Sabato 9 novembre ore 17 – Africa: percorsi di lotta e di rinascita

Sabato 9 novembre ore 17 nell’Auditorium Santa Giulia in via Piamarta n. 4 a Brescia convegno su “Africa: percorsi di lotta e di rinascita” con la partecipazione di Anna Pozzi, Godeliève Mukasarasi, Blessing Okoedion e Khalid Albaih.

Al termine i partecipanti potranno visitare gratuitamente, in autonomia, mostra di Khalid Albaih.

Promuovono l’evento: Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura, Fondazione Brescia Musei, Acli provinciali di Brescia, Fondazione Museke.

Brevi note biografiche sui relatori:

  • Godeliève Mukasarasi, ruandese, Human Rights International Award nel 2011 e International Women of Courage Award nel 2018 per la promozione della riconciliazione tra hutu e tutsi e l’impegno per la diffusione di una cultura di pace e giustizia.
  • Blessing Okoedion, ex vittima di tratta e oggi mediatrice culturale, è stata insignita dal Dipartimento di Stato americano del riconoscimento di “Eroe contro la tratta di esseri umani”. È autrice del libro Il coraggio della libertà. Una donna uscita dall’inferno della tratta (San Paolo Edizioni 2016)
  • Khalid Albaih, vignettista sudanese in esilio, nella classifica delle cento personalità più influenti in Africa.
  • Anna Pozzi, giornalista e scrittrice, è redattrice del mensile «Mondo e missione» e collabora con diverse testate per le quali ha realizzato numerosi reportage dai Paesi dell’Africa e del Medio Oriente. È autrice di vari volumi fra cui Mercanti di schiavi. Tratta e sfruttamento nel XXI secolo (San Paolo Edizioni 2016) e Africa e internet fra business e sviluppo (Vita e Pensiero 2020).

Nel trentesimo anniversario del genocidio nel Ruanda si è pensato di far parlare persone che hanno lottato nella fatica di ogni giorno, per guadagnare, con le proprie forze, il rispetto e la libertà individuali, sperimentando – in alcuni casi – percorsi innovativi di riconciliazione.

GODELIÈVE MUKASARASI è nata nel 1956 a Gitarama, nel distretto di Muhanga, dove per 25 anni ha lavorato come assistente sociale. Dopo aver sposato Emmanuel Rudasingwa, si è trasferita nel villaggio di Taba. Durante i terribili cento giorni del genocidio del 1994, Taba fu lo scenario di alcuni dei più cruenti massacri commessi dagli hutu verso i tutsi, in particolare dalla milizia paramilitare Interahamwe che stuprò e uccise centinaia di tutsi negli uffici governativi. Godeliève era hutu, ma venne comunque perseguitata in quanto moglie e madre di tutsi. Purtroppo, la figlia di Godeliève non riuscì a sfuggire alla violenza e fu vittima di uno stupro. Il sindaco di Taba era Jean-Paul Akayesu, un maestro e ispettore scolastico responsabile della gestione della polizia comunale. Akayesu non solo non impedì la furia delle milizie ma partecipò attivamente, come supervisore, a diverse esecuzioni. Inoltre compilò una lista che consegnò ai cittadini di etnia hutu affinché andassero di casa in casa alla ricerca dei concittadini tutsi. Immediatamente dopo il genocidio, Godeliève decise di utilizzare il suo background nel lavoro sociale per creare un’organizzazione che si preoccupasse di soddisfare i bisogni delle donne e dei bambini rimasti senza protezioni. Nacque così SEVOTA, un’organizzazione che ancora oggi lavora, attraverso uno staff di professionisti, per promuovere la riconciliazione tra hutu e tutsi e diffondere una cultura di pace e non violenza tra le vedove e gli orfani di guerra. Convinti che la riconciliazione dovesse passare attraverso il riconoscimento dei crimini e dei perpetuatori, Godeliève e suo marito si impegnarono sin da subito nel cercare giustizia per i sopravvissuti. In un momento in cui il Paese era ancora succube dell’instabilità politica e della violenza armata, nel 1996 accettarono di testimoniare davanti al Tribunale penale internazionale per il Ruanda (ICTR), l’organo creato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per giudicare i responsabili del genocidio. Accettarono di testimoniare nel caso inaugurale del processo, che si sarebbe tenuto proprio contro il loro sindaco Akayesu, che nel frattempo era stato arrestato in Zambia. Poco prima di apparire davanti alla corte, sua figlia e suo marito Emmanuel vennero assassinati da una milizia armata. Nonostante il dolore e le minacce che ricevette in seguito, Godeliève ebbe la forza di trovare altre quattro persone che con coraggio accettarono di testimoniare contro Akayesu. Iniziò così un percorso processuale molto complesso. Akayesu aveva su di sé quindici capi di imputazione per genocidio e crimini contro l’umanità, compreso lo stupro, e violazioni della Convenzione di Ginevra. Per i suoi difensori, Akayesu non aveva preso parte agli omicidi né avrebbe avuto il potere per fermarli: sostenevano che il loro assistito era stato trasformato in un capro espiatorio che avrebbe dovuto pagare i crimini commessi da tutta la popolazione di Taba. Il 2 ottobre 1998 Akayesu venne condannato all’ergastolo. Il tribunale lo ritenne colpevole di nove reati tra cui genocidio e istigazione diretta e pubblica a commettere genocidio. Si trattò di una sentenza storica, perché fu la prima volta che venne applicata la Convenzione del 1948 per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio. La corte chiarì che il genocidio è un crimine di intenti specifici che porta l’imputato al di fuori dell’ambito del conflitto armato. Si tratta di un precedente legale importantissimo: i giudici hanno riconosciuto che lo stupro e la violenza sessuale con l’intento di distruggere un particolare gruppo costituiscono un genocidio. Per il suo coraggio, Godeliève Mukasarasi ha ricevuto lo Human Rights International Award nel 2011 e l’International Women of Courage Award nel 2018. A proposito del processo, Godeliève ha spiegato che “il fatto che lo stupro venne preso in considerazione per condannare Akayesu ha avuto un impatto mondiale sulla questione della violenza sessuale sulle donne. Nonostante io sia una donna di campagna con pochi mezzi, ho aiutato a denunciare le ingiustizie e a lottare per l’umanità”. Oggi Godeliève è ancora impegnata in SEVOTA, che riunisce 80 associazioni con oltre 2000 membri. Tra le iniziative in cui è maggiormente impegnata c’è l’assistenza medica per le sopravvissute alla violenza sessuale durante il genocidio: il 70% delle donne violentate in Ruanda nel 1994 è stato infettato con il virus dell’HIV. Diverse di loro non hanno una casa, dopo che le proprie abitazioni sono state bruciate durante i massacri. Spesso sono costrette a vivere in ambienti poco favorevoli al recupero psicologico, tra gli uomini che le hanno stuprate e ucciso i loro parenti. “Dobbiamo imparare a vivere positivamente con il male e il bene”, ha detto Mukasarasi in un’intervista. “Tutti vivono ancora con le conseguenze del genocidio. Alcuni dei perpetuatori sono finiti in prigione, ma una volta usciti sono tornati a vivere vicino ai sopravvissuti. Il genocidio non è finito; i sopravvissuti vivono ancora con coloro che hanno commesso i crimini”.

 

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