Fabio Larovere: Oggi abbiamo come ospite padre Alberto Maggi, biblista direttore del centro “Studi Biblici Vannucci” di Montefano e anche divulgatore della parola di Dio (proprio perché abituale frequentatore degli strumenti multimediali, attraverso i quali commenta la Bibbia). Grazie padre Maggi per essere con noi e benvenuto. Oggi parliamo di un tema difficile, però un tema anche costantemente presente nella riflessione dell’umanità, da quando, almeno, esiste il raziocinio: il tema della morte. Tema al quale lei ha dedicato anche diverse pubblicazioni: un libro del 2013 intitolato, in maniera curiosa, “Chi non muore si rivede” perché racconta una sua esperienza personale; e poi nel 2017 una riflessione di carattere teologico “L’ultima beatitudine”. Allora partiamo dall’attualità. In questi giorni, abbiamo assistito, anche un po’ sgomenti, alla sorte di molte persone colpite da coronavirus, che purtroppo sono mancate senza il conforto della presenza dei propri cari negli ospedali. E poi, sicuramente, ha colpito l’immaginario collettivo vedere le immagini di questi cortei funebri costituiti da camion dell’esercito che portavano via da Bergamo, in questo caso, le salme di coloro che erano deceduti a causa delle epidemie in corso. Tutto questo mette in discussione una volta di più il nostro rapporto con la morte, che resta oggi, forse più che in passato, un grande tabù. Vorrei partire da questa sollecitazione nel confronto con lei.
Alberto Maggi: La morte è diventata tabù in epoca abbastanza recente. Nella sociologia si pensa che lo sia diventata nei primi anni del ventesimo secolo, quando sono stati organizzati gli ospedali che, piano piano, da luogo dove ci si curava, sono diventati luoghi dove si andava a morire. Allora, gradualmente, non si è morti più in casa, ma separati, in ospedale. Se guardiamo le stampe o anche le foto di fine Ottocento, vediamo il momento dell’addio del morente, il capezzale, che è circondato da una folla, anche di bambini. Era un momento prezioso, perché la persona regalava le sue ultime volontà e, quindi, si accompagnava il morente nel momento più importante della propria esistenza. Tanto è vero che esistevano dei manuali chiamati “L’arte di morire”. Ci si preparava. E il paradosso è che quella che oggi è la morte più desiderata, quella in cui non ci si accorge, a quel tempo era quella più temuta. C’era una breve preghiera che diceva “dalla morte improvvisa liberaci Signore”. Tutto questo ha spostato il significato della morte: oggi si muore non più in casa, non più circondati dall’affetto dei propri, ma perlopiù in ospedale. Questo ha tolto l’abitudine alla morte, al punto che la parola stessa fa paura. Non c’è un annuncio funebre dove si dica semplicemente che la persona è morta. Ci son tutti giochi di parole: “è mancato”, “si è spento”, “ci ha lasciato”, eccetera. Ma non si dice mai una volta semplicemente che è morto. Perché appunto si è perso il significato della morte. Allora bisogna rifarsi alla fede dei credenti che hanno cambiato anche l’atteggiamento nei confronti della morte: i primi cristiani parlavano del morire come un dormire. È come nascere una seconda volta. La fede del credente era che non si muore mai, ma si nasce due volte. E la seconda volta è per sempre. E chiamavano il giorno della morte dies natalis, “il giorno natalizio”, ed è importante questo significato: la morte non interrompe la vita, ma ci introduce nella dimensione nuova, piena e definitiva della nostra esistenza. La morte non ci separa dai nostri cari, ma ci rende ancora più vicini.
Fabio Larovere: Una delle cose che colpisce il credente, quando riflette su questo tema, è l’immagine di Francesco d’Assisi che arriva a chiamare la morte “sorella”. Credo rappresenti da un lato l’orizzonte che apre alla dimensione della fiducia nei confronti di Dio, della sua misericordia, dall’altro, però, interroga il quotidiano della nostra esistenza che fatica a comprendere, soprattutto attraverso lo strumento della razionalità, l’idea di una morte che possa essere chiamata con questo appellativo.
