Se mai ce ne fosse ancora bisogno, questo libro (Virgilio, Il libro terzo dell’Eneide, a cura di Pier Vincenzo Cova, Vita e pensiero, Milano, 1994) dimostra che Cova è oggi uno dei più agguerriti conoscitori di Virgilio, a cui ormai da più di trent’anni rivolge i suoi studi sempre originali e sempre apprezzati dagli studiosi di filologia. E di Virgilio il terzo libro dell’Eneide ha costituito da molto tempo un argomento di studio privilegiato da P. V. Cova, se è vero che già neI 1965 pubblicava su Aevum una trentina di pagine, ricche di acute intuizioni destinate ad essere in seguito sviluppate, su Il tema del viaggio e l’unità del terzo libro dell’Eneide. Cova dedica ora al terzo libro dell’Eneide un ponderoso volume di oltre trecento pagine articolato in tre parti: una lunga ed esauriente introduzione con una ricca bibliografia che occupa le prime 137 pagine; a questa segue il testo latino, quindi un ricco e dotto commento, che, insieme con l’introduzione, esamina ed esaurisce ogni singolo aspetto e ogni problema anche minimo posto dalla lettura del testo; seguono infine alcune appendici.
Si deve notare innanzi tutto come l’introduzione, divisa in undici capitoli, tende a fornire una completa, organica e continua lettura e a questo scopo è rilevante l’eliminazione dei continui rimandi alle note a piè pagina, come accade in libri di questo genere, inserendo direttamente nel testo in modo estremamente essenziale le citazioni indispensabili. Pur rivelando una conoscenza vastissima, direi anzi di tutto quanto è stato scritto in epoca antica e moderna su Virgilio, tuttavia Cova fa riferimento in genere solo alla letteratura più recente, come è possibile constatare dalle quindici pagine di bibliografia che seguono all’introduzione.
Come è noto, il terzo libro dell’Eneide è il libro dei viaggi avventurosi con i quali Enea si reca da Troia fino alla Sicilia, attraverso varie tappe in Tracia, nell’Egeo, in Grecia e infine nella Magna Grecia e una serie di episodi, come quello di Polidoro in Tracia, della peste a Creta, delle Arpìe nelle isole Strofadi, dell’incontro con Andromaca ed Eleno a Butroto, del passaggio di Scilla e Cariddi, dell’incontro con Achemenide e infine l’arrivo a Trapani, labor extremus, dove muore Anchise.
Di tutte queste tappe, di tutti questi episodi P. V. Cova esamina tutte le ragioni, tutta la ricca materia di provenienza omerica o ellenistica, che costituisce il tessuto del terzo libro, passando in rassegna tutte le diverse varianti presentate dalla traduzione dei miti e delle leggende che confluiscono nel libro virgiliano, indicando tutte le fonti e discutendo infine le motivazioni delle scelte operate da Virgilio. Il merito di questo nuovo commento di Cova sta nel fatto di ridare il vero valore e il vero significato al terzo libro, che è spesso stato considerato dai commentatori come uno dei meno elaborati da Virgilio, uno dei meno unitari per la diversità degli episodi e in sostanza uno dei libri dell’Eneide meno belli e originali. Cova ha capito che l’importanza del terzo libro non va cercata nella commozione che la materia trattata può suscitare nel lettore, ma nel significato più profondo che questo libro assume nella vicenda di Enea e nella ideologia di Virgilio. In particolare l’episodio di Butroto è fondamentale perché è lì che Enea compie una scelta di valore morale fatta in piena responsabilità e questa scelta porta ad uno stacco decisivo, simboleggiato dalla traversata in mare aperto, da un mondo geografico, culturale, morale superato, da Oriente ad Occidente e da quel momento Enea è ormai tutto volto al futuro, verso un nuovo mondo, verso una civiltà nuova che da lui prenderà inizio.
