«Io non ho mai – Dio essendo il mio solo Signore – affidato il peso della mia coscienza ad alcuno, nemmeno al migliore uomo ora vivente». Così scriveva Tommaso Moro alla figlia Meg, dalla Torre di Londra, in attesa della esecuzione della condanna a morte. Sono parole forti, che esprimono al grado più alto la grandezza della libertà cristiana. Ebbene, nel mondo clandestino della Resistenza, un partigiano ed esponente del CLN di Romagna s’era scelto per nome di battaglia «dott. Tommaso Moro». Quel partigiano era un giovane medico, Benigno Zaccagnini, a cui fu sempre caro l’umanista e statista inglese, uno dei pochissimi politici saliti agli onori degli altari. Ecco uno di quei segni, di quelle scelte che rivelano l’orientamento interiore di una persona, la sua Imago vitae come diceva stupendamente Tacito.
Dobbiamo essere grati a Corrado Belci d’aver tracciato un profilo rapido, essenziale ma non schematico, umanissimo, di un uomo nuovo, uno dei non molti uomini nuovi nel senso migliore dell’espressione, di questi ultimi quarant’anni. Zaccagnini è il titolo del bel volume dedicato da Belci a uno dei protagonisti della vita democratica del nostro Paese, un personaggio di cui sentiamo nostalgia, perché egli incarnava uno stile di vita pulito e un concreto sentire cristiano nel modo di fare politica. Su Zaccagnini si è diffuso una specie di santino stereotipo, dal quale il libro di Belci finalmente lo fa uscire, senza inutili polemiche, ma proprio dandoci di lui un’immagine fedele, circostanziata, fresca, così come emerge da ciò che «il figlio di Ravenna» pensava, dalla concretezza del suo impegno, dalla sua stessa incapacità di accettare un gioco che fosse sleale. Suo padre era capostazione di un paesino in provincia di Verona e fu licenziato dalle FF.SS. perché, essendo un popolare, s’era rifiutato di iscriversi al Partito fascista; si capisce quindi come sin da ragazzo Zaccagnini abbia respirato in casa l’aria frizzante delle idee repubblicane e democratiche. L’esempio di Pier Giorgio Frassati e l’assassinio di Don Minzoni dettero al suo cattolicesimo militante un certo timbro; ma la sua vera scuola di resistenza morale e religiosa, prima ancora che politica, al totalitarismo fu per lui la Fuci di Montini e di Righetti, in cui maturò la coscienza delle sue responsabilità verso la vita civile e il passaggio da un piano di fede ad uno di attivo impegno politico.
Non che Zaccagnini avesse la pretesa di dover compiere una «missione» in campo politico: nulla di più estraneo alla sua indole schiva. Ma una volta che gli altri gli imponevano sulle spalle un carico di voti e di fiducia, egli sapeva di dover fare fino in fondo la sua parte e di dover rispondere di persona alla sua gente. Insomma, Zaccagnini non è mai diventato uno di quelli che, una volta andati a Roma, si sono lasciati assimilare dalla capitale, né mai ha pensato di trasferirsi a Roma. Di qui, malgrado i suoi crescenti impegni nell’attività di governo e di partito, la fedeltà rigorosa alla sua Ravenna, la sua premura di medico e di nascosto benefattore per l’Ospizio Santa Teresa, l’opera prestata non solo alle iniziative politico-sociali della sua Romagna ma anche all’amatissimo… teatro delle marionette! La straordinaria umanità di Benigno Zaccagnini che è stata da tanti episodi, uno più bello dell’altro, e sono state proprio la ricchezza spirituale, la semplicità di sguardo, la chiara tensione morale a sorreggere il suo difficile lavoro politico, a rendere sempre credibili le sue parole e trasparenti le sue azioni. Chi, tra coloro che dicono di rifarsi alla sua «lezione», dimentica il «segreto» di Zaccagnini, cioè la serietà della sua vita interiore, la larghezza del suo cuore, il suo esprit de finesse, farebbe bene a scegliersi altri amici e maestri. Sin dal ’45 Zaccagnini si sentiva in sintonia con il conterraneo Giuseppe Dossetti e il suo gruppo, ma egli non esitò un attimo a recarsi da De Gasperi, a Sella di Valsugana, per chiedergli, con affettuosa insistenza, di riprendere in mano la segreteria della Dc, poiché col governo Pella la Dc appariva sempre più, come piaceva ad una certa parte del mondo cattolico, «senza confini a destra». I nominalismi di corrente e ancora peggio, lo spirito di clan non immiserirono Zaccagnini. Certe forme di egotismo esasperato, ed insieme inevitabilmente ridicole, a cui hanno abituato molti uomini politici anche tra i più noti, erano per lui semplicemente impensabili, del tutto privo, com’era, di antagonismi personalizzati e di settarismo.