Alberto Maggi: Il messaggio del Vangelo c’era, ma purtroppo la Chiesa si era allontanata. Quella di Francesco è una provocazione incredibile, perché quella era l’epoca in cui la morte si considerava un castigo inflitto da Dio, il famoso peccato originale. E nella celebrazione funebre si cantava Dies ireae, giorno d’ira. Poteva essere un momento sereno, “giorno d’ira”, quello dell’incontro col Signore? Francesco, in controtendenza perché lui era fedele al Vangelo, al messaggio di Gesù, arriva provocatoriamente, in un’epoca in cui la morte era considerata un castigo di Dio, a chiamarla invece “Sorella Morte”. Francesco, ormai verso la fine della sua vita, sofferente, elenca tutti gli elementi del creato che mantengono in vita le creature: da Fratello Sole a Sorella Terra, all’acqua, sono tutti elementi che danno vita. E arriva provocatoriamente a dire Sorella Morte. Significa che la morte non è quella matrigna che ci strappa da questa vita, ma la sorella che ci introduce nella dimensione piena e definitiva della nostra esistenza. La morte non è una diminuzione dell’individuo, ma un potenziamento. Non potendo descrivere questa realtà, anche Gesù si rifà ad immagini della natura e sono tutte immagini dinamiche. Basta pensare a quella stupenda del chicco di grano che, caduto in terra, si trasforma in una spiga. Se noi mettiamo a confronto il chicco di grano e la spiga, non c’è paragone della bellezza. In ognuno di noi, come nel chicco di grano, ci sono delle energie, delle capacità d’amore talmente grandi che, nel breve arco della nostra esistenza, non riusciamo a manifestare. Nel momento della morte, tutte queste energie d’amore si liberano, crescono, e noi ci trasformiamo in un crescendo senza fine. Eravamo un seme, diventiamo una spiga dorata. Quindi, la morte non solo non diminuisce la persona, ma la potenzia e il momento del trapasso è un momento paradossalmente stupendo. Se noi siamo luce – essere luci significa avere fatto scelte positive che ci rendono persone splendide – ci viene incontro Dio che è luce e non ci assorbe Lui, ma saremo noi che assorbiamo questa luce. Questa luce si fonde con noi, ci dilata e cresciamo all’infinito. Questo è il significato della morte.
Fabio Larovere: Proprio questa immagine che lei ha evocato mi porta ad una ulteriore riflessione rispetto alla quale vorrei un suo parere, cioè l’idea che spesso il cristiano medio non abbia la consapevolezza di ciò che è la condizione di coloro che muoiono nella visione cristiana. Da un lato c’è una visione un po’ infantilistica, la visione beatifica, come dice la teologia. In che cosa consiste e come potremmo spiegarla in maniera chiara a chi non ha un retroterra di studi teologici, che consenta di andare a fondo in maniera più puntuale rispetto a questo tema? Dall’altro lato, invece, tante volte noi registriamo una superficialità a questo approccio, a quella che è la visione cristiana della vita oltre la morte, della vita in Dio. Tanto è vero che a volte qualcuno confonde la resurrezione con la reincarnazione. Come lei spiegherebbe ciò che accade, a chi vive in Dio, dopo la morte?
