lo restituirò a te, o popolo dei lavoratori, o popolo vero d’Italia".
 

Giornale di Brescia, 23.11.1971.