Del suo contributo silenzioso – non amava davvero suonare le trombe – ed efficace alla soluzione di non pochi problemi del Paese (dalla legge fondamentale per l’attuazione del programma autostradale italiano ai numerosi, qualificanti interventi legislativi in campo sociale, come l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi e l’assicurazione obbligatoria estesa ad intere categorie fino ad allora escluse, per esempio) non posso qui parlare; e tuttavia, dinanzi al così frequente spettacolo di continue dichiarazioni di altisonanti principi a cui nulla fa seguito o a cui seguono leggi disarticolate e controproducenti, la concretezza realizzatrice dell’onesto Zaccagnini sta ad attestare la sua netta superiorità su altri leaders che occupano l’attenzione della cosiddetta stampa politica nazionale con diatribe, insinuazioni, frasi a effetto e minacce, senza sanare una sola delle piaghe che affliggono la nostra Patria.
Zaccagnini divenne meritatamente personaggio di primo piano già prima di assumere la segreteria politica della Dc, quando il riconoscimento delle sue doti umane e politiche lo portò, suo malgrado, a svolgere, in un momento di forti tensioni nella Dc e tra le forze politiche, un ruolo di garanzia per tutti nel duplice ufficio di presidente del Consiglio nazionale della Dc e di vicepresidente della Camera dei deputati. Zaccagnini non conosceva affatto la «maleducazione istituzionale» di cui sono afflitti tanti politici italiani e amava lavorare in silenzio; ma quando decideva di parlare, le sue parole lasciavano il segno. E non pochi ricordano ancor oggi la scossa morale che il Paese avvertì quando alla fine del settembre del 1974 concesse al settimanale «Panorama» un’intervista di una franchezza sconcertante, insolita. E fu una scossa benefica per tutti, dentro e fuori della Dc. Eletto segretario politico «in attesa di Congresso», senza una maggioranza all’interno del partito, in un movimento in cui il Psi di De Martino, filocomunista, si ritirava dal governo e il sorpasso comunista era alle porte, Zaccagnini vide allora crescere, sulla sua politica e sulla sua personale credibilità, il consenso nell’area cattolica e della gente comune del Paese. Al Congresso del partito, nel marzo del 1976, sul suo nome si spaccò la maggioranza dorotea e iniziò il quinquennio della segreteria Zaccagnini. Quali che siano i limiti di quell’esperienza, essa rimase esemplare sotto tanti aspetti. Con un Paese masso in ginocchio dall’inflazione (era sopra il 20%) e dal terrorismo, con le forze politiche ipnotizzate dal Pci, in costante ascesa, grazie al binomio Moro-Zaccagnini la Dc affrontò l’emergenza con lucidità e coraggio. Ma a Zaccagnini toccò il destino di Giobbe, l’uomo giusto provato dal dolore, e sulle sue spalle si abbatté la tragedia del sequestro e dell’assassinio di Moro. Il libro di Belci fa luce su questa tragedia, forse come nessun altro finora, e ci fa conoscere fatti precisi ignorando i quali il giudizio è inevitabilmente distorto.