Alberto Maggi: Questa pandemia è come un terremoto: qualcosa che arriva all’improvviso, di devastante, che ci fa mancare la terra sotto i piedi. Gesù ha detto “chi ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è come colui che costruisce sulla roccia. Arrivano le fiumane, soffiano i venti e la casa resta solida”. Adesso dobbiamo rimanere solidi sull’insegnamento di Gesù, altrimenti ci sono quei deliri che vediamo. Parlavo prima degli annunci funebri. Ce n’è uno che piace tanto alle persone pie, alle persone religiose, ed è: “è tornato alla casa del Padre”. Ma questo non è il messaggio cristiano, ma un portato della filosofia greca, dove le anime stavano in Dio, erano costrette a malavoglia a incarnarsi in un corpo umano che vedevano come una prigione (ecco tutto il disprezzo della corporeità nell’antichità) e poi non vedevano l’ora che la persona morisse, per tornare, finalmente, alla casa del Padre. Il messaggio cristiano è diverso. Nel Vangelo di Giovanni al capitolo 14 versetto 23 – versetto importante perché, se compreso, cambia il rapporto con Dio, cambia il rapporto con gli altri, con la morte, con la vita – Gesù dichiara solennemente: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. Significa che noi siamo la dimora di Dio, noi siamo la casa del Padre, e con la morte non si va in cielo, perché il cielo è in noi e ci dilata in una crescita senza fine. Quindi, con la morte non si va alla casa del Padre, ma noi siamo questa casa che, per questo, è indistruttibile. L’autore dell’Apocalisse, al capitolo 14, versetto 13, ci dà un’immagine stupenda, che noi non riusciamo a comprendere: proclama beati, ovvero il massimo della felicità, quelli che muoiono. (“Beati i morti che da ora innanzi muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito, essi si riposano dalle loro fatiche perché le loro opere li seguono”). Ma come si può mettere insieme questi due aspetti contrastanti? Per noi uno che muore è un poveretto, tant’è che quando parliamo di un morto non diciamo mai “il beato”. L’autore non è d’accordo e dice “Beati quelli che muoiono nel Signore”: morire nel Signore significa avere, come Lui, orientato la propria vita per il bene degli altri. L’autore dell’Apocalisse continua dicendo che entreranno nel riposo. Non si tratta di un ozio eterno, ma dello stesso riposo del Creatore, cioè nella pienezza della condizione divina. Con la morte, la vita non cessa, ma viene potenziata, perché l’amore che avevamo ora viene potenziato dallo stesso amore di Dio. L’unica cosa che ci portiamo, entrando nella nuova dimensione, è il bene che si è fatto. Si possiede soltanto quel che si dà. Quel che si trattiene, per noi, non si possiede, ma ci possiede. Quelli che nella propria vita hanno comunicato vita, hanno comunicato amore, hanno arricchito la vita degli altri, hanno questo bagaglio con il quale continuano la loro esistenza in una dimensione che non separa dai viventi, ma unisce ancora di più. I nostri cari defunti non sono assenti, ma sono presenti. Una presenza continua che dice “sono qui, sto bene e ti voglio bene”.
Fabio Larovere: Questo tuo discorso mi porta anche verso un’altra suggestione, che è molto vicina a chiunque rifletta su questo argomento. È l’episodio di Emmaus: l’incontro di questo viandante che non viene riconosciuto dai due discepoli, delusi per quanto era accaduto poco prima. Loro hanno vissuto accanto a Gesù Cristo un’esperienza straordinaria. È vero che è stata poi chiusa, almeno per il momento, da una profonda delusione, però Cristo stesso si fa incontro a questi viandanti e loro non lo riconoscono, pur avendo avuto una consuetudine, una prossimità con Lui. Lo riconoscono solo nel momento in cui, come sappiamo, spezza il pane e, però, si sottrae poi alla loro vista. Dal punto di vista teologico, questo significa che nella chiesa Cristo è presente nel mistero eucaristico. Tuttavia, mi ha sempre colpito il fatto che gli occhi di questi discepoli fossero velati di fronte a Gesù. Come si pone questo episodio rispetto alla dimensione della resurrezione, che toccherà anche ciascuno di noi? I discepoli non riconoscono Gesù. Anche noi rischiamo di non ci riconosceremo gli uni gli altri nella vita della resurrezione?