Un altro episodio di grande importanza, secondo Cova, per capire il pensiero di Virgilio in sintonia con l’ideologia dell’impero, volto ad unificare tutti i popoli sotto la guida di Roma, è l’incontro con Achemenide, il compagno di Ulisse abbandonato nella terra dei ciclopi e ridotto ad una larva d’uomo dal terrore e dalla fame. Si tratta di un episodio che non ha riscontro in Omero, ma sembra del tutto inventato da Virgilio. Achemenide è un greco, uno dei nemici, ma ormai i Troiani non sono più gli sconfitti, gli offesi dall’inganno di Ulisse: sono gli uomini che hanno molto viaggiato e sofferto, sono uomini nuovi, diventati tali alla scuola degli errores, e il perdono concesso ad Achemenide diventa il momento della riconciliazione, della pacificazione generale: il poema, che celebra il destino di Roma, si trasforma così nel mito che esalta la fratellanza e l’integrazione dei popoli, in nome della comune condizione di infelicità e di dolore.
Per questo Ulisse non è più detto pellax, come lo definisce Sinone, né scelerum inventor, ma l’attributo datogli da Achemenide è infelix, quasi a ricordarci che il dolore è una legge universale, che supera ogni distinzione etnica: non ha senso allora, sembra volerci dire Virgilio, aggravarlo con le guerre e le discordie, meglio farebbero gli uomini ad unirsi tra loro, fare fronte comune contro il dolore e contro il male dell’esistenza.
Un ampio capitolo dell’introduzione è dedicato ai rapporti con Omero, di cui si segnala la presenza nel terzo libro ora evidente ora sottile ora filtrata attraverso l’esperienza culturale ellenistica, ma mi pare particolarmente originale il confronto tra il viaggio di Enea, lineare, da Oriente ad Occidente verso una meta precisa, e quello di Ulisse, acutamente definito “labirintico”. Nel viaggio di Enea, Cova individua una linea di progresso «verso la migliore conoscenza della propria vocazione, verso la liberazione dai timori superstiziosi, verso una nuova moralità». Meriterebbero di essere citate per intero le considerazioni di Cova su questo punto. Del resto è impossibile ricordare tutti i punti rilevanti e originali della introduzione, che dedica molte pagine originali anche ai problemi di composizione o altre che propongono una lettura narratologica di grande interesse.
Il commento al testo, che occupa da solo 140 pagine, è una autentica miniera di notizie utili ad una migliore comprensione del testo stesso e può ben dirsi esaustivo di ogni problema ad esso connesso, così che non si sbaglia dicendo che questo volume lascia poco o nulla da dire ancora sul terzo libro dell’Eneide, sia sul piano della ricostruzione del testo per il rigoroso controllo delle lezioni dei codici, sia sul piano contenutistico, metrico e linguistico. A questo proposito mi sembrano esemplari le note (ma tutte le altre potrebbero essere citate per il rigore e per l’abbondanza delle informazioni e citandone solo alcune mi sembra di far torto all’autore) ai versi: 16, 26, 85, 226, 229-30, 279, 333, 338, 390, 510, 527, 594, 668, 714.
Particolare interesse suscitano anche tre appendici, che chiudono il libro. La prima è volta a sottolineare certi particolari aspetti linguistici, come la constatazione che il campo semantico a cui appartiene la parola monstrum registra il più alto numero di occorrenze, mentre il verbo fugere molto frequente in tutto Virgilio, qui nel terzo libro è poco rappresentato: «ma la rarità ne aumenta il rilievo». Interessanti sono le osservazioni su video, esatto contrario di fama; il verbo videre si ripete davanti ad ogni prodigio e solo di rado si riduce alla normalità semantica, ma più spesso è accompagnato da una forte carica emotiva. Ci sono poi puntualizzazioni sull’uso del presente per raccontare il passato, un uso che serve ad esprimere una sofferta attualizzazione ed interiorizzazione degli eventi; inoltre il presente unito alla prima persona sottolinea il carattere «poco epico e molto lirico» del libro.
La seconda appendice evidenzia una presenza dello stoicismo, ribaltando o ridimensionando l’immagine dell’epicureo Virgilio: e ciò emerge specialmente nel libro terzo, dove un problema molto sentito dagli stoici, il rapporto fra destino e libertà, è ben presente ed acutamente colto da Cova che nell’Enea che si congeda da Butroto vede per così dire uno stoico imperfetto che è consapevole della fragilità umana e appunto della dialettica fra libertà e destino. Utili considerazioni si trovano nella terza appendice su alcuni aspetti dei rapporti tra Dante e Virgilio, che sottolineano l’affinità umana e morale tra i due poeti a differenza dell’aspetto puramente letterario della imitazione di Ovidio.
Città e Dintorni, n.49/1995.