Si è discusso molto, e con molte improprietà, intorno alla stagione della ‘solidarietà nazionale’, se essa fosse nient’altro che il compromesso storico mascherato, o un tentativo da iscrivere nella tradizione del trasformismo italiano. Ma non c’era né l’una né l’altra cosa, bensì la gestione, entro confini e in termini rigorosamente democratici, di una fase di emergenza, orientando il suo definitivo superamento verso l’approdo della ‘democrazia compiuta’. Né scontro, né accordo di potere, ma ‘confronto’: si diceva così per semplificare e rendere comprensibile dalla gente la scelta fatta. Pochi ancora oggi sanno che nei suoi discorsi e nelle sue relazioni, Zaccagnini aveva sempre respinto nettamente l’idea del compromesso storico lanciata da Enrico Berlinguer, proponendo di continuare «un serrato confronto sulle questioni politiche interne e internazionali», superando – questo sì – il muro divisorio delle contrapposizioni ideologiche. Sul tema, una delle tante volte, Zaccagnini disse esattamente così: «È chiaro che tra la Dc e il Pci restano profonde diversità, anzi la diversità, quella che conduce, sì, alla scelta del confronto, ma che rende improbabile l’accettazione del compromesso storico». Belci osserva e riporta una diffusa, sebbene imprecisa, impressione; quella di chi pensa che i discorsi sono discorsi e i fatti potevano essere ben diversi ed essere pattuiti sottobanco. E risponde che in democrazia sulle parole si guadagna o si perde il consenso, sicché le parole diventano anch’esse fatti; e nei fatti restava, con tutto il suo significato e il suo peso pratico, il non ingresso dei comunisti al governo, ed è rimasta, nei fatti, la battaglia dei comunisti solidali con tutti gli altri partiti della costituzione contro l’eversione del terrorismo.
La linea pratica dei fatti, del resto senza vere alternative, era quella di fare tutto il possibile per salvare la vita di Moro, ma nel rispetto della legalità costituzionale, impedendo cioè la distruzione della Repubblica e della convivenza civile che ne era a fondamento.
Su questa posizione si era attestato anche il 41mo congresso socialista di Torino di fine marzo 1978, con il lungo, convinto applauso al saluto di Guido Bodrato, «a testimoniare – diceva il quotidiano socialista "Avanti" – l’apprezzamento alla linea di condotta responsabile e seria che i democratici cristiani stanno mantenendo nella vicenda umana e politica del rapimento di Aldo Moro […]. Questa linea, come è stato ampiamente esternato dai sentimenti dei nostri compagni delegati, non può che trovare la piena adesione del partito socialista». Del resto Craxi aveva espresso «amarezza e sgomento»per la ‘estraneità’ dello Stato dichiarata dagli scrittori Sciascia e Moravia. In un discorso a Pavia, Zaccagnini disse fra i singhiozzi: «Cedere alle brigate rosse, per trattare da pari a pari lo Stato con un gruppo eversivo, non significa forse rinnegare il patrimonio della Resistenza, la stessa Costituzione repubblicana, coartare e umiliare la volontà del nostro Paese? Il nostro dramma è ancora maggiore, trafitti fra il nostro dolore e l’imprescindibile dovere al quale intendiamo tener fede». Ripetutamente nei comunicati della Dc ed anche del Governo il linguaggio sollecitava la ricerca e l’attesa di possibili vie d’uscita, si esprimeva «la volontà di non lasciare inesplorata nessuna strada, si considerava che finora sono stata date dai sequestratori indicazioni che disattendono le aspettative di una reale intenzione di restituire in libertà Aldo Moro», si prevedeva «che la Repubblica, attraverso le forze che la esprimono, dinanzi alla restituzione in libertà di Aldo Moro, e a comportamenti che indicassero una svolta nell’uso della violenza, saprà certamente trovare forme di generosità e di clemenza coerenti con gli ideali e le norme della Costituzione».
Né erano segnali di poco conto il viaggio di Giuseppe Lazzati e Roberto Caia a Londra per sollecitare Amnesty International, o di Eugenio Carbone mandato da Andreotti presso Tito per esplorare se nuove vie fossero percorribili, o la disponibilità a forme di comunicazione con le brigate rosse attraverso la Caritas.