Alberto Maggi: Il messaggio dell’evangelista è molto attuale, perché anche noi rischiamo di avere accanto a noi i nostri cari, che sono vivificanti, ma di non riuscire a percepirli, perché li pensiamo come morti. Luca, l’evangelista dell’episodio di Emmaus, è lo stesso che, quando le donne vanno al Sepolcro, fa trovare due angeli che sbarrano loro la strada e dicono “perché cercate tra i morti Colui che è vivo?” (Luca, 24, 5). Bisogna fare una scelta, anche se dolorosa, quando ci muore una persona cara: o piangerla come morta o sperimentarla come viva. Non si possono mettere insieme le due cose. I discepoli di Emmaus, come anche poi Maria di Magdala al sepolcro, perché non riconoscono Gesù? Perché loro pensano al passato. Perché vanno a Emmaus? Emmaus riguardava il passato, la storia di Israele. Loro guardano indietro e chi guarda indietro non può vedere Gesù che è presente. L’episodio, sotto forme diverse, è lo stesso che presenta Giovanni con Maria di Magdala. Maria di Magdala singhiozza disperata guardando verso il sepolcro. E piange un morto, che invece era vivo, dietro di lei. Soltanto quando Maria di Magdala smette di guardare verso il sepolcro, comincia a voltarsi e guarda dietro, si accorge che, quello che lei piangeva come un morto, era vivo. Allora, fintanto che si guarda il passato, che si guarda il sepolcro, come si può sperimentare Colui che è vivo accanto a noi? Bisogna avere questa forza, quest’occhio nuovo. Ripeto l’invito di Luca “perché cercate tra i morti Colui che è vivo?”. Se vogliamo sperimentare Colui che è vivo, dobbiamo abbandonare il mondo dei morti.
Fabio Larovere: È bella anche l’immagine di Maria di Magdala, che riconosce il Cristo quando la chiama per nome. C’è un dipinto molto famoso del pittore Giovanni Girolamo Savoldo, pittore bresciano del Rinascimento, che è conservato alla National Gallery di Londra. Rappresenta proprio Maria che guarda verso l’osservatore – il luogo dove dovrebbe esserci Cristo – e nei suoi occhi si coglie il fatto che lo ha riconosciuto, perché l’ha appena chiamata per nome. Io penso che sia molto bello questo chiamare per nome da parte di Dio.
Alberto Maggi: Chiediamoci come mai Maria non è con le donne che vanno al Sepolcro di Gesù. L’ultimo momento in cui gli evangelisti presentano Maria è presso la croce. Il sentimento che l’evangelista ci vuol trasmettere non è quello della madre che soffre per il figlio, ma della discepola disposta a morire con il suo maestro, a fare la stessa fine di Gesù. E poi Maria scompare. Durante la deposizione del cadavere di Gesù dalla croce non c’è Maria, ci sono quelle persone che, incapaci e vergognose di seguirlo in vita (come Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo), intendono onorare il martire. Ma non c’è Maria. Maria l’ha seguito in vita ed è stata capace di seguirlo fin sulla croce. Allora perché non c’è Maria alla deposizione della croce e neanche al sepolcro? Perché lei, grande nella fede, non piange un morto, ma continua a seguire un vivente. Questa dovrebbe essere la nostra fede.
Fabio Larovere: Grazie davvero padre Maggi. Lei è un religioso dell’Ordine dei Servi di Maria, quindi, mi piace anche questo riferimento alla Vergine, con cui abbiamo chiuso. Però, io ricordo anche un’altra grande figura del cristianesimo di questi anni. Apparteneva all’ordine dei Servi di Maria: Padre David Maria Turoldo, che è stato un testimone così tormentato, ma anche incisivo, del cristianesimo di questi nostri tempi. Mi piacerebbe chiudere questa nostra conversazione con un suo ricordo di Padre Turoldo. Immagino che lei lo abbia conosciuto, se non altro attraverso i suoi scritti, come è capitato a molti di noi.
Alberto Maggi: Mi emoziona questo ricordo del caro Davide perché, specialmente negli ultimi anni della vita, lui vedeva con buon occhio questa nostra iniziativa del Centro. Verso di me aveva un affetto e una stima che mi faceva venire la pelle d’oca. Pensa che quando era ormai malato e lo chiamavano per incontri, lui diceva “chiamate Maggi, che è come se venissi io”. Ma cosa gli piaceva di me? Penso la capacità di parlare senza peli sulla lingua, senza diplomazia, essere come lui, spero almeno, una persona libera, una persona che è fedele al Vangelo. Se la fedeltà al Vangelo porta all’applauso, l’applauso si dirotta al Padre eterno; se arrivano le pietre – ma non dai nemici, proprio da quelli della Chiesa, come Turoldo che è stato perseguitato all’interno della Chiesa, dai suoi stessi frati, che ora lo innalzano – sono tutte medaglie che confermano che si è sulla linea giusta.
Nota: Testo non rivisto dall’Autore.