Frattanto continuava lo stillicidio, lacerante e angoscioso, delle lettere di Moro dal carcere, almeno di quelle che le brigate rosse hanno voluto diffondere. Giustamente Belci sottolinea che di quelle lettere nessuno poteva allora e nessuno può oggi misurare il grado di autenticità, non nel senso materiale del termine, ma in quanto espressione libera di un uomo responsabile di ciò che andava scrivendo. Insomma Zaccagnini e il suo partito fecero quello che era lecito e possibile per sondare le reali intenzioni delle brigate rosse, ma queste avevano già deciso di disfarsi di un prigioniero per loro così ingombrante. Zaccagnini – attirandosi critiche anche pesanti, dentro e fuori la Dc – volle andare da Craxi per capire se ci fosse un qualche elemento concreto per un eventuale scambio tra Moro e le brigate rosse, come si andava ventilando; ma quando fece ritorno a piazza del Gesù, ai suoi collaboratori che l’attendevano con ansia, mostrò aperto il palmo della mano, il gesto che si fa per dire che non c’è nulla. Appena si profilò l’idea di un gesto unilaterale di clemenza da parte dello Stato, con la concessione della grazia ad un terrorista che potesse riceverla, Zaccagnini appoggiò la febbrile ricerca del guardasigilli Francesco Bonifacio che si era concentrata sui nomi di due terroristi, il Buonoconto e la Besucchio. Ma la sequenza dei fatti – assai trascurata dalle ricostruzioni scritte e da quelle filmate, ricostruzioni «a tesi» tendenti a infrangere la classe dirigente di cui Moro era il massimo esponente, con l’esplicita accusa secondo cui «la Dc lo vuole morto» – pose brutalmente fine ad ogni tentativo. Si chiedeva alle brigate rosse di far conoscere la loro disponibilità ad accettare la via d’uscita prospettata dal guardasigilli, la cui proposta sarebbe stata esplicitamente discussa e fatta propria dalla direzione della Dc convocata d’urgenza per il 9 maggio. Ma quel giorno, e non certo per caso, le brigate rosse fecero conoscere la loro risposta: assassinarono Moro. Meno di due anni dopo, il 6 gennaio 1980, nel giorno dell’Epifania, uccisero Piersanti Mattarella e di lì a poco, il 12 febbraio, cadde sotto il piombo di quei vili assassini Vittorio Bachelet.
A un anno dalla scomparsa di Zaccagnini, si è tenuto, il 10 novembre 1990, un incontro a Ravenna su di lui. Sul terribile, difficile argomento dei giudici amari e ingiusti che Moro,prigioniero delle brigate rosse, dette di Zaccagnini, Leopoldo Elia è arrivato a dire: «Moro – durante la sua prigionia – sapeva più di quello che pretendevano i brigatisti, Zac sapeva di più quelle che erano le esigenze del Paese». Parole coraggiose, e tuttavia anch’esse possono, senza volerlo, alimentare l’artificiosa antitesi tra un fronte della fermezza e un fronte della trattativa, astrazione disinvolta che fa comodo a molti ma che è lontano dalla realtà dei fatti e, comunque, non è applicabile al comportamento tenuto da Zaccagnini nella vicenda più lacerante della sua vita. Alla sera della sua giornata terrena, il nostro uomo politico innamorato di Tommaso Moro ha potuto dire di sé, in tutta sincerità: «Molte colpe, molte deficienze, che Dio solo conosce, ma una colpa so di non aver avuto. Nella mia battaglia politica non ho mai odiato nessuno».
Negli ultimi tempi di lettura comune con la moglie era il Paradiso. Era arrivato a metà del XIII canto, ai versi della meravigliosa sintesi dantesca sulla Trinità, che tanto lo affascinavano.
Ogni mattina faceva un’ora di meditazione. Il testo che era nelle sue mani era il Vangelo secondo Giovanni, le ultime pagine, quelle della passione.
Humanitas, n. 2, 1991.